Percorso

Memorie d'oltrecinema: ''Anime nere'' di Francesco Munzi

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire un grande film che riemerge dal passato

''Anime nere''Fresco vincitore di ben nove David di Donatello (film, regia, canzone originale, produzione, suono in presa diretta, fotografia, montaggio, sceneggiatura, musica), Anime nere di Francesco Munzi non dovrebbe far parte dei film “sommersi” ai quali è dedicata questa rubrica. Ma pure, nella sua breve vita commerciale, la pellicola è sembrata appartenere alla categoria delle opere molto “ammirate” ma poco viste e quasi mai premiate.

Il primo incidente di percorso avvenne a Venezia: presentato nella sezione principale, il film rappresentava, più che degnamente, il cinema italiano. Fu accolto benissimo dalla critica ed era dato tra i vincenti. Non ebbe alcun premio, sovrastato soprattutto da un film, certamente bello – Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza – ma tipicamente festivaliero, ovvero giocato su una forma quasi sperimentale.

L’altro grande avversario fu il “block-buster” d’autore di Alejandro Gonzales Inarrritu, Birdman, anch’esso relegato dalla giuria a riconoscimenti minori, ma riscattato dalla vittoria agli Oscar, e da tanti altri riconoscimenti, tra i quali proprio il David di Donatello per il miglior film straniero.
Privato di una promozione importante come quella veneziana, il film di Munzi uscì a fine estate e scontò il fiacco mercato del periodo. Fu dimenticato anche da coloro – tra cui chi scrive – che l’avevano esaltato come uno dei migliori film italiani (e non solo) degli ultimi anni.

''Anime nere''Ora, poiché il suo percorso commerciale nelle sale  sta riprendendo (a Cagliari è in programmazione al Cinema Odissea), proviamo, nel nostro piccolo mondo critico, a salvarlo dall’oblio.
Cominciamo col sottolineare che il quarantaseienne romano Francesco Munzi, diplomato nel 1998 al Centro Sperimentale di cinematografia, non è affatto un regista sconosciuto. Saimir (2005), il suo esordio nel lungometraggio, gli valse numerosi premi alla stessa Mostra del cinema di Venezia, un nastro d’argento e un David di Donatello per la sceneggiatura. Il suo secondo titolo, Il resto della notte (2008), fu selezionato per la Quinzaine des realisateurs a Cannes, ma non ebbe il successo di critica e di pubblico di Saimir, benchè sia un’opera assolutamente di valore.
A Cagliari fu presentata dallo stesso Munzi, nell’estate del 2008, all’Arena di Villa Muscas, e il pubblico ebbe reazioni contrastanti che travalicavano le incertezze della sceneggiatura (troppo spazio alle traversie sentimentali di una coppia di ricchi borghesi) e si appuntavano sui personaggi di spalla (tre romeni e un tossicodipendente italiano) che progressivamente diventano i veri protagonisti.

Secondo le parole di Munzi, quel pubblico “soffriva” per il fatto di non poteva schierarsi dalla parte degli stranieri emarginati, ma nel film anche delinquenti abituali. Già in Saimir, il giovanissimo e spaesato protagonista, albanese, si vergognava del padre che gestiva con profitto un traffico di prostitute; in Il resto della notte, un altro adolescente viene coinvolto dal fratello in una rapina. Insomma, il sottotesto di Il resto della notte è il diagramma di un’emarginazione che segna la sorte anche dei giovanissimi emigrati.

''Anime nere''La “separatezza” è, paradossalmente, anche l’estremo sottotesto di Anime nere, in cui i protagonisti  sono italiani. Il film è ispirato ad un romanzo dallo stesso titolo – in crescita di attenzione, anche grazie al film – scritto da Gioacchino Criaco e pubblicato nel 2008 da Rubettino. Primo episodio di una trilogia dedicata al malessere calabrese (che, sintetizzando, si può legare alla criminalità organizzata, al degrado sociale, allo spopolamento), il testo letterario è una sorta di romanzo di formazione, al negativo, di tre ragazzi che girano l’Europa trafficando con ogni genere di affari e finendo per diventare dei veri criminali.
Associato alla sceneggiatura del film dallo stesso regista, Criaco ha accettato un radicale cambiamento della storia principale, lasciando inalterati lo sfondo geografico e soprattutto antropologico: un aspetto che, in realtà caratterizza in maniera decisiva l’intero film.

I protagonisti sono infatti tre fratelli di Africo, paese che oggi conta poco più di tremila abitanti, è affacciato sul mare Ionio, ma fino agli anni Sessanta era un piccolo borgo ai piedi dell’Aspromonte, devastato da un’alluvione nel 1951. Fu abbandonato, o come scrisse Corrado Stajano, i suoi abitanti furono “deportati” nella pianura antistante il mare. Le poche case ancora piedi sono abitate stagionalmente o occupate da allevatori di capre che ricordano la saga di Corrado Alvaro, Gente d’Aspromonte (1930), nativo di un altro paese della stessa zona, San Luca, a nord del celebre triangolo della criminalità mafiosa  ancora attivissima.

''Anime nere''Questa prima diaspora, mai citata esplicitamente, è simbolicamente evocata da una brevissima inquadratura che appare, dopo pochi minuti dall’inizio del film: un gregge di capre, guidato da un giovane pastore, pascola incongruamente in riva al mare. La stessa inquadratura viene ripetuta nel finale. In pratica  è una sorta di cornice antropologica che fornisce una prima chiave interpretativa: il presente/passato che trascende la modernità.
La narrazione vera e propria si apre però su un prologo  tipico del “noir”: in uno yacht del porto di Amsterdam, Luigi Carbone e il suo “scherano” Nicola s’incontrano con un gruppo di trafficanti colombiani di cocaina. Gli accordi sono veloci e basta una stretta di mano per siglarli: i Carbone Carbone avranno la merce da vendere nelle sue zone d’influenza.

Nella seconda sequenza siamo a Milano: conosciamo il fratello di Luigi, Rocco, sposato con una straniera, padre di una bambina, impegnato dapprima in affari finanziari, quindi in un cantiere edile mentre paga, in contanti, presumibilmente in nero, i suoi operai.
Dopo i titoli di testa, e la già descritta scena del pastore,  vi è un altro segno di appartenenza geografica e culturale, costruita quasi comicamente: Luigi, Nicola e Rocco viaggiano nella campagna lombarda. Hanno fame ma, inaspettatamente, i primi due si dirigono verso una cascina che sembra abbandonata: rubano una capra, la uccidono, la macellano, e la cucinano in un locale, egualmente isolato in mezzo alla campagna, gestito da un loro conterraneo: una sorta di ristorante/night/bordello con straniere provenienti dall’est Europa.

''Anime nere''Nello stesso locale Rocco, che non vuole abbandonare la posizione acquisita grazie al denaro “sporco”, reinvestito, più o meno legalmente, nell’edilizia, ricorda al fratello che la famiglia Barrecca, giù in Calabria, chiede di poter entrare nel giro della cocaina. Luigi risponde in maniera sprezzante, anticipando agli spettatori il ricordo di una faida che si rivelerà attraverso altri segnali: la fotografia del padre dei tre fratelli, pastore, ucciso o perché testimone scomodo di un sequestro di persona, o perché coinvolto in qualche affare delittuoso andato a male. L’immagine dell’ucciso campeggia infatti nella vecchia Africo, in montagna, a casa dal terzo fratello, Luciano,  che non vuole sapere nulla dei traffici di droga e delle altre imprese dei congiunti. Lui alleva le capre, conosce le erbe e ha fama di guaritore, è devoto a San Rocco; egli stesso si cura con la celebre “polvere dei santi” raccattata nella vecchia chiesa abbandonata e diroccata e sciolta nell’acqua.

Luciano è un personaggio che appartiene ancora al “mondo magico” di Ernesto De Martino. Munzi è laureato in Scienze politiche e di certo si è imbattuto nei libri dello studioso di demologia, ma ha anche sicuramente visto i tanti documentari degli anni Cinquanta e Sessanta, basati sulle ricerche dell’antropologo napoletano. Però la sua descrizione dei resti di quel mondo in cui paganesimo e cristianesimo si intrecciavano, è totalmente decantata: un residuo quasi esistenziale e senza uscita, di una presunta innocenza del mondo contadino.

''Anime nere''In realtà, come si vedrà nel finale, quello stesso mondo provocava tanto sangue e tanta miseria. Non a caso, sarà un atto puramente teppistico di Leo, figlio ventenne di Luciano, a far scattare la molla che riaccenderà la faida, già calda a causa non solo dell’impossibilità alla riconciliazione, ma anche dei mancati accordi sul traffico di droga. Dopo quel gesto provocatorio, che il ragazzo vuole usare anche per accreditarsi come uomo d’onore e di fegato nei confronti dei fratelli, tutto precipita. La scena si stabilisce definitivamente a Africo e il racconto, pur senza mai esplodere in maniera visibilmente cruenta, accumula morti e funerali, pianti di vedove e silenzi ostili, al punto che la moglie di Rocco (Barbara Bobulova), arrivata in paese per il funerale del cognato Luigi, prende atto della sua estraneità a quel luogo – e di essere considerata un’estranea – e torna a Milano.

Francesco Munzi ha dichiarato che il finale, improvviso e inaspettato come fosse una mazzata nei confronti dello spettatore (è anche l’unica sequenza visibilmente cruenta di tutto il film, a parte il sangue degli animali macellati, anch’esso comunque metaforico), deve molto ad un bellissimo film di Abel Ferrara, Fratelli che, anche nel titolo originale, The funeral, evoca i rituali di Anime nere e il loro sottofondo da tragedia greca che mai si muta in melodramma consolatorio.

''Anime nere''Ma si può dire che il sottotesto narrativo non è poi tanto lontano da un’altra celebre saga, Il padrino, la cui carica antropologica – ridotta a folclore nei ritorni a casa, in Sicilia, dei tanti Corleone che si susseguono nelle tre pellicole – è invece, nel film di Munzi, restituita integralmente alla terra che ha prodotto quell’esplosione di violenza ancestrale, atavica, e che neanche la legalizzazione degli affari criminali (il sogno di Don Vito Corleone e di suo figlio Michael) ha potuto eliminare e neanche ammansire. Così la progressiva messa a fuoco di un paesaggio diviso tra le macerie del passato – è in montagna che si nascondono le armi e si rifugiano i presunti alleati dei Carbone, tutti latitanti e pronti a seguire il vincitore della nuova faida – e lo squallore del presente, ricordano il bellissimo e tristissimo documentario di Vittorio De Seta, In Calabria (1993), in cui si denunciava, sulle tracce di Pasolini, il fallimento della modernità che aveva prodotto criminalità, emigrazione e degrado sociale e materiale.

La traccia narrativa, che sfiora, come si è detto, il cinema di genere, finisce invece per evocare una sorta di  terza parte – peraltro mai girata e neanche pensata –  del celebre dittico viscontiano sui vinti del Meridione: La terra trema (1948) e Rocco e i suoi fratelli (1960). Anche lì i fratelli Parondi conoscono, in maniera tragica, il prezzo dell’integrazione nel nord, ma proprio l’ambientazione nell’epoca del boom economico, nonché lo schieramento politico del regista e dei suoi collaboratori, permetteva di vedere la nascita di una nuova comunità solidale: la fabbrica e il mondo dei lavoratori.

''Anime nere''Ora, al di là dei tempi storici lontani anni luce dal presente, Anime nere, depurato anche dall’obbligatorio senso estetico para romantico di Visconti, riparte dal “realismo” estremo del Verga che ispirò proprio La terra trema. Sarebbe inconcepibile senza l’uso dei dialetti, senza la commistione costante tra attori professionisti (Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbara Bobulova), alcuni dei quali provenienti dai  teatri meridionali, e coloro che sono stati selezionati, dopo un lavoro di preparazione e di ambientazione, tra gli abitanti di Africo e di altri paesi vicini. Non a caso la costruzione del film è durata un anno intero ed è stata accompagnata dalla consulenza costante dello scrittore e sceneggiatore Gioacchino Criaco.

La verità e credibilità di Anime nere stanno dunque nell’integrazione degli autori – difficile e talvolta sospettosa – con il mondo calabrese; nei gesti e nei volti delle persone; nei silenzi delle donne; nei dettagli del paesaggio; e soprattutto nella non necessità narrativa di tante sequenze, piccole e grandi, che servono a fare entrare lo spettatore nella tessitura ambientale: fargli conoscere Africo senza esserci mai stati. 

''Anime nere''E giusto per citare l’obbligatorio confronto con l’ultimo grande film dedicato alla criminalità organizzata, Gomorra di Matteo Garrone – poi quasi “clonato” da produzioni televisive di vario tipo e tutte ben congegnate e attrattive – Anime nere appartiene ad un modello di cinema totalmente opposto. Non cerca affatto l’auto rappresentazione narcisistica della criminalità, così naturale a Napoli, e giustamente usata come strumento di racconto e quasi di testimonianza da un inferno che si è ormai normalizzato  e “novellizzato” con e  senza il cinematografo. A parte la diversità della forma e dello stile di regia (in Garrone prevale un entomologia del crimine che non ammette forzature drammaturgiche), il film di Munzi, attento alla portata classica della tragedia, mai urlata, ma dolorosa e sofferta interiormente, non avrebbe mai funzionato attraverso quel modello di auto rappresentazione. Sarebbe stato vissuto con disagio e probabilmente rifiutato come falso dagli stessi abitanti di Africo.

24 giugno 2015

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