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Memorie d'Oltrecinema. ''Sarabanda'' (2003) di Ingmar Bergman

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

''Saraband''Quattro anni prima della sua morte, avvenuta nell’estate del 2007, Ingmar Bergman girò il suo ultimo film, Sarabanda – questo è anche il titolo originale, Saraband, riferimento ad un movimento della suite per violoncello n. 5 di J. S. Bach – che, facilmente e quasi banalmente, potrebbe essere definito testamentario.

Ma, per ora, lasciamo pure stare questa osservazione, visto che l’idea testamentaria finisce per “avvolgere”, in una sorta di gigantesca “mise en abyme”, l’intera carriera filmica, teatrale, letteraria del regista svedese.

Dunque, torniamo indietro a ventuno anni prima, il 1982. Ingmar Bergman ha appena presentato in anteprima, alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Fanny e Alexander: quasi sei ore di proiezione, interrotte da un piccolo intervallo, e seguita, sia nella proiezione per la stampa, sia nelle sale per il pubblico pagante, da un religioso silenzio, da una percepibile commozione, da una progressiva esaltazione per quella cavalcata attraverso una sorta di “falsa” biografia dell’autore. Le feste natalizie in casa della nonna sono infatti lo spunto per una rievocazione memoriale che mescola l’esaltazione dell’infanzia alla disillusione e alle tragedie.

''Saraband''Un modello sempre presente nelle sue opere più celebri e nel suo repertorio teatrale, entrambi dominati dagli Spettri strindberghiani, che sono poi anche il riscontro più immediato, sul piano delle evocazioni e delle derivazioni, di Sarabanda.
A Venezia, il regista apparve quasi magicamente alla conferenza stampa, come se, materializzando una sua celebre frase, avesse deciso di lasciare per pochi minuti la sua vita mentale prevalentemente collocata nel passato, per mescolarsi a coloro che ancora vivevano nel presente. A disagio in mezzo a qualche centinaio di persone che gli rivolgevano domane in larga parte banali se non stupide, affermò,  senza mezzi termini, che Fanny e Alexander sarebbe stato il suo ultimo lavoro cinematografico. Si sentiva stanco. Eppure aveva appena 64 anni, e oltretutto la sua nuova vita coniugale, l’ennesima, andava a gonfie vele e gli lasciava la mente sgombra per continuare a scrivere e progettare nuove avventure sceniche.

L’isola di Fårö, da lui acquistata come “buen ritiro” non era l’inferno – quello visualizzato in tante pellicole degli anni Sessanta – ma il paradiso di un artista. E difatti Bergman non solo continuò a scrivere romanzi e racconti, ma anche a mettere in scena testi teatrali e finanche opere di finzione che è difficile non definire filmiche. Complessivamente ben otto – una media alta in vent’anni di presunta inattività – con alcuni titoli di grandissima rilevanza, anche se più o meno sconosciuti: da Dopo la prova (1984) a Il segno (1987), da Vanità e affanni (1997) a Bildmakarna (2000) e appunto Sarabanda.

''Saraband''All’epoca della dichiarazione del 1982 era ancora in atto una scissione non solo produttiva, ma anche tecnica, estetica e comunicativa tra televisione e cinema. C’erano già stati punti di contatto importanti – la Rai degli anni Settanta aiutò gli autori in un momento di crisi crescente della redditività delle sale; le televisioni statali tedesche furono la base produttiva della rinascita di quel cinema, ovvero della visibilità dei Wenders, Herzog, Kluge, Fassbinder – ma certo sia la trasposizione di Berlin Alexanderplatz (1980), presentata nelle sale e poi in tv, sia Fanny e Alexander, e quindi le diverse serie di Heimat di Edgar Reitz (1984-2004), concretizzarono l’unificazione mediatica, peraltro  graditissima al pubblico televisivo di quegli ultimi anni di divulgazione culturale, visto che riusciva a tenere altissimo il livello estetico e la forma specifica del cinema, anche adattandosi al piccolo schermo. Non a caso le quattro puntate di Fanny e Alexander, trasmesse in prima serata su Raiuno, ebbero oltre quattro milioni di spettatori, cifra impensabile appena qualche anno dopo per un film di Bergman.

Difatti, Sarabanda, coprodotto dalla televisione pubblica, fu nascosto per diversi anni, fino a quando Enrico Ghezzi decise che, comunque, era meglio trasmetterlo “in notturna” su Fuori Orario, piuttosto che farlo marcire nei magazzini.
Infine, giusto per segnare ulteriormente le successive unificazioni tecnologiche, Sarabanda fu girato interamente in digitale; anticipò di oltre dieci anni la più o meno totale estinzione della pellicola, anche se Bergman dispose un successivo trasferimento nel vecchio formato – che fu poi rifiutato perché imperfetto sul piano dei colori – per poterlo distribuire nelle sale. Oggi, come si sa, queste distinzioni sono ormai acqua passata.

''Saraband''Ed eccoci tornati al lato testamentario e biografico del film. Nella prima sequenza, definita,  nei titoli di testa, un prologo, Liv Ullman, alias Marianne, ha di fronte, sparse su un tavolo, un centinaio di fotografie: la memoria del tempo e quella personale, o anche legata agli affetti. Un “topos” proustiano, anche biografico, che Raul Ruiz, in Il tempo ritrovato (1998), ha utilizzato come incipit – in “limine mortis” – della discesa memoriale che mescola i veri ricordi fotografici di Marcel, ovvero i familiari, gli amici, le sue passioni sentimentali, alle creazione dei suoi personaggi di cui sentiamo la voce, poi, lungo la narrazione, associata alle immagini. Il “limine” di Marianne è meno tragico, ma assai più complesso: la donna era la protagonista dei più grande successo internazionale di Bergman, Scene da un matrimonio (1973), anch’esso girato per la televisione (sei puntate di un ora) e quindi ridotta a due ore per le sale. Si narra la lunga, prima serena, poi astiosa, quindi nuovamente appassionata, poi ulteriormente lacerata fino alla separazione finale, storia d’amore di Marianne e Johan.

''Saraband''Una vicenda in cui le tessiture drammaturgiche si specchiano nelle dichiarazioni, falsamente documentarie, dei due protagonisti di fronte alla macchina da presa: vivono il loro dramma e lo commentano per gli spettatori. Johan è appunto Erland Josephson, un vecchio  esageratamente misantropo che, da tempo, si è ritirato dal mondo, in una casa ottocentesca in riva ad un lago, senza mai vedere nessuno, ad esclusione della governante e dell’invasivo figlio, Henrik, ormai sessantenne, musicista, che si è sistemato – quasi sfidandolo – sull’altra riva del lago assieme a Karin, la figlia ventenne. Johan, che considera il figlio un fallito e lo disprezza, essendone caldamente ricambiato, cercherà di sottrarre alla sua influenza proprio la figlia, prospettandole un futuro artistico da violoncellista interamente sostenuto, anche economicamente da lui, e affidato ad autentici maestri.

''Saraband''Marianne giunge alla casa, apparentemente non gradita, mentre si consumano gli odi familiari: fa da madre/nonna alla nipote di Joahn, a cui racconta il suo travagliato rapporto con Joahn; sembra animare anche il suo ex marito, sia pure attraverso ricordi anche dolorosi (una loro figlia è in stato di catalessi in ospedale psichiatrico), assiste alla definitiva rottura – dai risvolti tragici – dei rapporti tra padre e figlio e alla fuga della nipote, che accetterà una proposta per un lungo corso di formazione, in Germania, con un’orchestra prestigiosa che sarà anche il suo passaporto professionale. C’è poi un sesto personaggio, presente solo in fotografia: è Anna, la moglie di Henrik, morta qualche anno prima, amata dal marito e adorata dal suocero che su di lei riponeva un amore filiale che non aveva mai avuto per il figlio.

Le parole e l’immagine, che assieme al nome Karin (era anche la madre di Bergman, omaggiata da un bellissimo documentario di sole immagini fisse, Il volto di Karin, girato ne 1986) ci riportano alla galleria degli affetti e dei dolori incancellabili, sorta di traccia drammaturgica che si concentra soprattutto nel rapporto di possesso, al limite dell’incesto, che lega Henrink a Karin, sostituto della moglie adorata scomparsa precocemente. Nel capitolo finale, in una scena quasi orrorifica,  Joahn chiede di passare la notte con l’ex moglie, e resta abbracciato a lei, entrambi nudi, fino al mattino, in attesa che passi l’inarrestabile tremore e terrore della morte o forse della vita. La nudità, una scelta coraggiosissima e del regista e degli interpreti, è ovviamente un tratto facilmente simbolico: i personaggi, in un film, vanno messi letteralmente a nudo.

''Saraband''Ma attenzione, questo tipo d’interpretazioni legate a figure retoriche, non sempre funzionano in Bergman: la nudità può anche rappresentare un ultimo momento di affetto che, non a caso, non si ripeterà più. Dopo la partenza di Marianne, Joahn sparirà completamente: non risponderà al telefono, né alle diverse lettere, e il regista non ci dice se sia morto e si sia nuovamente rintanato nella sua solitudine, evitando qualsiasi contatto.
Allo stesso modo, l’immagine fissa di Karin al violoncello, su uno sfondo bianchissimo, che si allontana riducendosi ad un puntino, conserva una carica estetico-figurativa di gran lunga più sconvolgente di qualsiasi interpretazione didascalica: il futuro della musicista, solista, che si allontana dopo la sua scelta di vivere, anche musicalmente, con gli altri, in un’orchestra, fuggendo dalla segregazione familiare.

Un’altra sequenza problematica è collocata nel pre finale, prima della straordinaria inquadratura in cui timidamente si affaccia il sorriso e gli occhi aperti della figlia psicotica a contatto con le mani della madre. Marianne è di nuovo al tavolo, come nel prologo: ha in mano la fotografia in cui lei e Joahn sono nudi, quindi tira fuori dal mucchio il ritratto di Anna incorniciato che stava nella casa di Joahn. Come scrive Antonio Costa, siamo alla fine o all’inizio di un processo di messa in scena in cui Liv Ullmann non è ancora Marianne?

''Saraband''Dunque, eccoci di nuovo all’immancabile ma indiretta biografia. Joahn, con la sua solitudine, il suo difficile o inesistente rapporto con i figli, la sua tirannide, il suo bisogno di possedere e dominare gli altri è l’“alter ego” di Bergman, a sua volta individuato nell’attore Erland Josephson, che gli è stato compagno per quasi trent’anni sostituendo progressivamente il primo grande “sodale” del regista, Max Von Sidow. Marianne, a sua volta, si trasforma inevitabilmente nella vera Liv Ullman, compagna del regista per cinque anni, madre di un suo figlio, attrice e moglie devota e poi quasi nominata erede del suo cinema con due pellicole scritte dal regista: Conversazione private, e soprattutto L’infedele, in cui l’attore protagonista è di nuovo Erland Josephson, che peraltro, apertamente, rievoca un momento tragico della vita di Bergman,  artista e  uomo passionale e egoista oltre ogni misura.

Questa vertigine della memoria che “ricrea” la vita (e, a sua volta, la memoria è  creata dall’intensità della vita stessa) è altresì testimoniata da un recentissimo film di Dheeraj Akolkar, Liv & Ingmar, trasmesso recentemente da Sky, in cui la musa principale del regista svedese racconta la propria vita affettiva, familiare e professionale accanto  al “genio” tirannico. Fu lei a vedere Bergman nella sua isola – di nuovo un richiamo a Sarabanda: l’ultimo incontro con gli affetti di un tempo – poco giorni prima che morisse; e fu lei a stargli accanto dopo che Bergman, nel 1995, ebbe il suo ultimo lutto familiare, ricalcato apertamente nella figura, anche solo fotografica, di Anna.

''Saraband''Insomma, se come scrive il critico canadese Marc Gervais, il suo ultimo film ufficiale, Fanny e Alexander, rappresentò la straordinaria creazione di un mondo illusorio, in cui la scena – le feste familiari e il teatro – rappresentavano un rifugio contro la “tana di lupi” che è il mondo, Sarabanda ritorna, come una sorta di inevitabile alternanza bipolare, non solo alla rappresentazione di quel mondo di lupi, ma alla vita stessa, nella sua essenzialità tragica e, nonostante tutto, al bisogno di una fede, magari anche religiosa. Ecco un altro appiglio biofilmografico e testamentario: un capitolo del film – complessivamente sono dieci più il prologo e l’epilogo – ha per titolo Bach. Si svolge in una piccola chiesa vuota che non può non ricordare Luci d’inverno (1963), il più celebre e più riuscito della trilogia sul “silenzio di Dio”.

Qui però il silenzio, tragicizzato nel colloquio tra l’astioso Henrik e la pacifica Marianne, ha la sonorità divina di Bach, suonato all’organo dallo stesso Henrik, e lo sguardo compassionevole di un Cristo sofferente che sta in mezzo agli apostoli in un bellissimo e piccolo retablo scultoreo posto sull’altare. Forse il Dio di Bergman è una presenza che, come da tradizione protestante, gli uomini non sono in grado di percepire.

22 luglio 2015