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Memorie d'Oltrecinema. "La fuga" di Delmer Daves (1947) "Una donna nel lago" di Robert Montgomery (1947)

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

''La fuga'' - ''La donna nel lago''Nel 1947 furono prodotti a Hollywood due film gialli o  – per usare un termine che ha cancellato il colore delle copertine dei romanzi Mondadori – noir.
Il primo, prodotto dalla MGM, era tratto da un romanzo non troppo famoso e neanche classificabile tra i migliori testi di Raymond Chandler, La signora nel lago; fu portato sullo schermo dall’attore e regista Robert Montgomery con il titolo Una donna nel lago. Qualche mese più tardi, la Warner presentò un’altra pellicola, La fuga, certamente più famosa – anche per la coppia d’interpreti, Humphrey Bogart e Lauren Bacall – basata anch’essa su un romanzo noir: Dark passage di David Goodis.

Nel primo film, Robert Montgomery, interprete principale, compariva in figura intera, nel prologo, per spiegare l’origine del mistero di cui sarebbe stato protagonista: una serie di uccisioni avvenute tra i quartieri alti di Los Angeles e le montagne circostanti. Altre rare apparizioni in volto e/o in corpo, prima del finale felicemente romantico e non chandleriano, vedono l’attore esclusivamente di fronte ad uno specchio. Il racconto è dunque costruito attraverso una soggettiva pressoché totale, il che non facilita, ieri come oggi, il meccanismo d’identificazione del protagonista, tipico del racconto epico. Difatti il film non ottenne alcun successo: oggi è un reperto preziosissimo per una storia dei linguaggi filmici.

''La fuga'' La fuga racconta invece l’odissea di Vincent Parry, condannato all’ergastolo per uxoricidio, che, evaso dal carcere di Alcatraz, si reca a San Francisco, braccato dalla polizia, per cercare le prove della sua innocenza. Anche in questo film, per una buona metà del suo svolgimento lo spettatore non vede il volto del protagonista, se non nelle fotografie pubblicate dai giornali che annunciano la sua fuga e la sua pericolosità. In questa importantissima “tranche” narrativa, la soggettiva integrale, molto movimentata, è interrotta solo dalle inquadrature di ambientazione totalmente oggettivate, e non percepite dal protagonista: il penitenziario in cui risuonano le sirene, i blocchi stradali della polizia, alcune vedute della metropoli, i dialoghi tra gli altri personaggi in sua assenza. Solo dopo che un chirurgo interviene sul suo volto, mutandone i connotati, possiamo finalmente ammirare i lineamenti divistici di Humphrey Bogart.

Pare che i due registi, nonostante fossero sotto contratto per case di produzione concorrenti, si siano scambiate le idee di regia, entrambe legate alle tecniche narrative dei romanzi dai quali erano stati ricavati i film. Nel caso di La fuga, l’assoluto schematismo narrativo dei romanzi di Goodis – non a caso sceneggiatore per l’Hitchcock televisivo, oltre che per FullerTourneur – intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore su certe figure di predestinati, magari poi corrette dal lieto fine hollywoodiano, presente in dosi massicce anche in La fuga.

''La fuga'' Proprio questa predestinazione da tragedia greca è l’ingrediente principale del secondo film di François Truffaut, Tirate sul pianista (1961), ricavato anche questo da Goodis, e basato sulle traversie di un pianista, a suo tempo ex grande promessa della musica, perseguitato da gangster di mezza tacca ma comunque pericolosi, e soprattutto amato da donne che, per lui, sacrificano la loro vita. Una catarsi al rovescio che il regista francese sfruttò nel miglior modo possibile, rispettando la tipologia caratteriale dei personaggi del romanziere. Goodis fu, non a caso, uno degli ultimi rappresentanti del noir basato su esseri umani che si muovono dentro un universo criminale normalizzato: una delle tante varianti esistenziali della vita dell’uomo, come avrebbe scritto Raymond Chandler per omaggiare il suo maestro Dashell Hammett: «Restituì il delitto alle persone che lo avevano commesso».

Ma per tornare al film di Daves e, ovviamente, anche a Una donna nel lago, potremmo pensare di applicare ai due titoli una sorta di provocazione buttata lì, durante un convegno, da un celebre studioso: «Il cinema è, solo casualmente, un’invenzione francese; i veri inventori sono stati i nord americani e in particolare i produttori, oltre che i registi statunitensi.»

''La fuga'' La chiave di quest’affermazione, che può essere benissimo contestata, sta nella facile constatazione che la maggior parte, e soprattutto le più comuni, tecniche narrative del cinematografo sono nate e si sono perfezionate negli Stati Uniti. Il cinema americano ha, di fatto, trasferito sullo schermo il grande repertorio romanzesco dell’Ottocento, direttamente (cioè con le discusse e spesso famigerate trasposizioni da opere letterarie, famose o meno), e soprattutto indirettamente, mutuando, come ricorda spesso Umberto Eco, i propri linguaggi, compresi i piani sequenza o le riprese in continuità, dalle descrizioni letterarie. Quest’evidenza, studiata da un libro straordinario come Il lucernario dell’infinito di Noël Burch e poi certificata dal trionfo della narrazione filmica in tutto il mondo, pur con differenze sostanziali tra le diverse nazioni o continenti, ha però lasciato in ombra lo studio dello spazio scenico. Eppure, nel western classico, la Monument Valley – come scrivono, con qualche esagerazione, due studiosi francesi, Leutrat e Liandrat-Guigues – non è solo una scenografia particolarmente suggestiva, ma un luogo della memoria, quasi proustiano, che esalta una sorta di rimpianto per il paese originario, senza le sovrapposizioni della civiltà moderna.

''La fuga'' Ma anche senza citare un genere dominato dagli spazi aperti, dalle linee orizzontali, e virtualmente infiniti, proprio il noir, a partire dagli anni Trenta ha ricalcato, magari inconsciamente,  i suoi riferimenti scenici  sul realismo inquietante di un pittore come Edward Hopper. In alternativa alla raffigurazione di una metropoli “dannata”, solitaria e criminale, non è mai mancato lo spazio scenico alternativo, anch’esso mitologico: la presunta vita pacifica di campagna raffigurata da un altro pittore, Grant Wood. L’autore di un’esaltata ma altrettanto inquietante American Gotic (è il titolo del suo più famoso dipinto), ha, non a caso, nutrito l’horror di Stephen King e dei suoi epigoni, ambientato nell’estrema provincia statunitense. Infine, gli apporti dell’espressionismo tedesco degli anni Venti e Trenta e il realismo del dopoguerra hanno certamente aumentato il peso specifico della costruzione scenica rispetto alla dominante narrativa.

Non a caso, in Una donna nel lago, la soggettiva potrebbe essere teoricamente affiancata al celebre Film di Samuel Beckett (diretto nel 1963 da Alain Schneider) in cui il grande e ormai vecchio Buster Keaton cerca di sfuggire a ogni sguardo, fosse anche quello di un pesce che galleggia in una boccia di vetro. Però, l’estrema e tipica scarnificazione del testo di Beckett conduce a un unico significato: Keaton ha semplicemente paura che lo specchio o lo sguardo altrui lo mettano a confronto con la morte.

''La donna nel lago''Invece, nel film di Robert Montgomery l’attesa di una rivelazione piena e definitiva del personaggio può essere letta come un accrescimento della suspense che, mettendo in scena esclusivamente ciò che vede il protagonista (persone, oggetti, luoghi, case) dovrebbe aiutare lo spettatore a decifrare la soluzione dei tanti omicidi che punteggiano il racconto. Entrambe le pellicole sono dunque confinanti con una delle filosofie principali delle “vagues” europee degli anni Cinquanta e Sessanta, in cui, molto spesso, l’immagine filmica finiva per porsi in un rapporto di continua interrogazione, rivolta al pubblico, sul loro significato.

Al contrario, in La fuga, il “nascondimento” dell’identità visiva del protagonista, affidata non casualmente a una riproduzione di secondo grado (le foto sui giornali) e caratterizzata da una sorta di fisiognomica “lombrosiana”, serve non solo a portare la suspense a livelli altissimi ma anche a mettere a confronto il volto di un tipico “villain” – che avrebbe anche potuto essere il vero colpevole – con quello di un divo che ormai interpretava quasi esclusivamente ruoli più o meno eroici.

''La donna nel lago''Dopo questa premesse sull’importanza dello sguardo nella costruzione filmica, occorre anche dire che la fabula e soprattutto l’intreccio del film di Daves sono invece dei ricalchi abbastanza banali dei tratti principali della morfologia della fiaba di Propp. Lo schematismo  degli accadimenti è persino sorprendente: dopo un primo incidente di percorso con un personaggio secondario che, nel corso del film, sarà d’ostacolo al lieto fine, a trarre d’impaccio il fuggiasco è una donna, ad un tempo principessa proppiana  e aiutante principale dell’eroe. Un secondo aiutante viene ucciso, e un terzo (il taxista) sembra già un personaggio dotato di poteri magici, così come il chirurgo plastico. Infine, il vero colpevole, anche questo immediatamente riconoscibile dalla fisiognomica, è una sorta di strega la cui funzione, annunciata apertamente, è quella di impedire la felicità dell’eroe.

La grande trovata tecnica della prima parte del film – la soggettiva – consente allo spettatore di non accorgersi, soprattutto in una prima visione legata a una suspense in crescendo, di tale schematismo.
Il miracolo espressivo di La fuga, la sua seduzione, sono dunque legati alla costruzione scenica che, nel 1947, in larga misura, anche nel noir, poteva fare a meno degli “studios”. La città e le città – in particolare New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles – avevano delle caratteristiche architettoniche e urbanistiche, nonché l’idea centrale della “folla” anonima e inquietante, già presente nell’omonimo capolavoro di King Vidor, girato prevalentemente in esterni già nel 1928.

''La donna nel lago''Nonostante il bianco e nero, certi film metropolitani del dopoguerra anticipano il futuro iperrealismo degli anni Settanta che produsse due capolavori come Marlowe, il poliziotto privato di Richard e Taxi Driver di Scorsese.
A parte il finale, La fuga, è ambientato interamente a San Francisco e, di nuovo, il suo potere scenografico anticipa quello di un film, La donna che visse due volte, considerato dalla critica ai vertici della perfezione filmica di ogni tempo. Un’esagerazione – Alfred Hitchcock lo giudicava piuttosto debole nella tessitura narrativa e lontanissimo dal perfezionismo di altri suoi titoli – spiegabile però attraverso il fascino impalpabile di un’allucinazione scenografica che travolge il protagonista, reduce da una doppia malattia psichica: la sua vertigine (questo era il titolo originale) e la sua ossessione amorosa per un cadavere. Proprio la malattia, provocando l’alterazione dello sguardo, travalica l’architettura reale della città trasformandola in un paesaggio pittorico metafisico.

La San Francisco di Delmer Daves è, al contrario, il luogo dell’incertezza visiva e esistenziale, legata ai luoghi, percorsi dal protagonista, che immediatamente si trasformano in trappole o che vengono percepiti come tali e che sono naturalmente contrapposti alla casa della fata buona: un vero e proprio rifugio familiare, con bellissimi arredi art-decò, che continuamente respinge ogni intrusione. Un esempio di questa inquietudine visiva sta nel medesimo palazzo in cui vive la salvatrice/principessa. L’accesso al luogo è difficile per un ricercato, e ancora di più per un uomo dal volto bendato. Il passaggio di Parry dall’ascensore all’atrio, entrambi chiusi da vetrate semi trasparenti  riprese in campo lungo, appare con una sorta di attraversamento di una terra di nessuno.

''La donna nel lago''Ugualmente pericolosa e faticosa è l’altra terra di nessuno, la lunghissima scalinata che il protagonista, sfiancato dall’intervento e sentendosi braccato dopo aver scoperto che l’amico è stato assassinato, percorre quasi in tempo reale per arrivare ai quartieri alti (la salvezza, cioè il castello fatato) in cui abita la sua salvatrice.
Infine, accanto agli ultimi residui dell’espressionismo (l’incubo dopo l’intervento di plastica facciale; il chirurgo come una sorta di misterioso Caligari votato al bene), non manca la pittura hopperiana del bar notturno, la cui prospettiva visiva è allungata da una focale grandangolare che mette a confronto la solitudine del ricercato, in cerca di cibo e di riposo, e il poliziotto che, all’estremo opposto del locale, s’insospettisce e vuole controllare i suoi documenti. Hopper ritornerà, come emblema assoluto di solitudine, anche nella breve sequenza della stanza d’albergo, prima della chiusura a sorpresa dell’intrigo, con l’inutile smascheramento della colpevole e la fuga definitiva dell’evaso verso il Messico e poi verso il Perù, in attesa della sua principessa.

''La donna nel lago''Dentro questa pellicola, insomma, ci sono i germi di una crescente importanza scenica che comprende il realismo del primo Kazan, l’allucinazione paranoica della fantascienza e del noir post bellico, l’iperrealismo degli anni Settanta e il ritorno della grande attrazione spettacolare del cinema avventuroso di Spielberg e dei suoi imitatori. Questo modello, che dominerà il cinema americano per tutto il dopoguerra, “costringe” le trame in semplici ingranaggi iniziali (il famoso MacGuffin  hitchcockiano, cioè un artificio di scarsa rilevanza per il significato della storia in sé, ma necessario per sviluppare certi snodi fondamentali della trama, come accade nel kafkiano Intrigo Internazionale), al cui interno esploderanno le invenzioni scenico-drammaturgiche.

Fanno parte di queste attrazioni, o meglio le anticipano, il vegetale umano di La Cosa di un altro mondo di Hawks (1951); la misteriosa valigetta luminosa e l’incomprensibile esplosione finale di Un bacio e una pistola di Aldrich (1955); il mistero della busta con il microfilm in Mano pericolosa di Fuller (1953); i “baccelli” spaziali in L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956).
È anche a partire da queste pellicole di genere, confinanti spesso con i Bmovie, che s’intravvede lo sgretolamento della grande forma narrativa classica che tanto piacerà ai critici e poi registi della nouvelle vague.

1 ottobre 2015

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