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Memorie d'oltrecinema. Pier Paolo Pasolini

Sopralluoghi in Palestina (1963) - Teorema (1968) - Appunti per un film sull’India (1968) - Appunti per un’Orestiade africana (1970). Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

Pier Paolo Pasolini

Accodandomi alle commemorazioni di Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della morte (2 novembre 1975), scelgo di defilarmi dalle principali e forse infinite chiavi di lettura della sua multiforme opera, nonché dalla santificazione del personaggio che spesso nasconde più che rivelare sua produzione artistica e intellettuale

Per caso, prima di affrontare l’argomento, anticipato dai titoli dei film che aprono questo scritto, sono costretto a contestare anche le autorevoli cretinate di Gabriele Muccino sull’analfabetismo cinematografico del regista. L’opinione, legittima, dell’ex giovane regista italiano, è purtroppo l’ultima di una serie che comprende autorevoli personaggi: Fellini rinunciò a produrre Accattone, dopo aver visto i primi “giornalieri” che, secondo lui, erano appunto “dilettanteschi”; lo scettico e ironico Peter Bogdanovich, che giudicava La ricotta (1963) una delle tante “marchette” attoriali di Orson Welles, fu “bacchettato” dal regista statunitense che gelò il suo intervistatore con una definizione fulminea tuttora validissima: «Tremendamente intelligente e dotato.

Pier Paolo Pasolini e Orson WellesMagari un po’ matto, un po’ confuso, ma di un livello superiore. Parlo del Pasolini poeta, cristiano andato a male e ideologo marxista. Non ha niente di confuso quando è su un set cinematografico. Autorità vera, e grande libertà nell’uso della tecnica». Infine, Tonino Delli Colli, che firmò la fotografia di tutte le pellicole di Pasolini, le mette in cima, sul piano della resa e dell’originalità estetica, al suo lunghissimo elenco di film (178), in cui compaiono i maggiori registi italiani.

E veniamo all’argomento: il Terzo Mondo, certamente oggi inattuale, almeno nei termini in cui si presentò nell’immediato dopoguerra. Fu uno studioso francese, Alfred Sauvy, a coniare quell’espressione, mutuandola dal Terzo Stato che costituiva la maggioranza della popolazione nell’epoca che precedette la rivoluzione francese. Dopo la seconda guerra mondiale, i primi due mondi si dividevano in base al sistema economico: capitalista, il primo, e comunista il secondo. Il mondo capitalista era rappresentato dagli Stati Uniti d’America e quello comunista dall’Unione Sovietica, e comprendeva anche i rispettivi alleati. A questi due schieramenti, politicamente rigidissimi, si pensava potesse contrapporsi un ampio elenco di paesi recentemente arrivati all’indipendenza nazionale, in larga maggioranza ex colonie che avevano conquistato una propria “statalità” dopo il 1945. Questi nuovi organismi statali rifiutavano l’appartenenza a uno dei poli definendosi “non allineati” e adottando, nel 1955, a Bandung, in Indonesia,  l’espressione di Sauvy, che ebbe così una caratterizzazione non esclusivamente politica.

Il Terzo Mondo era la parte più povera del pianeta, quella socialmente ed economicamente più arretrata, priva di infrastrutture e di impianti industriali. All’interno del movimento c’erano però molte contraddizioni: tra i “non allineati” vi furono la Jugoslavia, stato comunista che si era distaccato dalla tutela dell’Unione Sovietica; e, successivamente, la Cuba castrista – paradossalmente quasi un satellite dell’Unione Sovietica – e persino la Cina, anch’essa appena “segnata” dalla rottura con l’Urss e dunque teoricamente “terzista”, anche se la sua economia, come quella cubana e jugoslava, era, anche  se non integralmente, statalizzata. Altri paesi influenti furono l’Algeria neo indipendente, il Marocco, l’Egitto, l’Iraq, l’Indonesia, e molti stati africani di recente costituzione. Al di là delle insanabili contraddizioni delle origini, il terzomondismo fu adottato, negli anni Sessanta, da tanti intellettuali dell’occidente – tra cui Jean Paul Sartre – che a partire da un testo piuttosto famoso, I dannati della terra di Franz Fanon,   parteggiavano per le rivoluzioni degli altri, creando un “altrove” che, in qualche modo e per lungo tempo, sostituì  l’esotismo ottocentesco. Il “fardello dell’uomo bianco” di Kipling si tramutava in un impegno che contestava proprio la presunta funzione civilizzatrice degli ex imperi coloniali.

TeoremaQuest’aspetto internazionalista dell’intellettualità europea fu parte integrante, per almeno dieci anni, anche della contestazione studentesca. Ma, come si sa, Pasolini fu un fiero e aperto avversario della rivolta del Sessantotto, e non già perché non si considerasse un uomo di sinistra. Piuttosto, la giudicava una sorta di regolamento di conti tra diverse generazioni borghesi, segnate entrambi da un bisogno di potere e di dominio di classe. Emblematica fu celebre poesia del giugno 1968 in cui si schierava con i poliziotti – “figli di poveri e destinati a rimanere nei ranghi bassi della società” – che avevano attaccato il presidio studentesco della Facoltà di Architettura, a Roma. Quando Pasolini la pubblicò, aveva già girato uno dei suoi film più famosi, Teorema, e si preparava a presentarlo alla Mostra internazionale del cinema di Venezia.

TeoremaTeorema raccontava la vicenda fantastica – ma girata attraverso un’interazione tra il realismo e la teatralizzazione simbolica  – di un personaggio misterioso (una sorta di angelo sterminatore biblico), interpretato da Terence Stamp, che s’introduce in una grande dimora borghese, il cui capo famiglia è un celebre industriale. L’ospite seduce tutti i componenti della famiglia, i quali, dopo la sua scomparsa, impazziranno o comunque muteranno il proprio atteggiamento psicologico. Ai due estremi di questa divinizzazione “angelica/demoniaca” stanno soprattutto due figure: il capitalista che regalerà la propria fabbrica ai suoi operai, finendo i suoi giorni come un eremita nel deserto; e la governante, che ritornerà al suo paese, e sarà venerata come una santa, per poi seppellirsi, letteralmente, in uno scavo edilizio che prepara la mutazione e la scomparsa della vecchia civiltà contadina in cui quella donna aveva ancora un ruolo.

Sopralluoghi in PalestinaSia l’impossibilità della rivoluzione, per estinzione della borghesia (gli operai diventano essi stessi borghesi, cancellando la lotta di classe), sia il parallelo sacrificio della donna al Moloch della modernità, vanno letti in senso poetico-religioso e hanno un lungo periodo di elaborazione che si può osservare in tutti i territori esplorati da Pasolini: il teatro, la letteratura, il cinema.
Il punto di partenza, almeno sul piano filmico, è il 1963, quando il regista gira Sopralluoghi in Palestina, un documentario che, originariamente, doveva semplicemente preparare l’ambientazione di Il vangelo secondo Matteo. Scegliere la Palestina come “location” evangelica obbediva al proposito di collegarla geograficamente, ma soprattutto idealmente e umanamente, al luogo della nascita del messaggio cristiano.

Ma la Palestina degli anni Sessanta si presentò al regista, che scelse come guida un religioso, padre Carraro, da un lato come una nuova nazione, “modernizzata” dal modo di vivere degli israeliani, soprattutto a Tel Aviv e a Gerusalemme; dall’altro, nei territori arabi, come una sorta di deserto immerso in una miseria secolare, la cui geografia “culturale” e la cui antropologia umana, anche da un punto di vista fisiognomico, non erano recuperabili nell’ambito di una ricostruzione credibile dell’ebraismo/cristianesimo originario. Infine, considerando che quelle terre erano martoriate da continui scontri armati, il produttore, Alfredo Bini, ritenne che non si potesse allestire una produzione filmica imponente come quella che si accingeva a dirigere il regista friulano.

Sopralluoghi in PalestinaIl film rimase dunque uno straordinario reportage di viaggio sulle contraddizioni insanabili di quel territorio in cui si sovrapponevano i due poli del contrasto sociale dell’intero occidente: la modernità e la ricchezza, confinanti con la miseria dei “dannati della terra” teorizzata da Franz Fanon.  
Sopralluoghi in Palestina è anche il primo tassello di un impegno intellettuale e, “tout court”, giornalistico, che può sembrare lontano dalla grande estetica pittorica, teatrale, musicale dei suoi film di finzione. Eppure, a prevalere, qui come negli altri reportage/documentari successivi, è di nuovo la presenza di continue immagini simboliche – i grattacieli in mezzo ai deserti, i corpi e i volti dei “dannati della terra” – che richiamano la sacralità e la purezza o, per contrasto, la dannazione della modernità.

Sopralluoghi in PalestinaQualche anno prima, nel 1959, lo scrittore aveva tradotto la trilogia di Eschilo, Orestea, poi portata in scena, a Taormina, da Vittorio Gassman nel 1961. Contemporaneamente, scrisse un suo testo teatrale, Pilade (l’amico di Oreste), che assolveva la funzione di una serie di note a piè di pagina del testo originale di Eschilo, capaci di modernizzare la tragedia greca. Queste “avventure” creative sono temporalmente contigue con i suoi esordi cinematografici: Accattone (1961), Mamma Roma, (1962), La ricotta (1963). Il successivo spostamento del set di Il Vangelo secondo Matteo (1964) nel Meridione d’Italia, o più esplicitamente, nei Sassi di Matera, quasi preistorici, finiva per certificare questa ricerca di purezza evangelica in un territorio non toccato dalla civiltà cristiana che, secondo Carlo Levi, si era fermata a Eboli. Dunque, una diversa simbolizzazione della geografia antropologica del testo evangelico, che richiamava, pur in altri contesti, i “sottoproletari” romani raffigurati nelle prime opere e già sacralizzati. Per sintetizzare, Pasolini aveva già scelto i suoi “eroi” – antichi e moderni – in un territorio sociale e culturale che nulla aveva a che fare con la contestazione studentesca.

Il passaggio al “terzomondismo” avviene dunque attraverso un’associazione mitologica: da un lato riportare il messaggio cristiano alle sue origini rivoluzionarie, dall’altro, collegarlo idealmente – come vera e definitiva modernità positiva – ai miti fondanti della civiltà occidentale, dall’Orestea teatrale ai successivi film, Edipo Re e Medea, girati tra il 1967 e il 1969. La narrazione e la drammaturgica di quelle pellicole, infatti, veniva filtrata  attraverso una fase precedente la grande civiltà ellenica, per il cui tramite i testi erano arrivati in Occidente e si erano stabilizzati come vere e proprie “epifanie” della moderna cultura filosofica e politica. I deserti africani del primo titolo, la Cappadocia del secondo, testimoniano queste scelte non puramente geografiche.

Appunti per un film sull’IndiaMa, negli stessi anni, il regista gira anche Appunti per un film sull’India (1968) e Appunti per una Orestiade africana (1970), la cui costruzione, di nuovo interamente mediata dalla voce di Pasolini come narratore e commentatore dei fatti para-documentari, riprende e intreccia le varie suggestioni poetico-mitologiche: l’estinzione delle civiltà antiche originata dal colonialismo e dal neo capitalismo, l’idea di un nuovo proletariato rivoluzionario che “avrebbe” le sue basi nelle popolazioni liberate dall’oppressione occidentale, ma tuttora prive di una bussola culturale entro cui progettare il proprio futuro.
Appunti per un film sull’India, prodotto dalla Rai, è  un documentario di viaggio che prende le mosse dalla descrizione di un paese che comincia ad abbandonare le vecchie tradizioni.

Appunti per un film sull’IndiaSuccessivamente, il film si trasforma in un’ennesima ricerca di purezza che ha, alla base, una vecchia leggenda buddista: un giovane principe, impietosito nel vedere due cuccioli di tigre che soffrono la fame, offre il suo corpo come cibo per quelle creature, degne di rispetto come qualsiasi altro abitante della terra. La leggenda racchiude automaticamente un’interrogazione nei confronti dello spettatore: possiamo noi capire un simile sacrificio? E la risposta è ovvia: no, apparteniamo a un altro mondo. Ma anche il mondo indiano contemporaneo, riflesso nelle domande che lo stesso Pasolini rivolge ai frequentatori di mercati e di quartieri poveri, non sembra più capace di capire la grandezza della parabola pietosa.

Il secondo film, molto più complesso, avrebbe dovuto far parte di un progetto intitolato Poema sul terzo mondo, di cui il regista aveva già scritto una prima sceneggiatura, in forma narrativa, dal titolo Il padre selvaggio, che non sarà mai realizzata. Nel copione si racconta la vicenda di un giovane africano che, trasferitosi dal villaggio natio in una città in cui era possibile frequentare le scuole dei bianchi, si rende conto che questa sua assimilazione non farà che riproporre i vecchi meccanismi del colonialismo. Esplicito è, in questa sceneggiatura, l’aggancio alle teorie di Franz Fanon sulle difficoltà, per i paesi che hanno conquistato l’indipendenza dalla dominazione coloniale, di avviare un proprio e autonomo processo economico, politico e culturale.

Appunti per un’Orestiade africanaNel passaggio al film Appunti per un’Orestiade africana, quest’atteggiamento totalmente negativo, viene mediato, come recita il titolo, dalla possibilità di costruire una nuova Africa, a partire dalla rivoluzione di Oreste – che uccide i tiranni, tra i quali la propria madre – e la successiva pacificazione delle Erinni. L’ipotesi di un’Orestiade moderna si cala dunque nell’Africa “visitata” dal regista tra il dicembre del 1968 e i primi mesi del 1969. I paesi sono la Tanzania e l’Uganda e i luoghi sono sia i villaggi ancora legati a una vita pre moderna o direttamente preistorica, sia le nuove strutture industriali e culturali: fabbriche, palazzi, quartieri moderni, scuole. Queste sequenze, in cui  Pasolini cerca i possibili volti e corpi dei vari personaggi di un’Orestiade che faccia rinascere una civiltà umana, come era appunto accaduto in Grecia, sono montate assieme a immagini di repertorio sulla guerra del Biafra, che scoppiò nei primi anni Settanta e che, nel film, finisce per diventare, quasi casualmente, l’evocazione dell’accadimento bellico dal quale prese le mosse Eschilo, cioè la guerra di Troia. A questa prima esplorazione poetico-mitologica, che “distrugge” l’illusione di una cultura totalmente autoctona teorizzata in Il padre selvaggio, fanno seguito due “intermezzi” che, raccontano la cultura africana già esistente nei paesi occidentali e che dunque potrebbe essere utilizzata anche nell’Africa post coloniale.

Appunti per un’Orestiade africanaÈ di nuovo un’illusione (ma questo è il senno di poi di ogni analisi retrospettiva), ma, come sempre in Pasolini, di grande suggestione. Nel primo intermezzo si cita il mito di Cassius Clay/Mohamed Alì, nero americano, esponente dei “black muslims” di Malcom X, diventato un idolo anche per le popolazioni africane che vedono in lui una sorta di nuovo dio della vendetta. Il secondo intermezzo, bellissimo, è una “jam session” jazzistica filmata al folk-studio di Roma: un brano d’importanza storica – il jazz, in Italia, non era ancora uno spettacolo popolare – visto che sul palcoscenico si alternano musicisti come Gato Barbieri, Yvonne Murray, Archie Savage e il contrabbassista cagliaritano Marcello Melis, scomparso prematuramente nel 1994, e, allora, sodale dei maggiori musicisti jazz europei e americani. Il jazz, musica ibrida la cui radice è certamente africana, è, per il regista, un altro punto di congiunzione storica tra le culture.

Appunti per un’Orestiade africanaIl film si chiude, di fronte ad un pubblico di studenti neri trasferitisi a Roma per studiare all’Università La Sapienza. Pasolini mostra loro i filmati e espone le proprie teorie sulla missione liberatrice di Oreste e la pietà di Antigone, miti che si possono ricollocare nel corpo dell’Africa contemporanea, ancora in bilico tra due culture e bisognosa di un’identità forte che possa contrastare il neo capitalismo e il neo colonialismo, senza più mutazioni cruente ma piuttosto culturali. La reazione degli studenti è facilmente intuibile: la maggior parte di loro rifiuta o non capisce l’utopia pasoliniana. Alcuni si mostrano insofferenti, soprattutto nei confronti di concetti che, al di là delle idee dello scrittore, si possono associare alle definizioni generaliste di Terzo Mondo,  Africa, africanismo, negritudine. Gli studenti sembrano voler essere considerati solo come singoli stranieri che vogliono “accedere” a un mondo benestante e pacificato, ovvero l’Europa e l’intero Primo Mondo, lontani dalla guerre nazionalistiche e tribali che stanno insanguinando i paesi da cui provengono.

Rivedendo oggi quel film, ci si deve rammaricare della sua storica “invisibilità”. Quando uscì, alla Mostra di Venezia, nel 1974 – in grande ritardo rispetto alle teorizzazioni degli anni Sessanta, ormai travolte dall’implosione, spesso violenta e feroce, del terzomondismo – pochi critici e giornalisti se ne occuparono. Pasolini era ormai considerato un intellettuale integrato nei “media” dominanti: collaborava con “Il Corriere della Sera”, il quotidiano della borghesia italiana, faceva film di successo come Decameron (1970) o I racconti di Canterbury (1973), considerati abbastanza omologhi al cinema spettacolare italiano post sessantottesco; inoltre la sua dichiarata omosessualità era inaccettabile per la cultura di destra, di centro e di  sinistra. In realtà Pasolini, nonostante la sua grande fama come artista e intellettuale che frequentava i primi salotti televisivi, restava un “non riconciliato” sia con il potere democristiano (bersaglio di molti suoi commenti quasi profetici), sia con l’opposizione comunista, i cui vertici non gradivano neanche le sue dichiarazioni di simpatia verso il partito.

Salò o le 120 giornate di SodomaInfine, dopo la diaspora provocata dai suoi polemici interventi contro il Sessantotto, proprio nelle pagine del “Corriere della Sera” lo scrittore e regista finì per avere uno “spazio franco” spesso provocatorio. Uno dei suoi articoli più noti, pubblicato otto mesi prima della sua uccisione, contestava la proposta di legge che legalizzava l’aborto (approvata poi nel 1978), rilevando, in maniera abbastanza tortuosa, la demonizzazione dell’omosessualità che ne conseguiva: “solo il sesso eterosessuale è libero – affermava – dopo la permissività assoluta del coito tra uomo e donna”. E ancora, sottolineò che, con la possibilità legale di abortire, anche il sesso, cioè l’amore, diventava un tassello della società dei consumi (“del nuovo fascismo” è il termine usato dallo scrittore), cioè un obbligo sociale. La cesura che divideva lo scrittore e regista dall’opinione pubblica maggioritaria italiana, e soprattutto dal movimento liberal-socialista che stava cambiando la legislazione italiana in tema di diritti civili, di famiglia e di ruolo della donna, non poteva essere più netta. E, non a caso, anche il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo nel 1976, fu rifiutato dal pubblico proprio per l’esplicito richiamo allegorico tra il fascismo terminale e la degradazione sessuale e fecale di cui fa uso il potere.

Pasolini fu quasi dimenticato, persino dal successivo Movimento del 1977, prevalentemente composto da tanti giovani neo proletari che forse, nonostante la loro attiva partecipazione alla deriva terroristica che insanguinò  l’Italia fino ai primi anni Ottanta, sarebbero stati inclusi dal regista nel suo discutibile catalogo della sacralità sopravissuta alla società di massa.
Dopo la sua morte, Appunti per un’Orestiade africana circolò progressivamente nelle sale d’essai, quasi come un film che testimoniava la sua irregolarità poetica e intellettuale. Transitò anche in Rai, in ore antelucane e oggi è di nuovo un film non sempre visibile, anche nelle rassegne celebrative che preferiscono esaltare  Salò, ma anche i precedenti titoli come Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte, che, chi scrive, ritiene assolutamente minori e totalmente involuti.