Percorso

Memorie d'oltrecinema: Moby Dick

''In the hearth of the sea'' di Ron Howard

Moby Dick di John Huston (1956) e Heart of the sea di Ron Howard (2015). Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

In contrasto con la scansione originale pensata per questa rubrica – alternare le nazionalità dei film, i repertori d’autore e di genere, e soprattutto i registi – sono stato trascinato da un film in programmazione nelle sale, The heart of the sea di Ron Howard, di cui sapevo semplicemente che rievocava la storia della baleniera Essex, assaltata e affondata da un capodoglio di dimensioni mai viste prima, al largo delle coste sud americane, nel 1820.

Non c’è bisogno di sottolineare che quel fatto, storico o leggendario, ovvero appartenente quasi alla fantascienza, fu uno dei motivi ispiratori del romanzo di Hermann Melville, Moby Dick, scritto e pubblicato trentuno anni dopo il tragico naufragio della nave.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardAltre ispirazioni del romanziere furono le memorie di Owen Chase, uno degli otto sopravvissuti, che nel 1821 scrisse Narrazione del naufragio della Baleniera Essex di Nantucket che fu affondata da un grosso capodoglio al largo dell'Oceano Pacifico e soprattutto, un altro scritto, di Jeremiah N. Reynolds, che raccontava  l’avvistamento e l’uccisione di un capodoglio albino di fronte all’isola cilena di Mocho. L’animale, anche questo imponente, era stato ribattezzato Mocho Dick (il nome, negli Stati Uniti, ha una simbologia fallica), noto ai marinai per la sua ferocia con la quale attaccava le mani e per la presenza di numerosi ramponi che sporgevano dal dorso, segno inequivocabile di precedenti scontri dai quali era uscito vincente.

Quest’ultimo aspetto è citato testualmente nel romanzo di Melville e visibile, in maniera piuttosto turbativa, nel film di John Huston del 1956, tanto da far pensare a una creatura della fantascienza tardo romantica, che ha nel dottor Frankenstein di Shelley il suo artefice.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardInfine, una puntata di Quark del novembre scorso certificava, sulla scorta di un’impotente documentazione, il rapporto tra la realtà e la finzione, aprendo le porte a un’idea del romanzo e del film – o di quasi tutti i romanzi e i film – come intertesto, o per usare un termine molto di moda fino a qualche anno fa, soprattutto nelle scuole, d’ipertesto.
Tutto si tiene tra le pagine e tra le immagini che attraversano diverse epoche e si lambiscono, s’inviano messaggi, costruiscono ponti tra le diverse narrazioni e/o versioni storiche. Intertesto e ipertesto sono un modo colto per identificare un concetto molto alla moda, soprattutto nel cinema, anche se certamente non criticabile: il post-moderno. Aggiungerei, sulla scia di quest’ultimo titolo, che il “post-moderno” è forse consustanziale al cinematografo, arte del riciclo continuo di temi, forme, archetipi e stili.

Si può cominciare dal titolo del film di Howard, in italiano, il “cuore del mare”, che forse allude al segnale di morte delle balene che, quando il ferro dei ramponi penetrava nel punto giusto, il cuore, sfiatavano sangue anziché acqua. In una lettura ecologista, il cuore del mare è appunto quello delle balene, specie tuttora da proteggere.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardQuesta lettura è però assolutamente anti storica, se riferita all’epoca in cui sono ambientati il romanzo di Melville (Ottocento) e le sue tantissime trasposizioni filmiche e televisive del secolo scorso. È anche necessario rammentare le più celebri: quella già citata di John Huston; un film muto del 1926 (The Whale) e i due titoli di firma (William Dieterle, Michael Curtiz, Llyod Bacon) e d’interpretazione (John Barrymore nei panni del capitano Achab, sfortunato cacciatore di balene in dissenso anche con la moglie) apparsi nel 1930 e nel 1932.
Il significato di heart/cuore è anche allargabile a dismisura. Nel romanzo di Conrad il “cuore delle tenebre” è l’essenza del colonialismo rapace che sta distruggendo l’Africa per avidità e di ferocia. Sicché, per associazione concettuale, questa “essenza del mare”, nel film di Howard, rischia di scomparire per le stesse ragioni.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardSto anticipando troppo. Dal centro del film (cuore può significare anche questo), passiamo alla cornice. Il film di Howard ha inizio in una taverna della città/isola di Nantucket, capitale della repubblica delle Baleniere, sorta di aristocrazia commerciale della costa orientale. Alla porta del locale, in una serata piovosa, arriva un signore ancora giovane che vuole incontrare, a pagamento, Thomas Nickerson (Brendan Gleeson, unico attore famoso che compare nel film) il proprietario della locanda, ex baleniere, ormai quasi anziano, unico marinaio ancora in vita della Essex.
Lo straniero si presenta come Hermann Melville e vorrebbe che il signor Thomas gli raccontasse ciò che è veramente accaduto. Il nome di Melville apre molte porte e così, attraverso la cornice, veniamo proiettati appunto in una catena di rimandi quasi infiniti. Dopo l’esordio, che quasi confondiamo con il bellissimo incipit del film di John Huston del 1956, umido e oscuro, ci ritroviamo dapprima in una casa di campagna in cui vive Owen Chase, figlio di agricoltori, che lascia la moglie in attesa di un figlio per imbarcarsi, sperando di avere finalmente il comando di una baleniera.

Non andrà così. Il comando spetterà a un giovane e inesperto membro dell’aristocrazia imprenditoriale locale. Il nostro eroe si dovrà accontentare del ruolo di primo ufficiale. Immediatamente dopo la partenza ci sarà un primo scontro tra l’esperienza di Chase e la spavalderia del capitano che rischia di mandare a picco la nave.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardPrimo rimando filmico: non siamo più in una baleniera – e tantomeno nel Pequod di Achab, un capitano che non avrebbe mai tollerato un ufficiale ribelle – ma in Gli ammutinati del Bounty di Milestone (1962), in cui le schermaglie tra Marlon Brando, signorile primo ufficiale, e Trevor Howard, avido e sadico comandante, durano per tre quarti della pellicola, fino all’ammutinamento. Anche in questo caso, segnaliamo, per dovere di cronaca, deviazioni verso altri film che raccontano e romanzano la medesima vicenda storica, accaduta nel 1787: La tragedia del Bounty (1935), quasi un film anti nazista interpretato da Clark Gable e dall’inarrivabile, per ferocia e impassibilità, Charles Laughton,  e il più recente, e piuttosto debole, Il Bounty di Roger Donaldson (1986) con Mel Gibson della parte di Fletcher Christian, una pellicola che ha ormai perso per strada ogni allegoria politica.

Ma in The hearth of the sea, il contrasto tra i due ufficiali, dura poco. Anche il narratore secondo, Thomas (che ovviamente corrisponde all’Ismaele di Melville) taglia corto, dichiara che, nonostante i contrasti, la nave non tornò malconcia a Nantucket ma fu riparata, riprese il mare e cominciò la caccia nel Pacifico. Qui c’è una breve sosta in un piccolo porto del Cile, in cui qualcuno – che viene preso per un pazzo o un ubriaco – racconta la storia della gigantesca balena bianca. Si riprende il mare, s’incontrano i primi grandi raduni di cetacei, si fanno le prime scorte di olio.

''In the hearth of the sea'' di Ron HowardUn po’ sprecata, sul piano filmico  è la sequenza della discesa del giovanissimo e mingherlino Thomas nella testa della balena – un rito di passaggio che avrebbe avuto bisogno di un regista come Herzog – per recuperare il prezioso spermaceti, che non è, come indica il nome, lo sperma dei cetacei, ma un grasso particolare tuttora usato, nonostante le restrizioni alla caccia, come ingrediente preziosissimo e costosissimo nella cosmetica.
Poi la simbologia del film si sposta dal piano privato a quello collettivo: il capodoglio che manda a picco la baleniera e che segue le tre scialuppe sopravvissute per uccidere tutti i marinai rimasti in vita, è come da romanzo di Melville, una sorta di vendicatore, ovvero un messaggero della Natura sfregiata dall’uomo.

A questo punto, però le strade della finzione, o dell’allegoria contenuta in questa “vendetta”, divergono o meglio si collocano, come ho già accennato, in contesti storici e culturali differenti. Prima di affrontarli, è obbligatorio segnalare alcune sensazioni che possono avere una loro parte in un discorso critico. Difatti, nonostante la tecnologia digitale, o forse a causa di questa, paesaggi urbani – la Nantucket virtuale è bruttissima, quasi un’illustrazione grafica di un fumettista non particolarmente abile – e scene di mare burrascose, ventose, ondose e cruente, non valgono l’abilità artigiana dei vecchi scenografi hollywoodiani.

Non solo è inimmaginabile un confronto con Lo squalo di Spielberg ma anche il Moby Dick di Huston aveva una credibilità scenica straordinaria, persino nella raffigurazione in piano ravvicinato del capodoglio. Si potrebbe pensare che il nostro cervello – o forse solo quello dei vecchi spettatori – ha assimilato e digerito le immagini del falso/analogico (dal King Kong di Rambaldi al Lo squalo, appunto) ma non ancora  il falso/virtuale del cinema contemporaneo, ispirato alla graphic-novel. Oppure, pensando anche alle sequenze dei naufraghi – tra sete e cannibalismo – piuttosto ben girate ma prive della necessaria suspense tragica, che la tecnologia, o forse l’abilità dei montatori di Cast Away e Vita di P, opere che hanno usato obbligatoriamente procedimenti scenografici digitali, siano di gran lunga più abili di Hanley e Hill, “editors” di Heart of the sea.

''Moby Dick'' di John HustonTornando al concetto di natura, nel film di Howard l’idea panteista c’è sicuramente, ma è quasi soffocata da un bisogno dimostrativo. In una delle sequenze finali relative alla deriva dei naufraghi, il capodoglio/dio continua a seguire minacciosamente le sue vittime; Chase ha la possibilità di colpirlo da una distanza ravvicinata, magari centrandogli il cuore, ma rinuncia a lanciare il suo arpione. Il cetaceo scompare e non si farà più vedere.
A Nantucket, molti mesi dopo il ritorno di appena sei componenti dell’equipaggio, è in corso un’istruttoria per stabilire la causa dell’affondamento. Dato che la storia/leggenda del capodoglio assassino è diventata di dominio pubblico, gli armatori chiedono al comandante e al suo vice, ormai riconciliati, di non accreditare quella versione, dichiarando che la nave è affondata a causa di una secca non segnata dalle mappe nautiche. Lo esige la legge del profitto: se venisse accreditata l’ipotesi di un mostro marino quasi dotato di coscienza, non si troveranno più marinai disposti ad imbarcarsi per la caccia alla balena.

Chase e il suo superiore rifiutano il suggerimento e confermano la loro storia. Trent’anni dopo, Thomas, di fronte allo scrittore, cosciente che anche quella vicenda non ha fermato la caccia alle balene, rivela che, in Pennsylvania, è stato trovato dell’olio sotto terra. Traduzione facilissima: ha inizio l’era del petrolio che renderà obsoleto l’olio di balena con il quale s’illuminavano le città e le case e si fabbricavano le candele. Un secolo più tardi, l’olio scaturito dalla terra provocherà un’altra battaglia naturalista/ecologica.

''Moby Dick'' di John HustonL’attualizzazione del tema è abbastanza in sintonia con il bisogno di nobilitare un film d’avventura che, giova ribadirlo, confina con la fantascienza. Ma sarebbe ingiusto cancellare, attraverso questo film, il senso antropologico-religioso descritto da Melville e esaltato anche dal film di Huston. Giusto per ripartire dal profitto, magari scomodando Max Weber e l’“etica protestante e lo spirito del capitalismo”, proprio alcune sequenze del Moby Dick del 1956, mostrano la preoccupazione degli armatori di non offendere il Dio biblico con un eccesso di avidità, ma, nello stesso tempo di invitare i ramponieri e gli ufficiali – quelli pagati con quote molto alte sulla vendita dell’olio e dello spermaceti – a non farsi sfuggire alcuna preda. La predestinazione calvinista, teoricamente nefasta per l’autodeterminazione umana, è attenuata dal bisogno di un riconoscimento sociale: la ricchezza e l’uso della stessa come motore di una civiltà che omaggia Dio.

Fin dall’inizio, dunque, c’è nel romanzo una doppia cornice: religioso-puritana da un lato, multietnica e pagana dall’altro. Nantucket e il Pequod rappresentano il confronto tra la cultura WASP, allora assolutamente predominante nella costa orientale, e il crogiuolo dei “nativi” e dei selvaggi, ovvero la naturale propensione alla caccia  e alla guerra come “istinto naturale”. Proprio nell’esordio, quando il giovane Ismaele si trova a dover condividere il letto con l’umanissimo primo ramponiere Queequeg, figlio di un re di un’isola polinesiana, abilissimo nella caccia alla balena, si forma la coppia classica della letteratura e del cinema avventuroso americano, che soprattutto nel western (L’ultimo dei Mohicani) diverrà un vero e proprio archetipo.

''Moby Dick'' di John HustonIn realtà anche gli altri guerrieri/ramponieri appartengono al paganesimo: un pellerossa, un nero africano, e infine, il demoniaco “Farsi” Fedallah – traducibile con “fedele di Allah” – quest’ultimo purtroppo assente in tutte le rappresentazioni filmiche, compresa quello di Huston. Sono coloro che distolgono, e dunque assolvono, dalla materialità del peccato i bianchi WASP, loro padroni. Ma, appunto, se nel film di Howard il moderno peccato contro la natura ha una linearità didascalica, il romanzo di Melville introduce invece il percorso tortuoso di un estremo demonismo blasfemo.

È noto che, in tutte le culture primordiali, i rarissimi animali albini – dal bisonte delle pianure nord americane agli elefanti dell’India e del sud est asiatico, ai leoni africani e agli altri animali simbolo di un regno della natura che deve poter convivere accanto all’uomo, pena l’estinzione di entrambi – sono considerati sacri, ovvero incarnazioni della divinità. La loro presenza certifica la liceità della caccia – concessa dalla divinità – come bisogno dell’uomo e, nello stesso tempo, i limiti all’avidità e alla ferocia dell’animale dominante, l’uomo. Melville, che fu un vero baleniere e che circumnavigo il globo, rimanendo in viaggio per anni e soggiornando in numerose isole del Pacifico, fa scivolare le tradizioni pagane nel puritanesimo.

''Moby Dick'' di John HustonAchab, il capitano del Pequod diventa così la reincarnazione di un personaggio biblico che fu un grande guerriero ma che rinunciò al monoteismo, facendo ripiombare le tribù di Israele nella religione del dio fenicio Baal. Menomato nel corpo (ha perso una gamba e un braccio in un naufragio provocato dalla gigantesca balena bianca) e nello spirito, rincorre la sua vendetta sovrapponendola alla missione commerciale di cui è stato incaricato. Finirà intrappolato nella macchina di morte pre tecnologica, avviluppato tra corde e ramponi che si sono armonizzati nel corpo della balena, creando un nuovo organismo vitale. Nel film di Huston, l’immagine di Achab, imprigionato, che sembra indicare ai marinai di seguirlo negli abissi, cioè nell’inferno in cui verrà precipitato dal Dio della natura, è un’autentica scena da film dell’orrore e anticipa le sequenze finale di Lo squalo di Spielberg, in cui, però, il mostro veniva poi ucciso.

Romanzo e film si muovono verso quella tragedia finale attraverso annunci quasi criptici. A Ismaele viene intimato di non unirsi al demonio Achab; Queequeg, dopo le prime cacce, sente arrivare la morte e si costruisce la sua bara – che a sua volta salverà Ismaele, protetto dal suo guardiano “selvaggio”; il nero Pipp impazzisce e finisce per rimanere solo nella nave che sta per essere distrutta dal capodoglio. Ancora più significative, sono le apparizioni di Fedallah, che dimora, assieme alla sua ciurma, nel ventre della nave, quasi un antro che il vero demonio, Achab, utilizza per nascondere le sue schiere.

''Moby Dick'' di John HustonHuston, che produsse e non solo diresse il film, trovò un collaboratore letterario in Ray Bradbury, appena diventato uno scrittore di successo con Fahrenheit 451 (1953): la fantascienza si trasforma, anche nel suo Moby Dick – più fedele a Melville di quanto non sia stato scritto all’epoca della trasposizione – in un’allegoria e in una distopia, basata sul bisogno di uccidere non il dio dell’avidità ma il Dio onnipotente delle religioni monoteiste. Il regista lo disse esplicitamente, spiegando che quella era l’interpretazione autentica del romanzo di Melville, sorta d’intertesto biblico in cui, naturalmente, il demonio, legato strettamente, con le sue stesse corde, al Leviatano, s’inabissa portando con sé tutta la sua ciurma, ad eccezione dell’innocente Ismaele. Ma, di nuovo, il termine Leviatano, che, nelle pagine della Bibbia, inghiotte il “maledetto” Giona, salvandolo dall’ira dei suoi compagni marinai che lo avevano gettato fuori bordo come blasfemo sul quale si concentrava l’ira del Signore, ci porta all’allegoria di Hobbes sulla società totalitaria come emblema dello stato moderno, ordinato, stabilizzato, dotato di un’autorità umana/divina alla quale è stato delegato ogni potere.

Quel modello di società e il suo contrario, cioè il mondo dei “selvaggi”, sono i due poli in cui si potrebbe collocare l’intera opera letteraria dello scrittore: le fughe dalle baleniere nei paradisi tropicali di Taipi e delle Encantadas, ovvero le attuali Galapagos, regno assoluto della natura primordiale, che ispirarono Darwin; la prigionia burocratica di Bartleby negli uffici di Wall Street e quella, reale, del giovane marinaio Billy Budd; i sogni di evasione di Israel Potter e la doppia tragica prigionia degli schiavi neri e dei loro padroni spagnoli in Benito Cereno.
La gigantesca balena bianca è, dunque, a un tempo, il segno della libertà assoluta, del potere non conforme al dominio degli uomini: un Dio, ma simbolico, contro il quale è da folli scagliarsi, come fa Achab. Oggi, l’idea di una balena mostruosa e onnipotente, dunque divina, è quasi consolante: la divinità sta di nuovo nella natura che si ribella alla presunta onnipotenza dell’uomo.

16 dicembre 2015

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