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"Confidenze troppo intime" (2004) di Patrice Leconte

Memorie d'oltrecinema.Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

''Confidenze troppo intime''Passi veloci femminili, ripresi ad altezza di gambe, alla Truffaut, come se la sequenza volesse evocare un possibile noir ma anche la semplice osservazione del fascinoso passo femminile. Poi, la donna, che conosceremo come Anna, piacente ma introversa, entra in un palazzo che ospita prevalentemente degli uffici.

All’ingresso chiede delle informazioni a una giovane portiera intenta a seguire una telenovela melodrammatica – la scena, con poche varianti, tornerà spesso a segnare i labirinti delle passioni amorose, reali e filmiche – e, una volta salita in ascensore fino al sesto piano, si accosta a una porta e suona il campanello. Apre un distinto signore, più o meno suo coetaneo, e la invita a entrare. Non sappiamo niente, come spettatori, né di lei né di lui, ma Anna fa a tempo a visualizzare una morbida “chaise longue” – “divani profondi come tombe” chiosa uno psicoanalista burlone e amante di Baudelaire, qualche sequenza dopo – per poi sedersi su una semplice sedia, di fronte all’impacciato ospite che continua a osservarla.

Senza alcun indugio lei comincia a snocciolare i suoi problemi: non fa più sesso con il marito, eppure lo ama e anche lui sembra non poter fare a meno di lei, anche se la invita a tradirlo. Sennonché il suo timido interlocutore, William, non è uno psicanalista – come evidentemente pensa la donna e anche noi spettatori – ma un commercialista che, sedotto dalla misteriosa apparizione, cerca di nascondere i suoi testi finanziari e fiscali e, alla fine della seduta, le fissa un nuovo appuntamento.
Più avanti, in un’altra sequenza, il vero psicoanalista, il dottor Monnier, con il quale Anna aveva fissato telefonicamente l’appuntamento, spiega a William – dopo averlo redarguito per la sua mancanza di professionalità e avergli chiesto il pagamento di una regolare parcella – che simili “lapsus” sono abbastanza comuni. «Noi due – afferma – facciamo un mestiere paradossalmente simile: si servono di me per confessare i loro segreti, e di lei per cercare di nasconderli…»

''Confidenze troppo intime''L’estrema sintesi di questo incipit filmico riguarda un film del francese Patrice Leconte, Confidenze troppo intime (2004), uno dei suoi pochi titoli ad avere avuto un buon successo nel nostro paese. Leconte ha sessantotto anni e ha girato, dalla fine degli anni Cinquanta, una quarantina di lungometraggi, in gran parte ignorati dalla distribuzione italiana. Eppure, in mezzo a un presunto eclettismo tematico e a risultati espressivi altalenanti, non si può negare che un filo conduttore, la solitudine estrema, costituisca la base delle sue opere più celebri che facilmente si possono definire d’autore: Il marito della parrucchieraMonsieur Hire, L’uomo sul treno Il mio miglior amico, e, naturalmente, Confidenze troppo intime, vera e propria quadratura di un cerchio al cui interno si agitano vite tragicamente o gioiosamente infelici, come se l’ossimoro appena indicato diventasse un vero tratto linguistico della sua filmografia.

Contradditorio e apertamente “ossimorico” è anche il seguito della vicenda. Per una buona mezz’ora si ride apertamente – almeno a una prima visione, ancora segnata dal mistero – e si pensa a una commedia di Woody Allen, con tanto di coro: la segretaria gelosa, sorta di vice mamma per Williams; la già citata portinaia, l’ex fidanzata del protagonista e il suo attuale compagno culturista; lo psicoanalista “fuori schema” e infine, il marito di Anna, vero e proprio catalizzatore della svolta finale del racconto.
L’inverosimiglianza della situazione iniziale viene progressivamente nascosta da una suspense drammaturgica che “non comunica” apertamente  – se non attraverso lo sfogo iniziale di Anna – ma visualizza quasi esclusivamente gli sguardi (quello colpevole e “assettato” di sentimenti di Williams, interpretato da un memorabile Fabrice Luchini; quello supplichevole di Anna/Sandrinne Bonnaire), le espressioni del volto, i tic, i gesti apparentemente involontari, le confessioni di dettagli dell’infanzia (tutti sgradevoli, ma magari inventati per farsi compiangere), e i ricordi concreti di pochi piaceri, come i giocattoli meccanici che Williams continua a collezionare.

''Confidenze troppo intime''Costringendo lo spettatore a proseguire lungo un percorso accidentato, il quadro scenico finisce per rivelare un disagio che, dopo altre sedute, sembra placato o forse definitivamente teatralizzato. Il vero psichiatra tranquillizza il suo vicino di studio (“la sua cliente non ha patologie psichiatriche gravi e certamente prova piacere nel confessarsi a lei”); Anna, anche prima di aggredire il finto psicoanalista per averle taciuto il suo vero mestiere, sembra in realtà aver accettato la finzione.
La sceneggiatura e soprattutto la regia “a sottrarre” sembra adattare ai tempi della commedia francese il “non detto” e “non visto” di Ernst Lubitsch. Truffaut lo definì “il regista delle porte”, sottolineando che bastava una porta chiusa al momento giusto per aumentare la tensione drammaturgica del film, anche e soprattutto nei momenti di più intensa comicità.

Naturalmente il gioco delle parti – ovvero l’acquisire una personalità fittizia che potrebbe agevolare la fuga da una realtà di totale insoddisfazione – non può durare a lungo in un contesto narrativo. Lo schema classico esige una rottura dell’equilibrio e una ricomposizione finale. Leconte le mescola in maniera più che disinvolta: la situazione iniziale, frantumata fin dalle prime inquadrature, scivola progressivamente in una sorta di caos totale, entro i cui confini potrebbe accadere una vera e propria catarsi tragica, soprattutto dopo l’intervento del marito di Anna.
Proprio in altri suoi film di solitudini (Il marito della parrucchiera o L’uomo sul treno), la tensione si scaricava improvvisamente e tragicamente, anche se in maniera di nuovo al limite dell’inverosimiglianza. Nel primo titolo, Antoine (Jean Rochefort, attore di riferimento del cinema di Leconte), ossessionato, nell’infanzia, dall’imponenza erotica di una parrucchiera, finisce per sposare la bellissima Mathilde (Anna Galliena), rinchiudendosi, assieme all’amatissima moglie, tra le quattro mura della casa e della bottega, ovvero un modesto salone di bellezza in cui l’esistenza scorre ordinata attraverso ritmi sempre uguali.

''Confidenze troppo intime''Quello di fuori è il tempo reale, o anche la vita reale, quello di dentro, intriso di profumi e di altri feticistici oggetti di bellezza, è un tempo apparentemente fermo, passionale ma puramente contemplativo. Ovviamente non durerà, nonostante la compiuta trasfigurazione del ricordo d’infanzia in un’epifania trionfante. Lei si ucciderà per paura di invecchiare e di perdere così l’amore totale del suo uomo; lui si ritroverà di nuovo solo con la sua ossessione.
In L’uomo sul treno, il contrasto tra desiderio e realtà è ancora più radicale. Di nuovo Jean Rochefort, nella parte del professor Manesquier, ospita nella sua residenza aristocratica di una cittadina della Francia, il simpatico ma enigmatico Milan (Johnny Holiday, icona della trasgressione francese degli anni Sessanta e Settanta), in procinto di compiere una rapina nella banca locale. Idealmente, i due personaggi, dopo aver preso confidenza, immaginano di scambiarsi le rispettive e contrapposte vite. Nella realtà, arrivano insieme agli appuntamenti decisivi e fatali: la rapina per Milan, un difficile intervento chirurgico per il professore.

Ma il regista ricompone quei due finali attraverso gli scambi ideali e onirici già immaginati dai dialoghi iniziali. Il treno che arriva e quello che riparte – senza il professore, ma anche senza Milan, ovvero con il fallimento sia della sicurezza domestica sia della vita avventurosa – ricorda un celebre romanzo di Simenon (L’uomo che guardava passare i treni), dove il viaggio di Popinga, un impiegato di un’azienda navale sull’orlo della chiusura per bancarotta, è reale o lo conduce verso una vita avventurosa che si conclude, però, con una inevitabile sconfitta. Non casualmente, un altro film importante di Leconte è Monsieur Hire, trasposizione ambientata al presente, essenziale e scavatissima, di un altro romanzo di Simenon, La fidanzata di Mr. Hire, pubblicato nel 1933 e portato sullo schermo, prima che vi mettesse mano Leconte, da Julien Duvivier (Panico) e Ladislao Vajda (Barrio).
Anche il grigio e solitario sarto che alleva cavie, oggetto di ogni tipo di scherzo da parte dei vicini di casa, si fa trascinare da un’ossessione: scappare con la sua dirimpettaia, una bella commessa (è sempre Sandrinne Bonnaire)  che si fa vedere nuda e intanto imbastisce una trappola per farlo accusare di un delitto che non ha commesso e di cui è responsabile, invece, il suo fidanzato.
Il fuori e il dentro, le finestre specchio in cui si rivelano illusioni e ulteriori infelicità, ma soprattutto la vita reale e quella immaginata, sono i tratti stilistici e formali di Leconte, la sua marca espressiva che, sul piano letterario, rimanda non solo a Simenon, ma anche a uno dei racconti più belli e misteriosi di Conrad, Il compagno segreto.

''Confidenze troppo intime''Dopo aver fatto questi confronti, è obbligatorio ricordare sinteticamente i percorsi che guidano la strutturazione di Confidenze troppo intime: l’aperta ma sottilissima ironia, quasi caricaturale, del personaggio di Williams (maltrattato pietisticamente dalla sua ex fidanzata che sa di poter sempre contare sul suo debolissimo uomo), diventa, a contatto con le vicende raccontata dalla sua strana cliente, un percorso di turbamento, o quasi una patologia psichica. I personaggi si scambiano i ruoli (chi è il medico e chi il paziente?) e Williams, come il protagonista di La finestra sul cortile, vede, nel palazzo che sta di fronte al proprio studio, un’umanità in cui specchiarsi dapprima come semplice voyeur, quindi partecipe delle loro gioie e delle loro sofferenze.

Scivolando progressivamente nei sentieri del cinema nero o perlomeno turbativo, il film tende a farci dimenticare, volutamente, la comicità iniziale. Ma le immagini finali di Confidenze troppo intime sono invece quasi consolatorie. Solo la posizione della macchina da presa, che riprende la scena finale dall’alto, in plongée (come in Il marito della parrucchiera), ci avverte che siamo in un punto di equilibrio precario: ci stiamo avvicinando o allontanando dalla teatralizzazione sentimentale delle vite di Anna e Williams? Dunque, non possiamo sapere come si concluderà quella vicenda. Anche gli eventuali e celebri “happy end” filmici sono sempre provvisori e non solo consolatori.
Chiudiamo, aggiungendo un altro riferimento intertestuale alla lunga lista di film e romanzi già citati. Al termine di una delle improprie sedute psicoanalitiche, Williams regala ad Anna un piccolo volume di Henry James, La belva nella giungla. Il protagonista della vicenda, Marcher, uomo al confine della mezza età, come Williams), è, infatti, ossessionato da una presunta intuizione, quasi divinatoria, che risale all’infanzia: dovrà accadergli qualcosa che lo cambierà profondamente, in meglio o in peggio, ma che non potrà lasciarlo indifferente. Questo è il suo segreto – la sua “bestia nella giungla”, pronta ad assalirlo – confidato, dieci anni prima, a una giovane compatriotta, May, conosciuta a Napoli, durante un tipico viaggio da “Grand Tour”.

''Confidenze troppo intime''Durante un pranzo tra amici, Marcher ritrova May, che, dieci anni prima, avrebbe potuto amare se non avesse avuto quell’ossessione. La loro successiva frequentazione riaccende qualcosa che va oltre l’innamoramento evanescente di quel tempo ormai lontano, ma proprio il protagonista maschile si dimostra incapace di vivere la storia d’amore a causa della sensazione d’incompiutezza del proprio destino. Dunque, il testo è un’analisi profonda di stati d’animo ossessionati dalla morte, unica “bestia” che cambia definitivamente e senza via di scampo gli esseri umani.
Quel racconto, assieme ad altri dello stesso James, ispirò Truffaut per La camera verde, appunto un film sul culto del passato, basato su una religiosità di tipo estetico-memoriale che esaspera il ricordo delle nostre bellissime ossessioni letterarie, filmiche, artistiche. Leconte lo usa invece discretamente, quasi in maniera subliminale, per suggerire, attraverso tutte le incertezze dei suoi eroi, che non solo Williams, cosciente della propria incompiutezza sentimentale, ma anche Anna – accolta dallo psicoanalista/commercialista in quanto specchio della propria infelicità – siano in attesa di qualche “belva nella giungla” che cambi i loro destini.

Poiché tutta la seconda parte del film, come ho già scritto, scivola nelle atmosfere del noir, la citazione di James, sembra, da un lato, confermare, quest’ambiguità semantica, dall’altro colloca l’eventuale delitto o la semplice pulsione di morte, in un limbo nel quale “affoga” la maggiore parte degli esseri umani: non aver vissuto una vita vera, o meglio averla semplicemente subita. Ritornando al finale, non possiamo che chiederci che se per i protagonisti l’apparizione della “belva nella giungla” abbia avuto un effetto positivo o sia stata solo la conferma dell’impossibilità di ogni legame.

24 febbraio 2015