Percorso

La giornata della memoria

Memorie d'Oltrecinema. Ida di Paweł Pawlikowski (2013), Ingenui perversi di Andrzej Waida e Jerzy Skolimowski (1960), La passeggera di Andrzej Munk (1963), Mani in alto di Jerzy Skolimowski (1968), Shoah di Claude Lanzmann (1985), Il Decalogo n. 7 di Krzysztof Kieslowski (1988), L’uomo per bene. Le lettere segrete di Heinrich Himmler di Ivana Lapa (2014). Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

''Giornata della memoria''Anche quest’anno sale cinematografiche e televisioni celebrano la Giornata della Memoria (27 gennaio) con una scelta di film di nuova produzione e reperti di un passato, prossimo e remoto, in cui non era facile commemorare e neanche raccontare il massacro degli ebrei.

Soprattutto era quasi impossibile “far vedere” i campi di sterminio, quelli veri, documentati dai cineasti statunitensi e presentati al primo Processo di Norimberga, nel 1946, e quelli ricostruiti, magari in un ex lager jugoslavo, come accade per Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo.
Il confronto passato/presente serve anche a una differenziazione specificamente filmica: pochi e quasi sempre autoriali, e spesso rigorosissimi sul piano storico e morale, i vecchi titoli. Questo, almeno fino agli anni Settanta del “fascinating fascism” di Susan Sontag che criticava la spettacolarità popolare non solo del celebre e, purtroppo, affascinante, Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, ma anche i celebratissimi La caduta degli dei di Visconti (1967) e Il portiere di notte di Liliana Cavani, per non parlare dei film nazi-erotici, dai titoli inequivocabili: L’ultima orgia del III Reich, Salon Kitty, Le deportate della sezione speciale delle SS.

Il gran numero di film che da almeno un decennio – la Giornata della Memoria fu istituita nel 2005, per celebrare il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico – vengono programmati tra gennaio e febbraio di ogni anno, certificano invece la nascita e la velocissima stabilizzazione di un grande contenitore  tematico al cui interno si possono facilmente leggere le diverse appartenenze di genere: l’avventura, il melodramma, la tragedia dell’infanzia, e, sempre più spesso, la ricostruzione documentaria o para documentaria.

''Night will fall''Non a caso, lo scorso anno, i film più rilevanti furono Night will fall (La notte finirà), un documentario di André Singer, che utilizzò i celebri film girati nei campi di sterminio dagli operatori alleati ma anche le immagini, inedite, riprese dai sovietici a Madajnek e Auschwitz.
Sconcertati da ciò che avevano visto e che superava ogni pessimistica previsione sul livello di barbarie dei nazisti, sia gli inglesi che gli americani avevano in mente di produrre un lungometraggio su quell’argomento, e il produttore Bernstein, che coniò il celebre titolo Memory of the camps, aveva già ottenuto la disponibilità di Alfred Hitchcock come regista. Il maestro inglese, dopo aver visionato il materiale, scelse di creare un contrasto – tipico dei suoi film di finzione – tra i campi di sterminio e la pacifica vita di coloro che, a pochi chilometri dalle città della morte, vivevano quasi in un’arcadia, disturbati solo dall’odore dei cadaveri bruciati.

''The death mills''Ma la guerra fredda era alle porte e quel provocatorio montaggio ideato da Hitchcock, secondo gli inglesi, avrebbe spaventato la nuova classe dirigente tedesca che premeva per creare una nuova alleanza anti sovietica. Gli americani, che avevano inventato la “denazificazione” per selezionare una nuova classe dirigente, tennero duro, ma semplificarono il copione, chiedendo a Billy Wilder di occuparsi di quel materiale. Wilder accettò e montò un documentario secco, fin dal titolo, The Death Mills (i mulini della morte) in cui esplorava semplicemente i luoghi terribili dello sterminio, commentando duramente il comportamento criminale dei responsabili e dei complici silenziosi.
Ben presto tutti quei materiali finirono negli archivi. Si poterono vedere solo dopo il 1985. Di fatto, pur a pezzi, in questi ultimi trent’anni, le “memorie dei campi” sono state un ingrediente obbligatorio delle commemorazioni della Shoah.

''L'uomo per bene. Le lettere segrete di Heinrich Himmler''Legato al magistero di Hanna Arendt è invece l’altro documentario presentato nel 2014:  L’Uomo per bene. Le lettere segrete di Heinrich Himmler, girato da Ivana Lapa, documentarista belga, residente in Israele. Il film ricostruisce la vita del braccio destro di Hitler, capo delle SS e della Gestapo e ideatore dei campi di concentramento, attraverso le sue memorie e le sue lettere a moglie e figlia. Tra queste lettere – ritrovate dagli alleati e mai pubblicate – spicca la descrizione del campo di Dachau, visitato dalla famiglia Himmler. Da questi scritti, inevitabilmente surreali, non si capisce, infatti, se in quel campo in cui si stava come in un “resort” (sic!), fosse in atto una messa in scena appositamente preparata per le ispezioni della Croce Rossa, o se anche i familiari del capo delle SS si fossero adattati all’autoinganno dei “tedeschi  per bene”. Il profilo del personaggio è, infatti, tutto “lavoro, casa, famiglia e amante”: un borghese che aspira alla serenità ma che, in virtù del dovere e dell’onore del Terzo Reich, è costretto a non avere pietà di nessuno. Per questo scrive, quando già la fortuna del nazismo stava crollando, che a lui e agli altri gerarchi nazisti dovrà essere riconosciuto l’appellativo di “uomini per bene”.

''Son of Saul''Anche per il 2015 la mescolanza dei generi domina il ricco paesaggio cinematografico dedicato alla Shoah. Si va dal prezioso ma tradizionale, quasi scolastico (nella forma e nella possibilità di usarlo con gli studenti) Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, al recupero del capolavoro di Charlie Chaplin, Il grande dittatore (1940); da Il figlio di Saul, attesissimo film dell’ungherese Laszlo Nemes, premiato a Cannes, a The Eichmann Show di Paul Andrew Williams: un film biografico dedicato al fotografo e documentarista statunitense di origine ebraica Leo Hurwitz. Diventò celebre nel 1961 per aver filmato le centinaia di udienze del processo contro il “ferroviere” nazista, responsabile della deportazione di milioni di ebrei verso i campi di sterminio. Attesissimo, infine, anche l’ultimo film dell’armeno-canadese Atom Egoyan, Remember, che racconta la ricerca, da parte di un sopravvissuto alla Shoah, dell’ufficiale nazista responsabile dell’uccisione dei suoi familiari.

''Ida''Nei primi anni Sessanta questa normalizzazione spettacolare (ma anche documentaria) della Shoah, fu definita una “trivializzazione” da Wiesel, sopravvissuto a Auschwitz, scrittore e inventore del termine Olocausto, ovvero sacrificio, una parola ambigua contestata persino da Primo Levi. Ma pure, se non la coscienza, almeno la conoscenza dell’orrore è ormai un dato assodato della cultura contemporanea che si deve anche a questa apparente “trivializzazione” spettacolare.
In ogni caso la quantità e la varietà delle pellicole apparse negli ultimi anni, si è talmente normalizzata, che, di fronte alla riproposizione televisiva di un film recentissimo, Ida (2013) di Paweł Pawlikowski, premiato lo scorso anno con l’oscar, sono rimasto ipnotizzato dalla bellezza e dalla profondità di quest’opera che pure avevo visto e apprezzato in una sala cittadina appena due anni prima.

Nato in Polonia, formatosi in diversi paesi dell’Europa occidentale, tra i quali l’Italia, e poi negli Stati Uniti, Pawlikowski è un quasi sessantenne che, evidentemente, dopo aver viaggiato e filmato in ogni parte del mondo (alcuni sue opere che precedono Ida sono reperibili in Dvd), non ha dimenticato la sua Polonia e la sua storia travagliata in cui spicca la quasi totale cancellazione dell’ebraismo dovuta all’invasione e al dominio nazista.
Il suo ultimo film sembra così voler riattivare un circuito di conoscenza di elaborazione filmica che è rimasto “sotterraneo” o meglio limitato a opere d’autore dolenti e raffinatissime e mai a ciò che è stato definito un contenitore di diversi generi spettacolari.

''Ida''Intanto è meglio precisare che cosa ci racconta Ida, nome proprio di una giovane e bella ragazza che, nelle prime immagini, in abiti da novizia, vediamo pulire una statua di Cristo e poi collocarla, assieme alle compagne, anch’esse novizie, al centro di un cortile innevato. Il Cristo trionfante – simbolo di una presenza divina che tornerà spesso a sottolineare, anche attraverso la  sinfonia Jupiter di Mozart,  una sorta di effimera sorveglianza sui destini e sulle opere concrete dell’uomo – sembra però circondato dalla tristezza generale, che forse è solo un aspetto dell’austero patetismo cristiano che si respira nel convento. Monache e novizie siedono a tavola e l’unico suono è quello del cucchiaio che pesca nella minestra.
In procinto di lasciare il noviziato per diventare monaca, la ragazza è quasi obbligata dalla superiora a concedersi un breve intervallo di libertà. Deve conoscere la zia, unica parente in vita, che nulla sa delle sue scelte religiose. Ida lascia il convento. Nell’inquadratura successiva appare, innevata, la prima delle lunghe strade, ripresa in campo lungo, che dovrà percorrere in cerca della propria storia.

''Ida''La zia, Wanda, è un giudice: la vediamo presiedere un processo in cui un militare, ex ufficiale del generale Piłsudski – capo del governo polacco fino al 1934 e bollato dalla storia come un dittatore che ammirava il fascismo italiano – è accusato di aver reciso con la spada dei fiori rossi posti attorno a un monumento ufficiale dello stato. Wanda è impassibile, ma in alche sequenze successive, tra una notte di sesso e un continuo eccesso alcolico, confessa alla nipote che lei era nota come Wanda la sanguinaria, magistrato che aveva chiesto e ottenuto molte condanne a morte nei confronti di oppositori del comunismo. In maniera quasi scostante, pur affezionandosi alla nipote, la donna chiama Ida la “suora ebrea” e le spiega che lei è l’unica sopravvissuta della sua famiglia, togliendole però ogni speranza di rintracciare le tombe o i corpi dei genitori, che abitavano in campagna, salvo poi decidersi a ripercorrere, assieme alla nipote, l’itinerario della memoria e del dolore.

''Il decalogo''Per Ida il percorso è totalmente formativo, in senso storico, memoriale, e persino “mondano”: diventerà donna in una fulminea e intensa storia d’amore con un giovane musicista che esegue al sax Parker e Coltrane. Per Wanda, al contrario, il viaggio, sempre segnalato dalla simbologia delle strade senza fine attraverso l’immenso vuoto della campagna, è l’inizio di un tragico sprofondamento in una memoria totalmente rimossa e sostituita dalla “vendetta” verso i propri compatriotti che non hanno voluto adeguarsi al presunto buon governo antifascista.
Per affinità tematica, ma soprattutto per la narrazione sfuggente e “aggrappata” quasi ai resti memoriali – in questo caso anche materiali, visto che una delle sequenze più  marcate è il disseppellimento delle poche ossa degli uccisi – il film può ricordare uno dei migliori episodi del Decalogo di Kiewslowski (1988), il settimo (Non dire falsa testimonianza), in cui una ricercatrice americana di origini ebreo-polacche, scampata al massacro, cerca di penetrare il muro apparentemente solidissimo di un’anziana insegnante cattolica che, trent’anni prima, avrebbe dovuto adottarla e spacciarla come sua parente. Anche in quel film il peso della memoria è, da un lato, soffocante e ambiguo per la donna anziana (e assolutamente invalicabile per il vero autore del salvataggio, un anziano sarto che, pur riconoscendo la ragazza, si rifiuta di parlare di quegli eventi), liberatorio per la giovane studentessa.

''Shoah''Per inciso, le due vicende raccontate da Kiewsloski e Pawlikowski – quasi parallele, almeno a livello narrativo – sembrano estratte dall’immensa raccolta (11 ore di film) di testimonianze e “novellizzazioni” raccolte nel 1985 da Claude Lanzmann in Shoah, tuttora l’indiscusso “breviario” dell’orrore nazista, raccontato da protagonisti e testimoni.
In realtà, Ida, pur rendendo omaggio – forse volontariamente – a quei titoli non troppo distanti dal presente, ha una forma filmica che tende piuttosto a collegarsi con il passato quasi remoto del cinema polacco post bellico.
Ambientato nel 1961/62 – il segno inequivocabile è la canzone Ventiquattromila baci, già presente in un altro film simbolo dell’est Europa comunista degli anni Sessanta, Ti ricordi di Dolly Bell di Kusturica, girato nel 1981 – usa un formato assolutamente “inusuale”, l’1:66, ovvero il 3/4 dell’attuale e rara, se non per i film appartenenti a epoche passate, fruizione televisiva. Inoltre, il clima urbano fa riferimento esplicito a una sorta di positiva “gioventù bruciata” in perfetta sintonia con ciò che si vede, ad esempio, in Ingenui perversi (1960) di Wajda e Skolimowski. La seduzione di Ida da parte del jazzista non può che ricordare quel film, magari facendo slittare il tono grottesco dei due autori citati verso il “pathos” del ritrovamento di una vita vera da parte della “suora ebrea”.

''Ingenui e perversi''In realtà, anche quest’esplicita citazione da autentico “cinephile” serve non solo a contrapporre una nuova generazione “ribelle” alle tristi figure dell’immensa campagna polacca, in cui gli ebrei sono scomparsi per sempre, ma anche a sottolineare che in quella gloriosa “tranche” cinematografica si parlava poco o nulla della Shoah. L’unico cineasta che la evocò, sia pure allegoricamente fu Skolimowski.  Nel 1968, al termine di una serie, quasi autobiografica, sulla “gioventù bruciata” dei “sixties” polacchi (Ingenui perversi, Rysopis, Walkover, Barriera, Mani in alto), mette in scena, con Mani in alto una sorta di teatralizzazione che anticipa La classe morta di Kantor. I vivi/morti di quello straordinario film sono dei medici trentenni, privilegiati che hanno rinunciato ai loro ideali per fare carriera. Si ritrovano per una rimpatriata e fingono (ma questo lo spettatore lo saprà solo alla fine) di fare un viaggio per andare a trovare un loro amico, in campagna, che ha scelto di fare il veterinario pur di sfuggire al conformismo. Il vagone nel quale s’imbarcano sarà il teatro di un happening surreale, quasi orgiastico, in cui quegli ex ragazzi rivoluzionari mimano il passato. Ma, alla fine, il treno sarà comunque sempre fermo alla stazione di partenza e il vagone, di fatto, è uno di quelli – ormai un reperto storico – che servirono a portare i loro padri, fratelli maggiori, amici o vicini di casa, nei campi di concentramento e di sterminio. Mani in alto sarà l’ultimo film polacco di Skolimowski che sarà espulso dal suo paese.

''La passeggera''L’altro richiamo d’epoca, legato agli ultimi tentativi di non spegnere il ricordo del massacro, è ugualmente un film celebre, La passeggera (1963) di Andrzej Munk. Montato dall’assistente Andrzej BrozowskiMunk morì in un incidente stradale alla fine delle riprese – racconta l’ossessione di un’ex guardiana tedesca di Auschwitz di fronte al possibile incontro con una prigioniera da lei vessata, il cui sguardo crede di incrociare durante una vacanza in crociera, cioè in un “non luogo” non solo lontanissimo in senso spaziale e temporale dagli avvenimenti del lager, ma separato da una sorta di “cosmopolitismo” che ha cancellato le persecuzioni razziali.
Il nucleo memoriale, diviso in due parti distinte (una prima versione è raccontata al marito della donna; la seconda è una sorta di monologo interiore visualizzato), non riguarda direttamente la persecuzione antisemita ma, nondimeno, la causa scatenante della violenza è la sparizione di un bambino ebreo, destinato alle camere a gas, che si pensa sia stato nascosto e salvato dalle prigioniere politiche. E ancora, come sfondo alla storia principale, oltre al fumo nero dei forni, c’è il continuo via vai delle comitive con la stella gialla (in particolare bambini), che scendono nei sotterranei, mentre in superficie, un soldato tedesco, dopo essersi messo maschera e guanti, inserisce in un cammino il famigerato Ziklon-B.

Qualche anno dopo, il suo assistente Andrzej ''Ida''Brozowski, con il documentario Archeologia (1968) ci darà un’altra straordinaria testimonianza di ciò che resta dei campi di sterminio, descrivendo lo scavo dei terreni attorno ad Auschwitz ed elencando i reperti “archeologici” (occhiali, vestiti, scarpe, ossa, etc.), ma in realtà memoriali, delle centinaia di migliaia di morti ammazzati.
Tornando a Ida, come sempre un film è anche “solo un film”, e facilmente si può leggere la pellicola di Pawlikowski – vederne o non vederne la bellezza – senza i rimandi all’iper testo filmografico che ho esposto nelle righe precedenti. Ma è comunque difficile non interpretare lo straordinario viaggio, quasi filosofico, alla ricerca di una verità dolorosa, come sovrapposizione continua di una sorta di “antologia” – anche questa post-moderna, dopotutto – del cinema polacco post bellico e delle problematiche, anche morali, legate alla messa in scena dell’Olocausto.

Il bianco e nero e il formato dell’immagine evocano inequivocabilmente il passato: ciò che avrebbe potuto essere raccontato dal cinema post bellico ed è invece rimasto sepolto. Il passato sono le strade vuote: invitano lo spettatore a percorrerle con la propria immaginazione, a riempirle storicamente e individualmente, come se dovesse accettare o respingere, nella bellissima sequenza finale, pasoliniana, la scelta della protagonista di ritornare al silenzio pacificante del convento dopo la sua “escursione” mondana, tragica ma anche piena di bellezza autenticamente erotica, passionale, vivificante. E ancora, considerata la tradizione cattolica polacca, non estranea all’antisemitismo che favorirà la persecuzione anti ebraica, la presenza/assenza di Dio – quello cattolico dell’iconografia tradizionale, quello universale di Mozart, potente ma inclusivo – carica la vicenda di tanti altri significati sovrapponibili ai personaggi “scarnificati”.

''Ida''Ida ci parla, insomma, anche del silenzio di Dio, inevitabile, secondo quanto accade nella trilogia bergmaniana –  Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio – o nel Decalogo di Kiewsloski.  
Ma, di nuovo, allontanandoci dalla Polonia – così come ha fatto il regista nelle sue peregrinazioni tra Italia, Russia, Francia e Stati Uniti – la forma austera di Ida richiama il grande maestro dell’ellissi e dell’austerità filmica, Robert Bresson, che sosteneva la radicale e mai realizzata pratica del film come anti teatro e anti letteratura: purezza e simbologia delle immagini. Ida ci si avvicina, anche in quella sorta di giansenismo che il regista francese poneva a fondamento della sua religiosità tragica: tutti i personaggi del film di Pawlikowski hanno perso la Grazia divina o magari non l’hanno mai avuta. Forse solo Ida si salverà.

27 gennaio 2016

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