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Il dottore e il vampiro

Memorie d'oltrecinema. Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Weine (1919), Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau (1922). Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

''Il gabinetto del dottor Caligari''Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari) e Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens) sono due film tedeschi, rispettivamente datati 1919 e 1922, tra i più celebri dell’intera storia del cinema.

Considerando che la fase “alta”, se non altissima, della cinematografia di quel paese, la Germania, si chiuse nel 1931 con un altro capolavoro assoluto, M - Il mostro di Düsseldorf (M - Eine Stadt sucht einen Mörder), possiamo ritenere che la circuitazione delle due pellicole, restaurate e distribuite dalla Cineteca di Bologna in molte sale italiane, tra le quali il Greenwich di Cagliari (dall’otto febbraio e per tutto il mese), sia  un evento imperdibile.
Si può aggiungere una nota storica: la Germania post bellica – per non fare confusioni, il “bellum” è la Grande Guerra, che si concluse nel 1918 – fu per quindici anni un’agguerrita concorrente del già sviluppato cinema statunitense che, soprattutto a partire da Griffith e dal suo Nascita di una nazione (1914), stabilizzò lo spettacolo filmico come una sorta di grande letteratura popolare costruita attraverso le immagini in movimento.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Alla prevalenza quasi assoluta dell’aspetto narrativo, i tedeschi degli anni Venti (e i nomi sono una garanzia: Murnau, Lang, Lubitsch, per non parlare dei grandi tecnici della fotografia che rivoluzionarono il cinema hollywoodiano degli anni Trenta) aggiunsero la rivalutazione della scena, o meglio l’elaborazione dell’inquadratura attraverso ogni uso possibile e immaginabile dell’espressione creativa, sia essa luminotecnica, scenografica, recitativa, e soprattutto legata alla posizione della cinepresa.
Infine, per non spaventare troppo gli spettatori con richiami all’obbligatorietà delle conoscenze storico-tecniche-artistiche, basta ricordare che nell’attuale e sempre più esponenziale accumulo di opere filmiche basate sulle tecnologie moderne “attrattive” e iperspettacolari, riuscire ad apprezzare  un film muto (o meglio non parlato) e in bianco e nero (o al massimo, colorizzato secondo scelte emozionali) è diventato quasi impossibile.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Lo spettatore contemporaneo ha ormai disabituato i propri occhi alla visione della bassa definizione, o per dirla con McLuhan, dei mezzi freddi che devono essere “riscaldati” dallo spettatore attraverso un’interazione con ciò che accade sullo schermo. Pochi film si salvano da queste limitazioni, derivanti, purtroppo, dall’evoluzione della tecnica: le opere di Chaplin e Keaton – soprattutto a partire dagli anni Venti – per la loro immediatezza comica derivante dalla formazione clownesca; La passione di Giovanna D’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer, per quell’annuncio straordinario di un’espressività anche vocale “impedita” dalla tecnologia; i film di Ejzenstejn – nonostante Fantozzi – per la prodigiosa creatività  del montaggio e per la costruzione delle inquadrature come fossero, di per se, opere d’arte in movimento. Infine i due titoli citati, ai quali vanno aggiunti altri film tedeschi minori, rubricati prevalentemente nell’ambito di una corrente estetica nota come “espressionismo”.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Il gabinetto del dottor Caligari è, appunto, universalmente indicato come primo film espressionista della storia del cinema. Per alcuni studiosi è anche l’unico, e questa tesi si può accettare solo considerando che sia il produttore (Erich Pommer, direttore della prima e unica major tedesca, l’UFA), sia gli sceneggiatori (Carl Mayer e Hans Janowitz), gli scenografi (i pittori Walter Roehrig, Walter Reimann, Hermann Warm) e quindi il regista Robert Weine, vollero coscientemente realizzare il film a partire da una rigorosa applicazione al cinematografo finzionale delle tecniche rappresentative dell’espressionismo e, attraverso questo, visualizzare e “incorporare” l’interiorità sofferente dell’essere umano, la sua psiche turbata, i suoi atti estremi.
Sono due, in effetti, i riferimenti formali del film. Il primo è la drammatizzazione della “follia” come distorsione della realtà, interiore ed esteriore. Freud cominciava a essere di gran moda e, nel 1926, Pabst, uno dei maggiori registi tedeschi, cercò di coinvolgerlo, senza successo, nella realizzazione di un film ispirato alle sue teorie, I misteri di un’anima. Il secondo è l’esistenza, nel 1919, di un “corpus” pittorico espressionista ormai vastissimo e per di più quasi popolare, soprattutto dopo che alcuni critici, contrapponendo l’esasperata e dolorosa raffigurazione dei personaggi di Van Gogh e Edvard Munch all’“impressione” dei pittori francesi di fine secolo, contribuirono a codificare una sorta di genere che troverà una sua sponda nazionale soprattutto in Germania.

''Il gabinetto del dottor Caligari''I principali protagonisti del movimento furono Emil Nolde, Ernst Ludwig Kirchner, Franz Marc e il russo, poi naturalizzato tedesco, Wassilj Kandinskij che, prima di approdare all’astrattismo, fu anch’egli un grande rappresentante dell’espressionismo.
Proprio a Kirchner, già molto famoso, pensarono gli sceneggiatori come un possibile collaboratore. Pommer, invece, preferì puntare su artisti meno celebri, in maniera da poter “sindacare” il loro operato senza troppi problemi. Ciò che importava era l’interazione tra la trama gialla o “horror”, ideata da Mayer e Janowitz, e lo sfondo scenografico.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Dunque, il protagonista del film, Cesare, sonnambulo e indovino, e probabilmente serial-killer, esibito in una fiera da una sorta di mago che si chiama Caligari, si muove in uno scenario quasi interamente costituito da fondali dipinti e da oggetti distorti: le finestre e le porte sono sghembe, le scale contorte come in un disegno di Escher, le strade e le montagne, anch’esse dipinte, visibilmente anti realistiche, così come gli edifici del paesino in cui si svolge l’azione. Giusto per fare un solo esempio, la sequenza in cui il protagonista s’inoltra in un sentiero dipinto potrebbe essere stata disegnata da Van Gogh e certamente anticipa di sessant’anni il celebre episodio di Sogni di Kurosawa (1990), dedicato all’ultimo dipinto del pittore olandese, Campo di grano con corvi. Secondo il ceco Janowitz,  le distorsioni architettoniche, esasperate dalla pittura, erano ispirate ai tanti edifici gotici visibili nel ghetto ebraico di Praga: un paesaggio capace di evocare leggende come Il Golem, del resto trasposto anch’esso in un film di qualche anno prima, il 1915, e firmato da Paul Weneger e poi nuovamente girato dallo stesso Weneger, dopo il successo di Il Gabinetto del dottor Caligari, nel 1920, con una maggiore accentuazione dell’aspetto onirico.

''Metropolis''Infine, non va dimenticato che l’espressionismo aveva già fatto la sua comparsa nei repertori teatrali fin dal primo decennio del secolo, per opera di Max Reinhardt, che già utilizzava scenografie anti naturaliste preparate da pittori. Nel teatro espressionista ebbe però una grande importanza l’uso delle masse “attoriali”  come scenografia vivente e, chi ricorda le scene della fabbrica di Metropolis di Fritz Lang (1927), può capire l’importanza semantica di queste scenografie viventi e attive drammaturgicamente.
Naturalmente, tornando al film di Wiene, presentare una “realtà” così follemente trasfigurata e distorta anche nei suoi aspetti minimi, funzionali, relativi agli oggetti di uso quotidiano, significava attribuire ai misteriosi eventi delittuosi che costituiscono l’essenza del racconto, un senso paradigmatico: il mondo – e in particolare quello tedesco, appena uscito dalla guerra – è un luogo da incubo, dominato da un pazzo, il Dottor Caligari.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Questa è la tesi di un celebre storico del cinema, Sigfried Kracauer che, nel suo libro più famoso (Cinema tedesco. Dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler) sostiene la tesi che la sceneggiatura originale presentasse il racconto totalmente oggettivato, e dunque l’orrore diffuso, assieme ad altri esempi di film turbativi dello stesso tipo, preconizzava l’avvento del nazismo. La tesi è abbastanza tipica della saggezza con “il senno di poi”. In ogni caso, il film che si è sempre visto e che, anche in quest’occasione, verrà proiettato nelle sale italiane, non è affatto oggettivato. Il racconto è infatti mediato da un narratore di secondo grado, Cesare, che, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, racconta una storia di delitti, di cui sembra essere il protagonista, anche se continua a negare le sue responsabilità. Nel suo delirio, invece, il responsabile delle uccisioni è nientemeno che il direttore del manicomio, appunto il Dottor Caligari, che Cesare identifica nell’ipnotizzatore che controlla un sonnambulo con le proprie fattezze. Nel finale, dopo aver seguito i racconti del suo ricoverato, Caligari dichiara che dopo aver appreso questa confessioni, ha capito come curare il suo paziente.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Dietro l’esplicito influsso freudiano – la terapia della parola – anche il racconto di un pazzo finisce comunque per coinvolgerci in un universo profondamente turbativo che la scenografia, i gesti, le luci, gli angoli di ripresa accentuano in maniera quasi esasperante, soprattutto in relazione ad un’epoca in cui la visione filmica era ancora prevalentemente di tipo frontale, l’illuminazione naturale, le riprese ad altezza di sguardo, se non quando si dovevano far notare allo spettatore dei dettagli. Immediatamente queste tecniche vennero definite espressioniste e successivamente, ebbero un’importante decisiva nella nascita e nello sviluppo del “noir” e dell’ “horror” statunitense, “inventato”, si potrebbe dire dai tecnici tedeschi fuggiti dalla loro patria dopo l’avvento di Hitler.
Però questa definizione non è neanche sufficiente a spiegare interamente il cinema tedesco “fantastico”, dato che, in questa lista, a partire dal 1913 di Lo studente di Praga di Stellan Rye e poi dal 1914 e del 1921 di Der Golem,  possono essere compresi tanti altri titoli che, per ammissione dei loro autori, rifiutano l’estremizzazione tecnico-stilistica di Il gabinetto del dottor Caligari: Genuine (1920) dello stesso autore di Caligari, Robert Weine; Dal mattino a mezzanotte (1920) di Karlheinz Martin; Destino (1921), Il dottor Mabuse (1922), Nibelunghi (1924) e Metropolis (1927) di Fritz Lang; Ombre ammonitrici (1923) di Artur Robinson; Raskolnikov di Robert Weine; La strada (1923) di Karl Grune; Il gabinetto delle figure di cera (1924) di Paul Leni, Faust (1924) di Murnau.

''Il gabinetto del dottor Caligari''Per trovare un punto unificante tra queste opere, al di là della diversità autoriale di un Lang o un Murnau rispetto a Grune e Martin, è preliminarmente necessario ricorrere a referenti letterari, di tipo alto e basso. Quello alto è rappresentato non solo da Goethe – per il senso demoniaco delle ispirazioni al dominio e al piacere dei diversi personaggi dei film citati, primo tra tutti Faust – ma soprattutto dai racconti di E.T.A. Hoffmann, tra i più celebri scrittori romantici tedeschi, modello per altri autori turbativi come Poe, Dostoevskij, Gogol, Puskin, Baudelaire. Quello basso/popolare è invece la grande tradizione cultural-fiabesca dell’ebraismo tedesco-praghese. Come dire che la seconda grande cinematografia occidentale della prima parte del secolo trovò la sua ispirazione, altissima, dentro una propria e profonda tradizione capace però di trascendere il localismo attraverso una specifica estetica filmica universalizzabile. Tutto il contrario di ciò che accadeva negli Stati Uniti, dove le tradizioni letterarie di ogni paese occidentale vennero sottoposte alla dittatura dell’universalismo spettacolare.

''Nosferatu''Un esempio di continuità tra la radice romantica del cinema tedesco e le “distorsioni” e interiorizzazioni derivanti dalle tecniche dell’espressionismo, è appunto rappresentata dal secondo film restaurato dalla Cineteca di Bologna e, non a caso, proiettato in un doppio programma (complessivamente le due pellicole arrivano a 140 minuti) che, come ai tempi del cinema muto, sarebbe stato degno di un accompagnamento musicale, con un pianoforte o magari con un’orchestra.
Il titolo è Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens) di Friedrich Wilhelm Murnau (1922), primo adattamento cinematografico del celebre e popolarissimo romanzo di Bram Stoker, Dracula, pubblicato non molti decenni prima, nel 1897. La deviazione dalla tradizione romantica tedesca – Stoker era irlandese e visse, studiò e scrisse le sue opere a Dublino – è solo apparente e semmai aggiunge alla definizione culturale onnicomprensiva (romanticismo), un suo attributo formale, il gotico, che nei paesi del nord Europa, e poi negli Stati Uniti, trascende l’arte e l’architettura tardo medievale per diventare una forma e, talvolta, un genere letterario e filmico nel XIX e nel XX secolo.

''Nosferatu''Infine, alla gamma di leggende popolari che hanno nutrito i film espressionisti, si aggiunge un nuovo filone, il vampirismo dei paesi slavi e mitteleuropei, originato non solo da una tradizione leggendaria balcanica ma anche dalla vicenda, che traspare nel celebre e insipido film di Coppola, Dracula di Bram Stoker (1992), del principe valacco (la Valacchia è una regione della Romania che si estende fino alla Transilvania) Vlad III, sopranominato l’impalatore, che difese il cristianesimo dai turchi. Va aggiunto che John Polidori, amico di Byron e Shelley e anche egli partecipe delle notti tempestose nella villa sul Lago di Ginevra in cui nacque un altro “mostro”, Frankenstein, pubblicò, nel 1919, Il vampiro, in cui le leggende balcaniche sono trasfigurate nella persona di un gentiluomo inglese, misterioso, affascinante e seduttore, che si nutre di sangue umano.

''Nosferatu''Anche nel romanzo di Stoker rimane ben poco della leggenda originaria: siamo nuovamente di fronte a un nobile e affascinante gentiluomo ottocentesco che vuole conquistare (vampirizzare, cioè sedurre, succhiare il sangue, la vita, l’economia, il potere, come suggeriva in un celebre e discusso saggio Franco Moretti) l’occidente.
Nel film di Murnau, infine, quest’icona tutto sommato ancora seduttiva,  diventa esplicitamente un vero e proprio fantasma incarnato: il conte Orlok, timido, spettrale, patetico, che, in una delle sequenze più belle del film, e forse dell’intera storia del cinema, accoglie il protagonista, Hutter, materializzandosi sulla porta del suo castello nei Carpazi, immerso nella notte e nella nebbia.

''Nosferatu''Oggettivando il racconto “epistolare” di Stoker  e spostando l’ambientazione della seconda parte del romanzo dall’Inghilterra vittoriana – in cui la sensualità del vampiro è un modo per conquistare l’occidente puritano – alle coste del Mar Baltico, Murnau restituiva i fantasmi al proprio mondo di appartenenza: da un lato le architetture civili e commerciale di Wismar e Lubecca, città anseatiche nelle quali i profili dei magazzini e delle case affacciate sul porto in cui sbarca la nave fantasma di Nosferatu, sono di per se luoghi turbativi, quasi espressionisti; dall’altro, la pittura di Gaspard David Friedrich, citato esplicitamente in molte inquadrature d’esterni e d’interni. Insomma la grande tradizione romantica tedesca s’impone nuovamente come catalogo iconico reale e trasfigurato.

''Nosferatu''Ma se l’espressionismo di Caligari (e di altri titoli contigui) si esplicita soprattutto in una messa in scena teatrale, in cui la pittura serve a disegnare le distorsioni mentali e a prefigurare l’incubo, Murnau, assecondando di nuovo la cultura romantica, gira il suo film in esterni, tra le città anseatiche, Berlino e soprattutto i Monti Tatra, al confine tra Slovacchia e Polonia, dove abbondano i resti dei vecchi castelli medievali e i caratteristici villaggi contadini, presumibilmente legati, almeno all’epoca delle riprese, alla leggende dei vampiri. E ancora, il messaggio turbativo che Nosferatu – il “non morto” – porta in occidente non è per niente seduttivo: il vampiro imbarca sulla nave che lo porterà sul baltico delle casse di terra contaminate dai topi che, in breve, diffondono la peste tra gli abitanti della città.
Claudio Magris, nel suo monumentale viaggio (Danubio) alla ricerca di quel che rimane della Mitteleuropa protesa verso i Balcani e il Mar Nero, contrappone la mitologia germanica e poi wagneriana del Reno all’impero cosmopolita e pluriculturale del fiume che scende verso sud. Il film di Murnau sembra evocare, appunto, una pestilenza derivante da quel coacervo di popoli che, da sempre, si sono riversati come “vampiri” (barbari) in occidente.

''Nosferatu''La tesi è ovviamente piena di contraddizioni. Per Kracauer anche Nosferatu anticipa Hitler, che dopotutto era nato e vissuto a Linz, città danubiana. Ma è pur vero che il film si chiude il sacrificio di Ellen, la moglie di Hutter intravvista dal conte Orlok in un medaglione che Hutter porta con sé. La donna si fa vampirizzare fino a perirne pur di protrarre la permanenza del mostro nella sua stanza quando il sole, già alto, lo ucciderà definitivamente. Un’altra sequenza tra le più belle della storia del cinema che richiama proprio il “vulnus” wagneriano: la morte di Sigfrido che scatena la lunga guerra tra Germani, Unni e Burgundi.

''Nosferatu''Ma sto andando troppo avanti nelle interpretazioni. Il senso ultimo della vicenda allegorica è, probabilmente, più generale, legato all’esoterismo gnostico di Albin Grau, produttore e scenografo del film, basato ovviamente sul contrasto tra ombra e luce come simboli di bene e di male. Ecco il vero richiamo espressionista di Murnau, che poi troverà un ennesimo approdo nel più complesso Faust (1927), ultima sua opera tedesca: non solo l’applicazione di tecniche ormai usuali ma la volontà di aspirare alla luce, cioè alla saggezza, alla razionalità, anche in quegli inverni nordici, scacciando il male notturno del portatore di morte, sia esso Nosferatu e Mefistofele.

''Nosferatu''Ultima considerazione cronachistica: la vedova di Bram Stoker intentò una causa giudiziaria nei confronti dei produttori di Nosferatu, i quali non avevano chiesto e pagato i diritti d’autore per poter trasporre il romanzo sullo schermo. Nonostante i tanti cambiamenti, anche ambientali, e i nomi cambiati, il tribunale le diede ragione e ordinò la distruzione di tutti le copie e del negativo originale. Se ne salvarono solo tre, nascoste dallo stesso regista. Tutte le pellicole che hanno circolato con successo in questi novantadue anni, sono state ricavate da uno di quei “positivi”, poi restaurati con le tecniche digitali.

10 febbraio 2016