Percorso

Letteratura sarda - C. Sulis

"Il figlio di Bakunin" di Gianfranco Cabiddu

di Chiara Sulis

 Titolo originale: Il figlio di Bakunin. Regia: Gianfranco Cabiddu. Italia 1997
SINOSSI: In Sardegna, alla fine degli anni Trenta, Antoni Saba, proprietario di una calzoleria in un paesino di minatori, vive con spirito libertario e indipendente, al punto di avere ricevuto da tutti il soprannome di Bakunin. Tullio Saba diventa quindi, per quanti lo conoscono, il figlio di Bakunin. Dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta, Tullio, cresciuto e diventato uomo, intreccia la propria storia con quella dell'isola, la guerra, il difficile dopoguerra, le lotte sociali, la ricostruzione, i problemi legati allo sviluppo e alla modernizzazione della terra, del lavoro, della vita familiare. Si susseguono, tra una ricostruzione e l'altra di vari episodi, le testimonianze di chi l'ha conosciuto, di chi l'ha amato, di chi ne ha avuto paura. Chi era Tullio in realtà? Un capopopolo, un opportunista, un idealista, un traditore, un eroe? Quando Tullio muore, lascia un figlio, che oggi, a sua volta cresciuto, è tornato in quei luoghi per ricostruire la vita di un padre che non ha mai conosciuto di persona e che cerca di scoprire, facendo parlare uomini e donne, amici e nemici.

Cinema e letteratura ne “Il figlio di Bakunin”: conversazione con Gianfranco Cabiddu.

 Come è stato avvicinarsi ad un soggetto ispirato ad un’opera letteraria?
 Il problema del rapporto tra cinema e letteratura ha investito tutto il Novecento. Il cinema fin dalla nascita si mette a confronto con la letteratura e ne esce sminuito, per poi scoprire una rivalsa in questi ultimi anni.
Quando ci mettiamo di fronte ad un’opera letteraria e un’opera cinematografica a confronto non dobbiamo mai dimenticare che esse nascono da uno spunto comune che viene svolto in due lingue diverse: libro e film infatti utilizzano due linguaggi diversi.
Il punto di partenza è la riflessione culturale sull’oralità in Sardegna. Il libro si manifesta come un’indagine sul passato con il metodo dell’intervista e attua un importante lavoro sulla lingua: ai vari personaggi corrispondono diversi tipi di linguaggio che fanno emergere le diverse provenienze sociali. Questo confronto nel film è immediato, poiché i personaggi ci vengono mostrati, per cui oltre a vedere immediatamente come sono fatti, come si vestono e si comportano, possiamo sentirne la voce e la capacità di linguaggio.
Non possiamo mai dimenticare che quando attuiamo una trasposizione cinematografica dobbiamo utilizzare un linguaggio diverso da quello letterario.

Come ha affrontato il problema della fedeltà?
La fedeltà non deve essere concepita come una perfetta aderenza all’opera letteraria da cui si trae spunto, ma come la capacità di far funzionare una storia nata in ambito letterario e poi adattata al linguaggio cinematografico.
Il film parla di una realtà vera oggettivamente, per cui se parlo di un determinato periodo storico tutto deve coincidere per dare coerenza e credibilità al racconto, perché lo spettatore si senta “dentro” la realtà del film.
All’interno del film ci sono delle scelte personali che intervengono su questo concetto di realtà: per esempio la scelta di mostrare il protagonista come un eroe; la storia di Tullio Saba si svolge, infatti, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, ma nonostante il tempo scorra per tutti gli altri personaggi e in relazione agli avvenimenti, per Tullio sembra non passare mai, perché egli appare sempre giovane e bello, non invecchia mai, incarnando così il concetto di favola.
Un’altra scelta interessante riguarda la descrizione del concetto della memoria: le persone che parlano oggi del passato, rievocandolo, lo fanno rivivere; questo aspetto viene sottolineato dal movimento di macchina che passa dal personaggio che parla nel presente allo stesso come era nel passato, senza alcun taglio all’interno del montaggio (es. Dolores, la serva di casa Saba, mentre racconta degli avvenimenti del passato viene mostrata anziana, poi abbiamo un movimento di macchina verso sinistra e la ritroviamo nel passato, protagonista di quel ricordo).

Quanto ha inciso nella realizzazione del film la collocazione della storia in Sardegna?
Personalmente lavorare su questo film ha significato la scoperta del mondo minerario, conosciuto come tanti di noi, solo per sentito dire. Inoltre mi ha permesso di dar spazio a quel cinema popolare a cui mi ispiro nei miei lavori: una sorta di epopea che rispecchia la realtà e che concede una maggiore facilità nella costruzione cinematografica.
Per quel che riguarda le locations, mi sono ispirato a elementi reali e fantastici, coniugando le diverse realtà di Montevecchio e di Iglesias.
Nel periodo in cui è stato girato Il figlio di Bakunin non c’era ancora la realtà cinematografica della Sardegna di oggi; il cinema sardo si esauriva in poche opere, più importante delle quali Banditi a Orgosolo degli anni Sessanta. Quella di Tullio Saba è, invece, una storia nazionale che parla da un punto di vista personale, come dovrebbe fare tutto il cinema, concedermi di poter parlare di un fatto qualsiasi dal mio punto di vista.
Per quel che riguarda la scelta degli attori ho tenuto in considerazione il problema del cinema che si trova a dover scegliere tra la spontaneità degli attori di strada, che stanno nel personaggio perché sono naturali, e gli attori professionisti, che attraverso la recitazione sono in grado di esprimere sentimenti universali altrimenti difficili da interpretare.
Tanto la regia quanto la recitazione sono arti dell’interpretazione. Sotto questo punto di vista Il figlio di Bakunin appare discontinuo, poiché attinge da diversi luoghi i propri attori: abbiamo attori di cinema, dialettali e attori provenienti da un teatro “colto”.
 
Nel complesso penso che il cinema sardo viva in un clima di forte autoreferenzialità, in cui si lascia poco spazio al confronto con il resto del mondo, quando invece si dovrebbero girare immagini per unire il mondo, poiché il cinema universale è quello che parla per immagini.
 
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