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‘’Il presagio del ragno’’, il cinema come artigianato

''Il presagio del ragno''

Giuseppe Casu con il suo doc si immerge nel mondo ancora vivo degli ultimi tonnarotti - VIDEO. di Valentina Bifulco

Bastano le prime inquadrature per intuire che Il presagio del ragno sarà una visione intensa a livello estetico e coinvolgente nella narrazione. L’ultimo lavoro di Giuseppe Casu, regista cagliaritano classe ‘68, racconta la pesca al tonno rosso di 21 tonnarotti e il loro Rais.

La telecamera che segue il dondolio del mare, una squadra di uomini intenti a tessere le reti, inquadrature ampie che si alternano a primi piani delle mani dei tonnarotti, il tutto realizzato con un bianco e nero che sfrutta la luce per esaltare l’immagine. Un viaggio attraverso quella che potrebbe essere l’ultima stagione di pesca per i protagonisti, la fine di una tradizione che lega l’uomo al mare.

Giuseppe CasuLaureato in fisica, dipendente del Ministero dei beni culturali, quando e come nasce la tua passione per il cinema?
La passione per il cinema per me nasce dopo la fine degli studi, con la fuga a Parigi e la frequentazione compulsiva delle salette di cinema del quartiere latino. Semplicemente, da spettatore affamato e incallito. Due anni dopo, costretto al ritorno a Cagliari da anacronistici obblighi di “leva” e intristito dalla povertà di un'offerta cinematografica che mi colmasse, scopro la Cineteca Sarda e mi faccio il cinema in casa, un po' “roots”, con proiettore e film in 16 mm, in garage o nelle case al mare dei miei amici: nei registri dei prestiti compaio come “gruppo Casu”, che mi nutre e mi eccita sempre più. Più tardi, sempre con estenuante lentezza, trovo il coraggio di iscrivermi a un corso di regia, comincio a girare qualcosa, provo a montare con sistemi VHS superaccrocchiati. Non ero pronto, è stato un “salto” dall'altra parte della barricata che mi ha permesso di scoprire quanto tempo e quanta energia riuscissi a dedicare a quella che cominciava a diventare una passione, in cui mi raffinavo personalmente provando un piacere estremo.

Ti dedichi al documentario e non realizzi lavori di finzione, perché questa scelta?
Documentario o finzione? Be', la distinzione sembra esistere per rassicurare e catalogare stili che si intersecano in continuazione, l'interesse sta ovviamente nella qualità che si profonde e ottiene in cambio durante tutte le tappe di un processo creativo. Il mio cinema non è in nulla un'industria, è artigianato fatto di pezzi unici che si compongono alla fine di lunghe e tortuose elaborazioni, al prezzo di interminabili digestioni. Non c'è l'ombra di una catena di montaggio, ma una continua e profonda interazione tra esseri umani, filmati o filmanti che siano.

''Il presagio del ragno''Questo è il tuo obiettivo?
A me interessa indagare il mondo delle persone, sguazzare tra i meccanismi, le dinamiche e le forze che ci circondano e ci formano, sfogare una certa ansia creativa assorbendo energia, per poi ritrasmetterla nell'elaborazione di un racconto, dopo aver filtrato sottratto modificato aggiunto inventato...Forse, da questo punto di vista non c'è poi tanta differenza tra documentario e finzione. Le differenze esistono tra un approccio onesto e uno meno onesto al percorso che porta da un'intuizione - un soffio – alla materia vitale, che finisce per mescolarsi con quella degli altri in una proiezione pubblica. Tu che ne dici?

Cavallini della giara, la Sartiglia e i tonnarotti, come scegli le storie per raccontare la Sardegna?
Galleggiando negli oceani della mia ignoranza, insomma di ciò che non conosco, ogni tanto luccicano delle occasioni di cambiamento, di evoluzione, che inizialmente mi suscitano curiosità, poi magari si incrociano e rinforzano incrociandosi con circostanze apparentemente casuali, creando slanci di umanità a cui non posso rinunciare: a quel punto è fatta, inizia un cammino lungo, che fa parte della scoperta di me stesso. Così è stato per Senza Ferro, che gravitava intorno alla ricerca della memoria di mio padre a Oristano e che mi ha portato a re-incontrare suo cugino Antonio, il protagonista. In modo simile è andata per L'amore e la follia, dove la curiosità verso lo sconfinato passato minerario della Sardegna, tanto raccontato e troppo spesso in modo noioso e inutilmente apocalittico, mi ha spinto verso un tipo di storia che per me non era scontata, mi ha fatto conoscere tanti uomini-minatori che mi hanno accolto sempre con emozione, ognuno a modo suo, che mi hanno portato in cento e più gallerie, laverie, frane, discariche, rovine, collezioni di strumenti di lavoro, ma anche tante volte al bar per la birretta… Tutto questo mi ha spinto a fare un film con loro.

''Il presagio del ragno''E nel Presagio del ragno?
Nel Presagio del ragno l'accoglienza del Rais e di tutti i tonnarotti mi ha realmente aperto le porte di un mondo ancora vivo, diverso dal mio, con le sue regole, i suoi tempi e ritmi, i suoi rischi: la lunga stagione di pesca stava cominciando, poteva essere l'ultima stagione in una tonnara del Mediterraneo. Ho sentito che mi dovevo tuffare lì dentro, anche se non mi ero documentato e non avevo nessun denaro a disposizione, è diventata presto una necessità e come tale l'ho seguita, senza condizioni, nudo, solo, coraggioso. Cos'altro avrei potuto fare? Umanità, tensione verso lo sconosciuto, crescita personale sembrano ritornare con insistenza tra le mie motivazioni. E poi sempre Sardegna, la amo, mi incuriosisce, mi incatena, mi fa incazzare, ma il punto è un altro: sono sardo e non ho ancora capito cosa vuol dire.

''Il presagio del ragno''Nelle note di regia de Il Presagio del ragno si legge “Alla fine resta il bianco e nero, regna la luce, i contrasti, i riflessi; l’inquadratura si fissa sui gesti del lavoro; le parole sono rare, quasi assenti. Un cinema primitivo, in qualche modo.” Cosa ti ha convinto ad usare il bianco e nero?
L'uso del bianco e nero, proprio come l'uso del colore, è una scelta. Posso sembrare paraculo ma è solo una delle tante scelte che fanno sì che un guazzabuglio di cose diventi un film. Ho visto e rivisto cento premontaggi del Presagio - che non ho montato io, anche questa è una scelta chiara, una di quelle di cui sono più sicuro - e ho fatto mille prove, tra cui l'uso del bianco e nero, che mi è subito parso coerente con il mood, le visioni, il racconto che stavamo intessendo. Ercole - il mago della color correction – mi ha fatto notare come cambiavano i percorsi seguiti dallo sguardo all'interno delle inquadrature che io stesso avevo girato, a seconda che fosse a colori o in bianco e nero; nel primo caso, ad esempio, il peso degli oggetti dal colore forte attirava l'occhio in modo ingannevole, in punti per me senza importanza; nel caso del bianco e nero invece, la luce e i suoi effetti - principalmente di riflessione - sulla superficie e sulla texture degli oggetti, le barche, il mare, i cavi, la pelle e i volti degli uomini, diventava protagonista e ho riconosciuto questo modo di vagare con lo sguardo, era quello che seguivo io mentre giravo e componevo l'inquadratura, cercando di equilibrarla anche in situazioni molto precarie (qui parlo anche dell'equilibrio sulle mie gambe). Alla fine ho trovato il bianco e nero ben più fedele alle intenzioni e all'energia che avevo utilizzato in fase di ripresa, oltre che coerente con la tendenza a sottrarre alcuni tipi di informazione per me secondaria per esaltarne altri, tendenza che si ripeteva sempre più durante il processo di costruzione del film. Ho dunque deciso di usarlo.

Guardando Il Presagio del ragno si ha la sensazione di essere presenti, di far parte delle inquadrature. La tua cinepresa accompagna lo sguardo dei tonnarotti, ponendo lo spettatore negli occhi dei protagonisti, senza mai essere invadente. Non deve essere stato facile “scomparire” per poter essere parte del mondo che volevi descrivere…
Più che scomparire per descrivere, mi sono iniettato all'interno di quel mondo come in un'inseminazione artificiale, cercando di essere libero da preconcetti o opinioni morali verso quegli uomini un po' pirateschi che mi abbracciavano e mi accoglievano a modo loro. Come un embrione-ameba, prendevo la forma di ciò che mi circondava, sapevo che la mia anima è abbastanza forte da non lasciarsi schiacciare e abbastanza agile da seguire i movimenti che guidavano il gruppo dei tonnarotti, mi riferisco alla loro energia. A dirla tutta, non avevo alcuna certezza che ce l'avrei fatta – chi può averla? - è stata una felice scommessa che mi ha fatto scoprire più resistente e capace di quanto credessi.

''Il presagio del ragno''Sei diventato uno di loro.
Ho seguito i loro tempi dettati dal lavoro, dal mare e dal vento, ho chiesto poco e parlato poco, ma ero presente, tutto intero e attivo durante i lunghi periodi passati in tonnara. Mangiavamo insieme, dicevamo stronzate insieme. A quel punto tutto era così ricco che avevo la libertà di concentrare tutte le mie energie per seguire ciò che accadeva, per trovare i punti di vista che più mi convincevano. Non sempre era semplice, soprattutto a mare: mi puntellavo con le gambe, col bacino, con le spalle contro le pareti della barca, con la telecamera spesso poggiata su uno spigolo, sul fondo, aiutata da una felpa che fungeva così da zeppa-cuscinetto e da cavalletto di fortuna.

Progetti futuri?
Il progetto futuro è un film-viaggio. Per ora siamo in pieno brainstorming, la squadra si sta formando, sta crescendo e si sta completando, ci stiamo conoscendo sempre di più, stiamo scrivendo ma per ora cosa sarà questo film è un gran mistero. Posso dirti però che ci troviamo in pieno in quella terra di mezzo in cui ogni distinzione tra documentario e finzione pare priva di senso.

Vai al Trailer de Il presagio del ragno.

9 marzo 2016