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La trascendenza estetica di Robert Bresson

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato: Au hazard Balthazar (1966), Mouchette (1967)

''Au hazard Balthazar''Per il mese di maggio la rassegna dedicata al Cinema Ritrovato – a Cagliari la sala di riferimento è il Greenwich – presenta due film che, pur celebrati in tutto il mondo e oggetto di studi accademici, appartengono al novero delle pellicole “sommerse” da una sorta di oblio plurigenerazionale.

I titoli sono Au hazard Balthazar (1966) e Mouchette (1967), entrambi firmati da Robert Bresson. Poiché questa rubrica si caratterizza per l’andare “oltre il cinema” (ma sarebbe meglio usare l’espressione “oltre il film”) è facile ricordare che le opere del maestro francese, mai accolte con entusiasmo dal pubblico italiano (Au hasard Balthazar fu programmato nel 1972), erano presenti stabilmente nel catalogo della San Paolo Film, casa editrice e distributrice di film in 16mm che circolavano nelle parrocchie e nei circoli culturali di paesi e città, senza alcuna barriera politica o confessionale.

Poiché la San Paolo è ancora in attività e fiorente (i Dvd hanno preso il posto delle pellicole, com’è ovvio), gestita da laici/laiche e religiosi/religiose, sempre allo stesso indirizzo di via Garibaldi, il ricordo personale, e forse collettivo – almeno per quanto riguarda la “cinefilia” più esigente – ritorna agli anni in cui, per noleggiare le pellicole, si entrava nel grande deposito di via Sulis, sorta di Arca di Noè della memoria filmica che, assieme all’archivio della Cineteca Sarda – dove era presente un’altra opera di Bresson, Un condannato a morte è fuggito (1956) – nutriva gran parte delle attività dei circoli cinematografici della Sardegna.

''Au hazard Balthazar''Il posto d’onore del catalogo San Paolo spettava alle pellicole di alcuni autori che avevano messo al centro dei loro interessi, non sempre esclusivi, la fede e la religione, ovviamente cristiana, spaziando dalla storia alla cultura e senza trascurare i moderni problemi esistenziali: Bergman, Dreyer, Buñuel, Rossellini, e ovviamente Bresson, misterioso e “minimalista”, alieno da ogni trama narrativa complessa fino alla “scarnificazione” del racconto,  e perciò non sempre amato o gradito.
Oltre ai circoli, l’altro polo di utilizzazione di quei film fu naturalmente l’Università e qui altri ricordi degli anni Settanta e Ottanta focalizzano un seminario di studi dedicato proprio a quest’autore. Le responsabili della San Paolo, gentilmente, disposero l’uscita  delle pellicole con largo anticipo, consentendomi di studiare proprio un film come Au hazard Balthazar, poi proposto agli studenti del corso di cinema del professor Cara, assieme agli altri titoli bressoniani.

Non ricordo o forse rimuovo il contenuto della mia lezione (sic!), sicuramente inadeguata,  e, retrospettivamente, mi riconosco nella frase di un partecipante ad un altro seminario, dedicato a Bergman, che, alla fine della proiezione di Il settimo sigillo, affermò, ancora “emozionalmente” coinvolto da quelle immagini: “Bergman, anche quando non lo si capisce, è sempre un grande artista”.

''Au hazard Balthazar''Provo a tradurre  quella sensazione di pienezza interiore e di inadeguatezza intellettuale ricorrendo a Il trascendente nel cinema (1972), celebre testo di Paul Schrader, eclettico e geniale studioso – ma anche sceneggiatore di film come Taxi Driver, e regista di Hardcore (1979) e  Mishima (1985) – dedicato a Yasushiro Ozu, Carl Theodor Dreyer e, appunto, Robert Bresson.
Ridotta ai minimi termini, la trascendenza filmica di Schrader esclude ogni spiegazione religiosa – Ozu è, non a caso, il simbolo di una spiritualità totalmente terrena, assolutizzata dalla cultura Zen – e si concentra sullo stile filmico, ovvero sulla costruzione delle inquadrature che dovrebbero scavalcare l’eccesso di sovrapposizione drammaturgica e narrativa. Secondo questa teoria, la sacralità estetica dell’immagine – un concetto comunque appartenente alla pittura religiosa – non lascerebbe spazio al funzionalismo narrativo, cioè al principale artificio del cinematografo. Si può aggiungere che non aver inserito Bergman nell’ambito della trascendenza ha una sua logica inoppugnabile: il regista del “silenzio di Dio” parte dal cielo dei grandi misteri della fede per riportarla alla sofferenza degli umani, abbandonati dalla divinità. E dunque la “mondanità” è totalmente inserita in una sorta di recupero delle forme rappresentative classiche: il teatro, la letteratura, l’arte. Quella di Bergman, per citare Bazin, è un’arte impura, mentre Bresson aspira alla purezza del cinema.

Oggi lo studio di Schrader si può leggere anche attraverso nuove prospettive critiche. Difatti, con la nascita delle teorie sul coinvolgimento neuro-incarnato, cioè corporeo, degli spettatori (Lo schermo empatico), i film “trascendenti” sono probabilmente anch’essi una parallela costrizione/seduzione verso gli spettatori, guidata non già dall’inconsapevole rispecchiamento neurologico delle azioni, anche delittuose e criminali, comunque attive, dei protagonisti dei film (si vedano i film di Hitchcock) ma piuttosto dalla “pietas” nei confronti del destino degli esseri umani raffigurati nella loro quotidianità, aliena da ogni epica positiva o negativa.  La religione, uscita dalla porta delle analisi di Schrader, rientra dalla finestra delle nostre formazioni culturali e antropologiche.

''Au hazard Balthazar''Ed ora, per non spaventare troppo i lettori, è necessario riassumere le esili trame dei due film, in maniera che ci si possa facilmente confrontare con la semplicità quasi ontologica delle immagini bressoniane. Nel primo titolo, Au Hasard Balthazar, il protagonista è un asino che, appena nato, è stato regalato ad un adolescente, Jacques. Proviamo a tradurre  il titolo, impresa non facile, con “Balthazar, spontaneamente”, mettendo l’accento sulla pura istintività dell’animale, contrapposta alla ragione cinica degli umani. Altre traduzioni – ad esempio “Balthazar alla deriva” – connotano il personaggio come animale/uomo, in grado di percepire consapevolmente i suoi persecutori e quasi averne pietà. D’altro canto, considerando che l’asino –  dalle civiltà antiche indoeuropee e fino a quella ebraica e poi cristiana, almeno fino a San Paolo – è stato considerato un animale sacro, simbolo soprattutto del mondo contadino, non deve stupire né questa esaltazione del sacrificio, né l’idea che il mondo umano sia “filtrato” dallo sguardo innocente di Balthazar.

''Au hazard Balthazar''Tornando alla trama, Jacques è innamorato di Maria, figlia del maestro del paese, e i due sembrano volerlo trattare come un proprio figlio battezzandolo secondo il rito cristiano. Siamo alle pendici dei Pirenei: il luogo è chiuso e isolato nelle sue miserie quotidiane, ma anche ricco di entusiasmi sentimentali. Jacques, che abbandonerà il paese dopo le vacanze estive, lascerà l’animale in dono a Maria, che non se curerà troppo. Così Balthazar cambia padrone più volte e sempre peggiorando la propria situazione:  un garzone di panetteria  lo maltratta; un alcolizzato lo utilizza per i suoi vagabondaggi tra i paesi; il proprietario di un circo lo esibisce come esperto in matematica; un avido e gretto fabbricante di acque minerali lo lega ad una ruota per tirare su l’acqua dal pozzo. Infine, viene rapito dai giovani contrabbandieri per un trasporto oltre frontiera. I gendarmi sventano l’impresa. Una pallottola colpisce l’animale, abbandonato in cima alla montagna.

''Au hazard Balthazar''Un intermezzo importante del suo itinerario doloroso è la processione della Settimana Santa: Balthazar è scelto per portare su di se le reliquie  custodite nella chiesa del paese, come se la processione ripetesse simbolicamente l’entrata di Cristo, in groppa appunto ad un asino, a Gerusalemme durante la Domenica delle Palme . È un santo, esclama la vedova del maestro, madre di Maria, riconoscendone la sua natura “cristica”, per usare un termine oggi molto di moda, che dunque va ben oltre il concetto di trascendenza puramente estetica utilizzato da Paul Schrader. L’aperta indicazione santificante – con il necessario calvario finale – sembra quasi una forzatura rispetto ai linguaggi indiretti utilizzati dal regista in quasi tutto il film. Eppure, quella che possiamo indicare come un’epifania (e il nome dell’asino la simboleggia), è la logica evocazione di una Grazia impossibile, o meglio riservata ad una purezza non rintracciabile tra gli esseri umani.

''Mouchette''In Mouchette, lo sguardo dell’autore si semplifica. La protagonista, infatti, è un’umana, “selvaggizzata” dalla condizione sociale: adolescente, vive con la giovane madre, malata terminale, un fratellino di pochi mesi che accudisce lei stessa, un padre e un fratello ladri e contrabbandieri, nonché alcolizzati. Il paese è isolato nella campagna, come quello pedemontano di Au hasard Balthazar: gretto, chiuso in quel disprezzo per gli “umili” degni solo di carità. Così Mouchette si adatta ad ogni lavoro pur di racimolare qualche moneta che gli viene immediatamente sequestrata dal padre. La moneta è quasi un simbolo paradossale della miseria, materiale e umana: la si lascia nascostamente nella mano della ragazza perché si conceda un giro nel Luna Park. In parallelo, i regali della padrona dell’emporio per i benestanti vengono rifiutati violentemente da Mouchette che conferma la sua estraneità a quel mondo. Anche a scuola è maltrattata dall’insegnante e dalle compagne e lei si vendica, nascondendosi in un anfratto, vicino al fiume, e lanciando delle palle di fango alle altre ragazze. Infine, nell’unico frammento narrativo del film, il contrasto tra un guardiacaccia e un cacciatore di frodo la vede testimone di un presunto delitto e poi vittima di una violenza carnale.

La sua solitudine e il suo isolamento aumentano, così come l’orgoglio della diversità che la conduce a vantarsi di essere l’amante del cacciatore di frodo che l’ha posseduta con la forza. Infine, dopo la morte della madre, Mouchette si reca al fiume e si annega.
La ritualità e la ripetitività dei gesti della ragazza ricorda e quasi sintetizza l’agonia dell’asino Balthazar. Per Mouchette, la vita è una tragedia, la morte è un gioco, visto che si rotola verso il fiume più volte prima di cadervi e scomparire nell’acqua. La morte di Balthazar è invece racchiusa in cinque brevissime sequenze in cui anche l’agonia sottolinea l’assoluta diversità dell’animale: tornato al suo mondo naturale, la montagna e la campagna, viene omaggiato dalle altre bestie, le pecore e i cani, che lo circondano e quasi lo omaggiano come loro martire. Di nuovo la sacralità e l’assoluta precarietà esistenziale della condizione dei viventi – un concetto che più che alla tradizione cristiana sembra appartenere alle religioni orientali, buddiste e/o induiste – travalicano il naturalismo o il realismo della messa in scena bressoniana.

''Mouchette''La semplice descrizione diegetica dei due film indurrebbe ad inserirli in un modello che, svincolato dal naturalismo zoliano portato sullo schermo da Renoir o dal realismo poetico di Carnè/Prévert, dovrebbe approdare automaticamente al neorealismo italiano. Ma, seppure l’itinerario sacrificale di Balthazar possa essere letto – cancellando così ogni significazione trascendente – come una semplice funzione narrativa-drammaturgica analoga alla bicicletta del film di De Sica (definita da Buñuel un vero e proprio personaggio), l’unico vero rapporto con il neorealismo è rintracciabile nella pellicola più estrema, ancorché conclusiva, del movimento, Umberto D. (1952). Il film, scritto da Zavattini, è infatti già un’epopea dell’insignificanza narrativa e del semplice procedere di un esistenza precaria tra diverse “stazioni” messe in scena nel loro estremo realismo quotidiano.

È però facile sottolineare che in Umberto D. la tragedia è tutta interna al mondo sociale, mentre in Bresson, per sua stessa ammissione, appartiene a quello spirituale. Ma, per quel che riguarda la forma filmica, il procedimento registico del maestro francese scarnifica  non solo la narrazione ma anche la costruzione scenica. In Au Hasard Balthazar, dopo le prime inquadrature dedicate alla consegna dell’asino a Jacques, le sequenze successive, in paese, accennano visivamente alla famiglia del ragazzo, benestante, i cui genitori passano l’estate in quella località, in cui si trovano le loro ampie proprietà, per far star meglio l’altra figlia, poliomielitica. Inquadrature e sequenze sono brevi ma sufficientemente distese tanto da inserire l’amore tra Jacques e Maria come un segno dell’innocenza, o di una purezza che richiama l’Emilio di Rousseau.

''Mouchette''Immediatamente dopo, con la partenza di Jacques e della sua famiglia, avrà inizio l’autunno della vita, per Maria, la sua famiglia e soprattutto per Balthazar. Maria sarà quasi schiavizzata da una banda di teppisti – una notazione da “gioventù bruciata” europea, non rara nel cinema francese a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – dominata dal bello e cattivo Gérard, altra figura non semplicemente “funzionale” e sostanzialmente opposta alla purezza assoluta di Balthazar. Il padre di Maria, altresì, finirà sotto processo per colpe che non ha commesso e perderà tutti i suoi averi e soprattutto la stima dei compaesani. Ma soprattutto Balthazar uscirà dalle cure materne per diventare una bestia da trasporto. Tutte queste notazioni, che costituiscono l’essenza diegetica del film, sono costruite attraverso ellissi e inquadrature totalmente metonimiche: un frammento di dialogo, una frase, bastano alla significazione che accede ad un universo spettatoriale quasi per empatia cerebrale: conosciamo già quei modelli esistenziali, comportamentali, comunicativi, caratteriali. Ci basta una specularità frammentaria per ritrovarci idealmente in quella situazione.

''Mouchette''Anche in Mouchette il modello di costruzione filmica non cambia. Si accentua la sineddoche nelle inquadrature (i piedi, gli oggetti, le ombre, sostituiscono le figure intere o le scene totali, anticipando un successivo film di Bresson, Lancillotto e Ginevra, epopea cavalleresca che nasconde volutamente lo spettacolo epico), presente in misura minore nel film precedente.
Considerato che Mouchette è una contemplazione oggettiva di una miseria culturale e sociale senza alcuna redenzione, in Au hasard Balthazar le sottolineature di stile e di forma amplificano sia il legame con il realismo ontologico, sia la simbologia trascendente. Anche per l’asino, la fine dell’infanzia è sofferenza e Bresson la mostra, attraverso inquadrature istantanee, come un susseguirsi di fatiche e di frustate, per poi visualizzare l’accettazione del calvario e del sacrificio. Sicché, pian piano, sembra che anche gli accadimenti siano filtrati dallo sguardo dell’unico innocente e che persino le belve del circo – in quella geniale artificialità del montaggio che tocca le nostre reazione emotive – osservino quella sacralità incarnatasi in un animale.

E ancora, sia Mouchette che Au hasard Balthazar sono commentati musicalmente da poche e significative note che rimandano o direttamente al sacro (Monteverdi) o, più distesamente, in tutti i momenti topici della sofferenza dell’animale, dall’andante della sonata per pianoforte n. 20 di Franz Schubert: un brano emblematico, anche in ambito filmico, dell’associazione simbolica tra musica e solitudine esistenziale, legata anche al fatto che fu una delle ultime composizioni del musicista viennese, morto a soli 31 anni. Compare infatti in due celebri titoli, di Bergman (Vanità e affanni) e di Ceylan (Il regno d’inverno) e risuona in un brevissimo cortometraggio dei  fratelli Dardenne, Dans l’obscurité, in cui si cita esplicitamente il finale di Au hasard Balthazar, collegando il destino dell’asino a quello di un adolescente – una Mouchette al maschile – che cerca di rubare un portafogli nel buio di una sala cinematografica.

''Mouchette''Ed ora si può tornare alla questione della trascendenza, estetica e religiosa, del regista. Nato ai primi del secolo (1901, regione del Massiccio centrale, luogo montano non troppo diverso dagli scenari dei due film sopra descritti), scomparso nel 1999, Bresson arriva tardi al cinematografo professionale, dopo aver studiato filosofia e avere praticato pittura e fotografia  esercitandosi in quelle tecniche che già sono state avvicinate, negli anni delle avanguardie, dalle teorie benjaminiane della riproducibilità novecentesca dell’arte.  Il futuro regista realizzò il suo primo film nel 1934: Les affaires publiques, opera legata ancora al surrealismo. Nel 1940, si trovò, tardivamente, arruolato per combattere contro gli invasori tedeschi. Fu catturato e finì per un anno in un carcere, in Germania. L’esperienza  divenne lo spunto per uno dei suoi film più noti, Un condannato a morte è fuggito (1943), ispirato comunque ad un’altra autobiografia bellica (Devigne).

Esordì  nel 1943 con La conversa di Belfort, sceneggiato dal drammaturgo Giraudoux e ispirato a un testo di un padre domenicano. Il secondo titolo, Perfidia o Les dames de Bois de Boulogne (1945) fu scritto da Jean Cocteau ma ispirato ad un testo di Diderot; e ancora, il film successivo, suo primo successo, Diario di un curato di campagna (1951) attinge al celebre racconto del cattolico Bernanos, così come Mouchette, mentre altre connessioni letterarie importanti, proprio a partire dal dittico deella seconda metà degli anni Sessanta, rimandano invece a Dostoevskji e persino a Tolstoj: Pickpocket (1959), Così bella così dolce (1969), Il diavolo probabilmente (1977), L’argent (1983).

 Alain ResnaisQuesta scarna filmografia mostra un primo paradosso di quella “trascendenza” estetica bressoniana. Nonostante la presenza, diretta e indiretta, di drammaturghi e scrittori nelle trame e nelle scritture iniziali dei suoi film, Bresson rinnega totalmente i legami formali con le vecchi arti narrative e teatrali, incapaci di misurarsi con la purezza dello sguardo fotogenico del cinematografo. Si tratta, com’è evidente, di una teorizzazione che rimanda alle prime diaspore dell’avanguardia filmica francese ma che si congiunge con molte pratiche dei registi – uno in particolare, Alain Resnais – che ruotano attorno alla “nouvelle vague”, senza però farne parte, come appunto accadrà per Bresson, omaggiato e studiato dallo stesso Godard.
La trascendenza estetica di Bresson va dunque oltre gli studi di Schrader: è  la possibilità di mettere a nudo, attraverso frammenti puramente audio visuali, un modo di essere facilmente riconoscibile come appartenente all’universo esistenziale e, contemporaneamente, al mondo della letteratura, sebbene disancorato formalmente e stilisticamente da questa.

''Au hazard Balthazar''Si può giocare ai riconoscimenti dostoeskjiani – uno scrittore poco trasporto ma molto saccheggiato dal cinematografo – nel “demone” Gerard, in Maria e Mouchette, riferibile ad un lunga serie di donne “traviate” o misere, e persino nella trasfigurazione “cristica” dell’Idiota, l’asino Balthazar. Infine, così come la chiave filosofica dei principali romanzi del russo sta nella frase che annuncia il nichilismo assoluto, “Senza Dio tutto è possibile”, la trasposizione di quel concetto da parte di Bresson è un semplice ribaltamento terminologico: tutto è Grazia e senza la Grazia di Dio, nulla di buono è possibile.  Questo concetto  ci conduce alle teorie gianseniste, ovvero al vescovo e teologo olandese Jansen, vissuto in Francia con il nome latino di Giansenio, a cavallo tra Cinquecento e Seicento.

Giansenio cercò una mediazione tra il rigore dei protestanti e dei calvinisti a proposito della predestinazione – cioè dell’assoluta e misteriosa volontà divina a proposito della salvezza dell’uomo – e la teoria cattolica del libero arbitrio, rafforzata dai gesuiti e dal Concilio di Trento: l’uomo accede alla salvezza per propria volontà e comportamento. Giusto per capire l’influenza morale che tale movimento, bollato come eretico dalla Chiesa cattolica, ebbe anche in Italia, la Provvidenza manzoniana, che assiste Renzo e Lucia e “folgora” Don Rodrigo, è una derivazione del giansenismo.

''Mouchette''Ma per passare dall’aspirazione celeste alla vita terrena, con o senza Grazia, lo sguardo oggettivo e puro, nella sua scarnificazione di ogni effetto drammaturgico che attraversa i due film di Bresson, è quasi un grido di dolore che sale al cielo, assieme al raglio e agli ultimi flebili lamenti di Balthazar, o ai rotolamenti rituali di Mouchette. Come dire che la mancanza di Grazia è anche una sorta di abbandono divino, di punizione per l’uomo o semplicemente la constatazione della sua “bestialità”, più forte di quella dell’asino. Riportato al cinema della contemporaneità, che sembra aver fatto dell’uomo, non ingiustamente, lo specchio di ogni male e l’artefice di ogni guerra, civile o militare, ecco che i maggiori e mai confessi allievi di Bresson, Jean Luc e Pierre Dardenne, ci offrono un campionario assoluto di un mondo “sgraziato”, anche quando ci si appella a Dio.

Sgraziato ma buddisticamente compassionevole: il padre che ha perso il proprio figlio durante una rapina, prova a redimere il giovane Raskolnikov (Il figlio), come fossimo in Delitto e castigo; Rosetta, “demone” inconsapevole, fa del male, per autodifesa, a un ragazzo che pure potrebbe amare; un altro padre (Il ragazzo con la bicicletta) non vuole avere alcun rapporto con il figlio adolescente; ed infine Lorna (Il matrimonio di Lorna) è una Mouchette sopravvissuta ai disastri della vita che, pur di non fare del male, si rifugia in un bosco. Bresson, artista solitario, molto studiato e poco visto, ha lasciato fortunatamente degli eredi.

4 maggio 2016