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Percorso

Quella volta di Kiarostami a Cagliari

''Sotto gli ulivi''

Memorie d'Oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato: Dov’è la casa del mio amico (1989), Close-Up (1990), E la vita continua (1992), Sotto gli ulivi (1994), Il vento ci porterà via (1997) di Abbas Kiarostami, Pane e fiore (1996) di Mohsen Makhmalbaf

Nell’autunno del 2001, al teatro Auditorium di piazza Dettori, a Cagliari, al termine della proiezione di Sotto gli ulivi, uno dei numerosi spettatori non seppe resistere alla possibilità di fare una domanda particolare a Abbas Kiarostami, ospite di una retrospettiva a lui dedicata, organizzata dall’associazione Fairuz.

La domanda, che il regista iraniano accolse con un sorriso, era la seguente: «Ma i due protagonisti del film, alla fine, si sposeranno?»
Poiché coordinavo il dibattito ho avuto la tentazione di rispondere io stesso, visto che l’autore parlava spesso di quella rituale domanda che gli veniva rivolta e della sua inevitabile risposta: «Non posso sapere se i due ragazzi finiranno per sposarsi; quando finalmente hanno iniziato a parlarsi, io ero troppo lontano per sentire i loro dialoghi.»
L’intervento del regista iraniano fu accolto con qualche risatina. Ma, al di là della simpatica battuta, quella frase rivelava il segreto di uno dei finali più poetici della storia del cinema, e, in generale, una delle sequenze più complesse e più cariche di significazione.

''Sotto gli ulivi''Sotto gli ulivi è infatti un film su un film da fare, in cui gli attori principali, Hossein e Tahreh, adolescenti, duettano e litigano per tutte le riprese, o almeno per quelle  che ci vengono mostrate. Lui, fuori dal set, l’ha chiesta in sposa, ricevendone un rifiuto; lei, di fronte alle nuove insistenze, si chiude in mutismo offensivo. Alla fine, mentre la troupe si prepara a ripartire, Hossein non intende abbandonare il suo corteggiamento. L’operatore segue sia lui che lei su una collina, in un montaggio alternato, che segnala la drastica separazione tra i personaggi, almeno fuori dal set. La macchina da presa si tiene a rispettosa distanza dai protagonisti, ripresi in totale, mentre camminano a breve distanza l’uno dall’altra. Poi, sulla cima, lui si ferma e lei va avanti fino al boschetto di ulivi, dal quale esce ormai ridotta ad un puntino bianco, grazie alla distanza dalla macchina da presa che s’identifica virtualmente nello sguardo del ragazzo. La macchina da presa resterà immobile anche quando dal fondo dall’inquadratura emergerà il corteggiatore che decide di seguirla, correndo a perdifiato giù per la collina e poi attraverso il boschetto di ulivi; pian piano, anche la sua figura si riduce ad un ennesimo puntino che si affianca a Tarheh, ovvero al precedente puntino. Nessun dialogo turba questo misterioso ricongiungimento ma l’apertura di un concerto per oboe di Cimarosa, lento e struggente, accompagna la lunga inquadratura. Poi, improvvisamente, il corteggiatore torna indietro di corsa: il concerto di Cimarosa attacca  l’allegretto; il puntino bianco s’ingrandisce nel verde dei campi e degli alberi. Il nero dei titoli di coda interrompe la sua corsa.

Per quanto accurata, nessuna descrizione potrà mai dar conto della bellezza e della poesia di quella lunga sequenza  che, nel finale bloccato sull’inquadratura di Hossein, lascia irrisolto il mistero dei due possibili sposi. Come in un quadro, o in una fotografia – è Kiarostami è stato pittore e fotografo, oltre che poeta, scrittore e regista – il solo riferimento efficace è la visione. Sembra una banalità sottolinearlo, ma non sempre ciò accade al cinema: i dialoghi si sovrappongono spesso alla stessa visività dell’impianto drammaturgico, ed è facile riassumere un intreccio filmico come fossimo in un racconto o romanzo. Ma nella sequenza descritta sommariamente, questa visione, paradossalmente, s’ammanta di una discrezione quasi religiosa che fa pensare a Bresson.
Il regista stesso, in un’intervista che precede il dialogo con lo spettatore cagliaritano, sottolinea che “bisogna salire sulla scala e guardare  lontano”; precisando poi che quel pudico sguardo aereo di Sotto gli ulivi reinserisce i personaggi nella natura, li rende parti di essa. Aggiungerei che quella ripresa  separa i giovani protagonisti dalla finzione cinematografica attraverso una distanza di sicurezza che ci consente di visualizzarli all’interno del loro mondo quotidiano.

''Dove è la casa del mio amico''Ecco il primo paradosso del cinema di Kiarostami: il massimo di artificialità del cinematografo – il film nel film, la costruzione dettagliata delle inquadrature nel finale – serve non ad abbellire il reale ma a rivelarlo nella sua verità indiscutibile: l’incertezza e il mistero del comportamento umano.
Dunque, per ricominciare da capo, Sotto gli ulivi è l’ultima pellicola di una trilogia ambientata in una zona remota dell’Iran, abitata da diverse popolazioni, tra le quali, anche quella curda e, in parte afgana. Il luogo è lo stesso in cui era stato girato e ambientato il primo successo internazionale del regista (Pardo d’argento a Locarno, nel 1989): Dov’è la casa del mio amico? Protagonista è un bambino, Ahmed, che, avendo preso per sbaglio il quaderno di un compagno, passa la sera a cercare “la casa dell’amico”, già minacciato di punizioni dal maestro per precedenti negligenze. Quella casa sta in un villaggio relativamente vicino, anche considerando che l’unico mezzo di locomozione sono i piedi, ma, una volta arrivato, nessuno gli sa indicare con esattezza dove sia la casa del compagno di scuola, sicché alla fine di un lungo e tortuoso percorso tra sentieri di montagna e stradine di paese, ad Ahmed non resterà che fare lui stesso i compiti dell’amico, oltre ai propri.
Dove sta l’interesse del film? Non nella vicenda in se, sia pure costruita con una “suspense” ed una sensibilità encomiabili, ma proprio in quell’esplorazione che noi spettatori compiamo assieme al bambino e  che ci permette di vedere modi di vita, costumi, tradizioni, atteggiamenti mentali, contrasti generazionali di un pezzo di Iran di cui raramente si ha occasione di parlarne o di scriverne, anche in saggi specialistici. Il realismo naturale, l’etnografia impropria e para documentaria di un film, pur estremamente costruito, prendono il posto di ogni pertinente osservazione sui linguaggi specifici. Che però esistono e non sono neanche troppo lontani da noi. Il naturale etnocentrismo europeo identifica nel quaderno di Mohamed, l’amico di Ahmed, la bicicletta di De Sica e Zavattini.

''E la vita continua''Attraverso la ricerca di questo strumento di lavoro, elevato ad elemento drammaturgico – come scriveva Buñuel – i padri fondatori del neorealismo esploravano la Roma del dopoguerra; con il quaderno Kiarostami esplora la vita quotidiana di alcuni paesini dell’Iran nascosti tra montagne quasi inaccessibili.
Nel 1990 il regista ritorna sui luoghi delle riprese e si avvale, per la prima volta di un doppio, un regista-viaggiatore che, accompagnato dal figlio, decide di recarsi in quelle montagne e in quei villaggi devastati da un terribile sisma che ha provocato migliaia di morti. Non ha una macchina da presa – o almeno noi non vediamo mai l’atto del filmare – ma solo una vecchia auto con la quale deve fare continue deviazioni per arrivare alla meta e forse non ci arriva neanche, o almeno il film non lo racconta espressamente. Il titolo è E la vita continua, uscito nelle sale nel 1992. Potrebbe essere definito   un “road movie”, ma contrariamente a ciò che accade in tanto cinema contemporaneo afasico e puramente evocativo, vive non di assenze e di nostalgie, ma piuttosto di presenze: personaggi e paesaggi, luoghi e volti, si sovrappongono alla finzione del film precedente. Il regista vuole ritrovare non già gli attori, ma gli esseri umani che ha conosciuto durante la lavorazione del film. L’evento tragico, il terremoto, è messo tra parentesi: si colgono pian piano le devastazioni, la gente che vaga per le strade e per i campi, i lutti immani, ma appunto la vita continua, anche in quella straordinaria sequenza del pre-finale, in cui il figlio del regista chiede di rimanere tra gli attendati che hanno sistemato un’antenna televisiva nella collina per poter vedere una partita di calcio del mondiali in corso in Italia.

Il regista – si può ricordare che Kiarostami aveva già messo in scena molti anni prima nel suo primo lungometraggio, Il viaggiatore (1987), il mito del calcio – si chiede se sia giusta questa rimozione della tragedia e riceve nuovamente una risposta a metà strada tra il fatalismo e l’accettazione placida – verrebbe da dire tipicamente orientale – della realtà: la vita continua.
La costruzione di E la vita continua oscilla tra le due sicurezze storiche delle denominazioni oppositive di genere: da una parte l’esplorazione documentaria, o meglio la realtà che s’impone alla macchina da presa, dall’altra la finzione. Ma quelle apparenti certezze teoriche sono entrambi ingannevoli: la macchina da presa o l’audio sarà sempre troppo lontano per catturare la realtà, che dunque si finzionalizza; ma la finzione avrà sempre elementi di “verità” che s’impongono nella mente degli spettatori. Il cinema del reale, che in Italia comincia ad affermarsi anche grazie a opere come Sacro Gra e Fuocoammare di Rosi, dovrebbe riconoscere a Kiarostami non già una sorta di primogenitura teorica, quando un livello di raffinatezza poetica e stilistica che in passato raramente si era raggiunto.
Così, nell’ultimo film della trilogia, Sotto gli ulivi, lo stesso territorio montano, ridotto in macerie, eppure ancora vitalissimo, viene scelto da un regista, alter ego di Kiarostami, per ambientarvi una storia d’amore giovanile. La macchina da presa è dunque visibile, così come il lavoro di preparazione del regista e dei tecnici, nonché le scelte degli interpreti, la vita e il tempo libero e l’arte di arrangiarsi, in mezzo alle macerie, di tutta la troupe. Il vero soggetto è questa volta “il farsi del film” il cui soggetto è probabilmente, una delle tante storie di sopravvivenza della pellicola precedente.

''Sotto gli ulivi''Ma questa trama non è mai esplicitata, e, come ho già scritto, ciò che vediamo è, in effetti la messa in scena di un’unica sequenza di vita familiare tra due giovani. Ma anche questa messa in scena viene sovrastata dall’esistenza reale dei due attori e soprattutto da quella di Hossein. Il ragazzo che interpreta il novello sposo è davvero innamorato della giovane attrice, Tareh. Ha chiesto la sua mano ed è stato rifiutato – perché povero e senza casa – sia dai genitori della ragazza, poi deceduti sotto le macerie, sia dalla nonna, unica parente rimasta in vita. E, proprio pensando alla tragedia che si è abbattuta sulla regione, l’innamorato, all’ennesimo diniego, non sa rispondere altro che una cosa ovvia, ma saggissima: ormai siamo tutti senza casa. Durante la lavorazione, i suoi dialoghi con Tareh diventano pian piano dichiarazioni d’amore, prima timide e poi continuamente insistenti, addirittura monologanti, fino al misterioso finale già descritto. Anche qui, insomma, la realtà si prende la rivincita sul cinema, forza la finzione, la costringe a circoscrivere il suo ruolo, ad abolire quella sorta di sintesi totalizzante dell’esperienza umana che, da sempre, è stato uno degli ingredienti di successo del cinema.
Sotto gli ulivi mostra altresì, come fosse una programmatica rivelazione di aspetti culturali non sempre visibili, una sorta di intromissione degli attori/personaggi nella costruzione filmica: la giovane attrice vorrebbe vestirsi con un vestito alla moda (un altro segno dello iato tra realtà e finzione); il suo partner avverte il regista che il dialogo è sbagliato: le donne di quel luogo non chiamano il marito signore ma semplicemente per nome; in un altro gruppo etnico la troupe intravvede maggiore libertà delle donne e giustamente s’incuriosisce, vorrebbe probabilmente inserire quel pezzo di realtà nella finzione (e difatti, agli occhi dello spettatore, quella sequenza fa parte dei messaggi del film). Ma soprattutto il prologo è di una efficacia esemplare.

Mostra infatti un gruppo di ragazze e adolescenti in chador, che attendono le selezioni per la parte della protagonista. Vitalissime, curiose, persino contestative nei confronti della produzione che, secondo loro, non fa arrivare poi i film in televisione. Il chador – che per noi occidentali, non a torto, è spesso un segno di separazione del mondo femminile islamico dall’eguaglianza e dalla modernità – vi appare come un dato naturale, efficacissimo dal punto di vista scenografico e coreografico, certo non immediatamente legato alla condizione di inferiorità sociale della donna. Anche perché proprio il resto del film mostra appunto una sfaccettatura che ci fa dimenticare – come del resto altri titoli di Kiarostami, ad esempio Oro Rosso (2003), scritto dal regista e poi diretto dall’amico Panhai – quel segno di imposizione, accettato o meno dalle singole donne.

''Close up''Il ricordo delle giornate cagliaritane del regista mi ha fatto dimenticare che, in mezzo alla trilogia sull’Iran estremo, tragico e periferico – nonché vitalissimo, c’è anche un’altra pellicola, Close Up, datata 1990 e programmata anche in Italia, almeno nei festival e nei circuiti d’essai.
In apparenza è un film diversissimo, anche se è dichiaratamente e visibilmente un film sul cinema: sul cinema come sogno, come passione monomaniaca, trasgressiva e pericolosa, allo stesso modo che il calcio per il piccolo protagonista di Il viaggiatore. Inoltre, a segnare un’altra profonda differenza con la trilogia, ha un’ambientazione urbana, a Teheran, sterminata metropoli che si pone in diretto antagonismo con i paesaggi umani e geografici delle sue precedenti opere e, per certi versi, anche di quelle successive. E ancora, è un film borghese: case di benestanti in quartieri simili a quelli visibili in ogni metropoli occidentale; buone maniere familiari; strade rese caotiche dalle auto; mezzi pubblici affollatissimi. Anche questi sono dei dati importanti per quella ricerca di squarci di realtà che ci aspettiamo dal cinema di paesi lontani. E sono dati che inducono non all’omologazione, ma piuttosto alla compilazione di un diagramma delle diversità e delle contraddizioni, poi sviluppate anche in senso politico-sociale in Oro rosso, non a caso, censurato e invisibile in Iran. E poi c’è la storia, non più un semplice veicolo di esplorazione, ma già caratteristica, pregnante, originale proprio perché investe un immaginario collettivo assolutamente sconosciuto. Un signore, dopo aver conosciuto una ragazza in tram, si spaccia per il regista Makhmalbaff e si dichiara interessato a scritturarla per il suo prossimo film. Segue l’incontro con la famiglia della ragazza, anch’essa interessata al cinema. Ma l’inganno viene scoperto e l’uomo arrestato.  

''Close up''Nella costruzione drammaturgica del film convergono diverse forme, tra le quali sembra prevalere inizialmente, una sorta di impossibile realismo integrale: Kiarostami si reca in carcere a trovare il vero protagonista del raggiro, Alì, e chiede il suo permesso per poter ricostruire la  storia. Costui dà il suo assenso, invitandolo a far trapelare, attraverso il cinema, la sua sofferenza di uomo solo, “cinephile” accanito, sognatore e senza lavoro. Poi c’è un’iniziale ricostruzione da film giornalistico-poliziesco: la notizia è ghiotta, da prima pagina dei giornali. L’arresto di Alì è seguito dalla stampa. Quindi c’è il processo, un pezzo di autentico “cinema-verità” con le telecamere che inquadrano sia il protagonista – che vive in diretta una sorta di psicodramma – che lo scenario generale. Ed infine uno scioglimento pieno di autentico “pathos”: all’uscita dal carcere Alì trova ad attenderlo sia i raggirati che lo hanno perdonato, sia il vero Makhmalbaff, che sta a colloquio con lui. Colloquio certo interessante, ma che Kiarostami ci nega: fingendo un’imperfezione del sonoro, ci fa sentire solo frammenti del dialogo.
Se Dov’è la casa del mio amico? si affidava alla prima grande rivoluzione filmica post bellica (il neorealismo), Close-up e Sotto gli ulivi sono delle aperte e consapevoli filiazioni dei linguaggi delle “vagues” europee degli anni Sessanta: delle storie destrutturate, per citare buona parte della  filmografia di Resnais o delle provocazioni di Robbe-Grillet. Eppure, nel film di Kiarostami, il disvelamento dell’artificio (alla Godard, per intenderci, o anche alla Wenders), finisce per raccontarci paradossalmente un pezzo di una realtà antropologica e storica. Sicché, questa destrutturazione è in realtà un segno concreto di quella ricomposizione tra i linguaggi naturali della realtà – uso volentieri una definizione di Pasolini – e la finzione. Di nuovo, infatti, si parla dell’Iran, più che del cinema che pure sembra il vero soggetto di Close-Up e poi di Sotto gli ulivi.

''Sotto gli ulivi''Qualche anno dopo, nel 1996, un altro regista iraniano, più giovane di Kiarostami, proprio il Makhmalbalf di cui si parla in Close-Up, metterà in scena un’altra straordinaria allegoria sui confini tra realtà e finzione: Pane e fiore. Protagonista è un regista che vuole ricostruire sullo schermo il suo passato di terrorista e che sceglie come protagonista il poliziotto contro il quale si scagliò vent’anni prima, all’epoca delle battaglie contro lo scià. Ma pirandellianamente  la realtà, il passato sfugge di mano, non è più possibile ricostruirlo fedelmente. Come avrebbero scritto Proust o Pinter, “il passato è un paese straniero dove tutto è diverso”.
Non so dire se ci sia stata filiazione d’autore tra il padre – o fratello maggiore – Kiarostami e Makhmalbaf, regista che in altri film era stato profondamente realista, persino crudele nel suo attaccamento all’attualità. Posso anche pensare che questa riflessione sulle coincidenze e sulle divaricazioni tra realtà e rappresentazione, non siano né pirandelliane, né proustiane o pinteriane, ma piuttosto iraniane, ma non ho alcuna preparazione in materia.
Però ho già indicato, nelle righe precedenti, molti indizi  relativi all’esplicita coscienza di una sorta di invalicabilità del confine tra esperienza umana e riproposizione finzionale, sia essa filmica, giornalista, televisiva, fotografica. Questa coscienza raggiunge il suo acme in un film poco visto e, in apparenza, piuttosto criptico o perlomeno legato quasi ad una antiteorizzazione dell’antropologia visuale: Il vento ci porterà via (1999), l’opera che, in qualche modo, conclude, dopo la Palma d’oro a Il sapore della ciliegia (1997), il suo percorso di affabulazione e di novellizzazione del proprio paese. Nel 2002, infatti, Kiarostami  realizzerà un bellissimo documentario, Dieci, nel quale le donne iraniane – in maggioranza appartenenti alla classe media – si raccontano a bordo delle loro auto in taxi: un ennesimo diagramma sociologico che, di nuovo, anticipa Oro rosso. Poi il regista sarà in Africa (ABC Africa), in Italia (Ticket), in Francia (Copia conforme), e soprattutto in Giappone (Qualcuno da amare), per un’opera intima che, dopo il suo documentario su Ozu, sembra voler “attualizzare” e rendere disponibile universalmente il linguaggio intimo ma anche le tematiche familiari e affettive del grande cineasta nipponico, da lui posto in cima ai grandi maestri di tutti i tempi.

''Il vento ci porterà via''Tornando ai film che chiudono questa sorta di diagramma dell’Iran contemporaneo, sinteticamente si potrebbe dire che Il sapore della ciliegia rinnova gli spiazzamenti della sua poetica. Racconta infatti di un aspirante suicida che, in una periferia metropolitana somigliante ad un girone infernale dantesco, chiede collaborazione a tre diversi interlocutori: i primi due scappano spaventati, il terzo gli impartisce una lezione di vita. Si potrebbe dire che il contrasto continuo tra vita e morte, ovvero tra vitalità e devastazioni fatali – argomento chiave dei due film precedenti – ritorna ad una purezza filosofica, sottolineata dallo stesso regista con una citazione paraddosale di Cioran: “Se non ci fosse l’opportunità nella vita di potersi suicidare, mi sarei ucciso tanto tempo fa”.
I materiali con i quali è composto il film sono però i soliti: un viaggiatore, un auto che cammina su strade tortuose, alcuni interlocutori che, al di là dell’occasione drammaturgica, si portano dietro le proprie storie, implicite nei primi due personaggi, assolutamente esplicite nel terzo. Infine, di nuovo il cinema, nel finale in cui la troupe e le comparse che hanno fatto da coro alla narrazione monocorde, trovano un momento di pace e di allegria cameratesca: di nuovo la vita che sconfigge la morte. Forse un po’ manierato, certo non all’altezza dei suoi capolavori, Il sapore della ciliegia fa da prologo ad uno dei suoi film più complessi e più sfaccettati: Il vento ci porterà via.

Nuovamente il film s’annuncia attraverso la presenza di un pro filmico abbastanza simile agli altri suoi titoli: un viaggiatore, o meglio diversi viaggiatori, un auto e altre strade tortuose, lande poverissime, paesaggi incantevoli, interlocutori – tra cui l’immancabile bambino – che raccontano le proprie storie. Non c’è alcuna macchina da presa, almeno esplicitamente, ma dopo poco più di mezz'ora di frammenti per lo più criptici, che in realtà agevolano la concentrazione dello spettatore verso tutto ciò che apparentemente è fuori dal racconto, sembra evidente che il misterioso viaggiatore e i suoi amici si sono spostati a settecento chilometri da Teheran per filmare o fotografare una misteriosa cerimonia post mortuaria, un lamento funebre caratteristico di quelle zone. Ma l’aspirante moritura, una donna ultracentenaria, non si decide a lasciare questo mondo. Nelle tre settimane di ozio il protagonista fa a tempo a familiarizzare con l’ambiente, cioè a scoprire tanti “fuori campo” che nulla hanno che fare con l’oggetto del proprio lavoro: principalmente, e nuovamente, quel rapporto inseparabile tra vita e morte.

''Il vento ci porterà via''Il vento ci porterà via è anche il primo titolo nel quale la “crudeltà” naturale del cinema – cioè la violenza psicologica nei confronti del giovane attore/muratore di Sotto gli ulivi o il psicodramma di Close-Up – s’identifica con una figura (di produttore, di regista, di fotografo) che non ha, soprattutto inizialmente, la sensibilità e la delicatezza di precedenti personaggi costruiti da Kiarostami. E non a caso. Il film infatti rende esplicito un altro dei segreti del suo cinema: il regista come pescatore, come sensore di una realtà che non è contenibile dentro lo schermo e che dunque pone a chi intende pescarne anche dei piccoli frammenti, delle responsabilità morali. Non solo quelle tecniche, come avrebbe detto un Antonioni, che pure sono presenti anche in Kiarostami, ma quelle progettuali e, diciamo pure, sensitive.
Recensendo il film per La Nuova Sardegna, scrissi che un antropologo come Michelangelo Pira avrebbe apprezzato molto il film, visto che mette in scena il diritto/dovere delle comunità osservate (dagli studiosi, dai cineasti, dai giornalisti) di osservare a loro volta gli osservanti, di avere delle loro opinioni ugualmente valide e accettabili e talvolta anche di essere dei maestri nei confronti degli intellettuali, studiosi o registi che siano. Questa teorizzazione (ma in Kiarostami è soprattutto una pratica) smonta uno dei principi – utopici, tengo a sottolinearlo – della ricerca etnografica: la neutralità del “cercatore”, occhio cinematografico o umano che sia.
Kiarostami mostra infatti  l’obbligatoria interazione tra i due mondi e gli arricchimenti reciproci; sicché proprio Il vento ci porterà via è un’ennesima ricapitolazione, ulteriormente espansa, della sua poetica in bilico tra la necessità di far posto al mondo reale e l’obbligo morale di indicare funzioni e limiti delle affabulazioni. Non a caso, la camminata sui tetti del villaggio da parte del protagonista – sempre girata con la continuità del piano sequenza – si trasforma in un’esplorazione non più dell’ambiente naturale, ma dei modi di vita della comunità, delle provviste stese sulle terrazze, delle porte, delle finestre, delle scale e di ogni  altro anfratto.

''Close up''In generale è difficile trovare in una inquadratura dei suoi film una separazione netta tra ambiente e personaggi: persino nelle sequenze dove questi stanno nelle auto, lo specchietto retrovisore assume il ruolo unificatore ma anche mediatore: una metafora del vedere attraverso altri occhi, tecnologici.
Il paesaggio, invece, può essere semplicemente inquadrato nella sua bellezza e nel suo splendore fotografico, senza altre mediazioni: lo si gusta a colori (difficile pensare, per Kiarostami, alla battuta di Wenders: «la realtà è a colori, ma il bianco e nero è più realistico») perché il regista fa di tutto per restituirci il cromatismo pittorico di campi di grano, boschetti, campi d'erba, colline brulle, maestose querce che si stagliano sulla cima, valli alberate. Può essere un dato consolatorio – lo dice esplicitamente il medico di Il vento ci porterà via – ma certo consapevolmente vitalistico: il paesaggio può non aver bisogno dell’uomo, si scaglia contro l’uomo (il terremoto), ma l’uomo senza il suo paesaggio non esiste. Totali immersi nel cromatismo, con o senza i puntini che rappresentano gli esseri umani, sono certo un dato di stile, ma anche una mappa del mondo nella quale il regista cerca di racchiudere più realtà possibile, sapendo pure che è impossibile, che il mondo reale non entrerà mai completamente nello schermo. Pare di leggere in questa allegoria stilistica, una riflessione uguale e contraria a quella di un Antonioni (Blow-Up). Lì il fotografo ingrandiva sempre di più il dettaglio di un’immagine, cercando di scoprirvi la verità e sempre più gli sfuggiva non solo la verità ma proprio la riconoscibilità del reale. Qui l’allargamento smisurato del quadro cerca di raggiungere la verità attraverso la totalità, ma è impresa vana. Lo stesso regista, alla fine dei suoi film ci lascia con il mistero di finali nei quali il campo lunghissimo rende esplicita la rinuncia ad ogni risoluzione consolatoria.

''Il vento ci porterà via''Contrapposto ad ogni tipo di richiamo romanzesco e letterario, il cinema di Kiarostami è anche coltissimo, anche in relazione alla presunta università della nostra cultura. Lo si constata non solo in quel continuo interrogativo filosofico che culminerà in Il sapore della ciliegia, ma soprattutto nella commistione  tra fonti erudite e ambienti la cui cultura è lotta per la vita. Immagino che non siano casuali i riferimenti all’Amleto di Il vento ci porterà via. In una prima sequenza, il protagonista s’imbatte, nel cimitero sulla collina, in un operaio che scava una fossa profonda per sistemarci i cavi del telefono, ed appunto ci si ritrova, quasi magicamente, tra le ossa del buffone Yorik della tragedia di Shakespeare. Quel discorso sulla morte come prospettiva lontana, puramente poetica, ritorna reale, quando l'operaio rischia di morire soffocato nella medesima buca, a causa di una frana. E più avanti, ecco di nuovo un frammento shakespiriano (“il paese dal quale non è mai tornato nessuno”) in bocca all’anziano medico. Nello stesso film, una poesia – che dà il titolo alla pellicola – viene declamata dal protagonista in un antro buio, nel quale una ragazza munge il latte: e il contrasto è evidente tra la luce della cultura e il buio di una condizione che forse non potrà essere affatto illuminata dalla cultura. In entrambi  i casi, ecco il confronto, la messa in discussione della nostra formazione culturale. Strutturalmente, questi confronti tra culture (positivi o negativi) sono appunto degli ennesimi indugi, delle digressioni che trovano posto solo in una ricostruzione a posteriori – puramente mentale – del percorso del film.

''E la vita continua''Le mappe visive non ci danno coordinate precise, ma la soluzione ai misteri e agli spiazzamenti del suo cinema non può essere trovata neanche negli sviluppi narrativi, ovvero in quella ricostruzione artificiale del mondo che è stato il cinema romanzesco, in quella mappa dove tutti gli incastri coincidono e dove non c’è immagine che non sia funzionale alla progressione del racconto. Ma mai come nei film del regista iraniano – che ha teorizzato e praticato la scrittura cinematografica come un testo pieno di buchi che solo l'immaginazione dello spettatore può riempire – proprio l’indugio, il fermare il tempo del viaggio, della scoperta, hanno assunto valore di forma e di poetica. Non c'è ragione per non sospettare che tutte le deviazioni di E la vita continua, non siano solo il ricalco delle difficoltà del post terremoto, ma proprio il diagramma dell’imprevisto, del non contemplato (anche in sceneggiatura), nonché le ripetizioni degli attori in Sotto gli ulivi (sfiancanti, lo ammetto, e credo che Kiarostami conosca l’effetto sugli spettatori e voglia in qualche modo metterli alla prova), così come le corse in automobile del protagonista di Il vento ci porterà via, obbediscono a questa scelta formale: il cinema non è – come affermava un celebre produttore hollywoodiano – la vita senza le parti noiose, ma piuttosto la vita osservata anche nei dettagli meno appariscenti, come teorizzava Zavattini. E nello stesso film, tutto costruito sugli indugi, cioè sull’assenza  di una motivazione narrativa esplicita, il lungo e divertentissimo bozzetto della venditrice di te è un intermezzo quasi teatrale, un luogo scenico indipendente dagli altri accadimenti.

Si può dire, estremizzando il discorso, che il cinema di Kiarostami – se si esclude la compattezza tematica di Close-Up, derivante da un’occasione in qualche modo eclatante – vive di frammenti scenici separati. E il montaggio accentua queste soluzioni di continuità, lasciando allo spettatore il gusto di entrare nel film scena dopo scena, come osservando al microscopio un momento di vita reale, spiando della gente comune che si cimenta con la finzione. Ma poi, arrivano appunto i totali, allegoricamente presenti non solo in quei bellissimi finali ma nelle ricostruzioni mentali del film, nel mettere assieme quelle immagini.  Ed allora ecco che il microscopio della realtà si trasforma in un telescopio: ci racconta un tempo e uno spazio lontano che cerchiamo disperatamente di decifrare, quasi sempre senza riuscirci interamente.

20 luglio 2016

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