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Percorso

''Nel corso del tempo'' (1976) di Wim Wenders e ''La recita'' (1975) di Theodoros Angelopulos

''Nel corso del tempo''

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

Tra il 1975 e il 1976, in Italia, fecero capolino (il termine è da intendersi in senso quasi letterale) due film diversissimi per temi, forme, stili di regia. Soprattutto, gli spettatori ideali delle due pellicole non potevano essere collocati all’interno di ciò che rimaneva  del cinema popolare, ma piuttosto tra gli eredi di due settori minoritari e contrapposti del pubblico: da una parte l’intellettualità impegnata, dall’altra la nascente “cinefila” giovanile.

I due film sono La recita di Theodoros Angelopulos e Nel corso del tempo di Wim Wenders. Poiché il secondo titolo è stato restaurato e distribuito, anche in Sardegna, dalla Cineteca Nazionale (purtroppo nulla si sa di un eventuale restauro del film del regista greco che si può vedere in Dvd solo attraverso la distribuzione francese), ecco una buona occasione per esplorare una sorta di confine, ormai stabilizzato, che divide il cinema di un tempo (grandi numeri nelle sale, poche serate televisive dedicate al cinema, cineclub e cineforum in piena espansione, estati romane che debordarono in ogni altra città metropolitana, festival di ricerca e di retrospettive storiche come Pesaro, Sorrento, Bellaria) dalla multimedialità visiva odierna, in cui il film “da sala” è solo un componente del mercato cinematografico o, “tout court”, audiovisivo.

''La recita''Dunque, anche per sollecitare, nel nostro piccolo, la ricomparsa dei grandi film di Angelopulos, cominciamo da La recita. Girato nel 1974 – con la dittatura dei colonnelli agli sgoccioli ma ancora operante – e presentato l’anno successivo in sezioni minori a Berlino e Cannes, fu acclamato dalla critica come uno dei maggiori capolavori della storia del cinema. In Italia né comprò i diritti la distribuzione statale dell’Italnoleggio che distribuì l’intera filmografia del regista, ovvero i suoi primi tre film: Ricostruzione di un delitto (1972) e I giorni del ’36 (1973) e, appunto, La recita. La circolazione fu però limitata ai circuiti culturali.
A Cagliari – anzi a Monserrato, che allora aveva ben due sale cinematografiche – le tre pellicole furono proiettate e discusse a cura del Cineforum cagliaritano, una delle due grandi istituzioni cineclubiste cittadine (l’altra era il CUC, Centro universitario cinematografico), presto soppiantate dall’inarrivabile, geniale e surreale protagonismo di padre Egidio Guidobaldi, cinefilo gesuita, amato/odiato da un’intera generazione di spettatori orfani delle vecchie e paludate istituzioni culturali.

La recita, per citare Lino Miccichè, si poteva definire un film poetico-politico (l’unico regista a meritare, prima di Angelopulos, questa definizione, fu Ėjzenštejn). Ma, contemporaneamente, era anche un film storico. Racconta infatti, in quasi quattro ore di proiezione, la storia greca a partire dal 1936, anno d’inizio della dittatura del generale Metaxas, che durerà fino all’invasione tedesca del 1941. Il punto d’arrivo, dopo la guerra e la sconfitta dei nazisti, è invece la sanguinosa guerra civile che imperversò tra il 1945 e il 1949 e che vide contrapposti gli ex alleati che si erano opposti al dominio straniero: da una parte i comunisti, che speravano, invano, nell’aiuto di Stalin; dall’altra la destra nazionalista, ma soprattutto l’esercito inglese che intervenne drasticamente per stroncare una rivolta che avrebbe compromesso un’area d’influenza economica e politica decisiva per l’impero britannico.

''La recita''In realtà, gli eventi storici o sono uno sfondo quasi didascalico – manifesti e striscioni che annunciano eventi decisivi per il paese – o una teatralizzazione che si serve di un repertorio scenico costituito da canzoni e balli, feste e altre costruzioni sceniche. Il racconto vero e proprio riguarda invece una compagnia di attori girovaghi – il titolo del film è traducibile in maniera quasi letterale come “i commedianti” – che, attraverso due generazioni, attraversa il paese, tra montagne, paesi e città piccole e medie, portando in scena un testo/canovaccio dell’Ottocento, Golfo la pastora, un vero e proprio melodramma di cui Angelopulos mostra, per frammenti, la sua collocazione in un eterno passato che, in apparenza, contrasta con gli eventi storici. Ancora più lontano nel tempo, fino a congiungersi con uno dei miti fondanti della civiltà ellenica, è il sottotesto che appare nella vita quotidiana dei protagonisti. Difatti, la vera “recita”, attualizzata all’interno del contesto storico-politico, vede inscenarsi “dal vivo” i personaggi dell’Orestea di Eschilo: il capo comico è di fatto un novello Agamennone, padre e marito tradito e ucciso dalla moglie Clitennestra e dal suo amante, Egisto, spia dei nazisti. Il figlio, Oreste, epico eroe che torna dalla guerra, uccide i due amanti con l’aiuto della sorella Elettra, per poi fuggire andando a combattere  con la resistenza e poi con i partigiani comunisti.

Per capire il successo di “stima” del film, soprattutto nella sinistra italiana e francese (Angelopulos ha sempre dichiarato di riuscire a fare film, perché i suoi produttori sapevano che, in ogni parte del mondo, c’erano piccoli nuclei di spettatori fedeli al suo credo estetico e politico, e dunque, sommandoli, si poteva anche guadagnare qualcosa, o almeno non perdere dei soldi), occorre ricordare che il 1975, in Italia, segna l’inizio della fine dell’utopia sessantottesca e la crescente deriva del “partito armato” ma anche della disgregazione giovanile che porterà ad un nichilismo selvaggio e alla diffusione di massa delle droghe. Sul piano dell’impegno politico resistono nuclei agguerriti di intellettuali che, a partire da Goffredo Fofi, attendono una sorta di Messia del cinema che sappia coniugare il messaggio politico con un’estetica rivoluzionaria. Questo Messia fu trovato in Angelopulos che, da parte sua, avrebbe fatto a meno di portarsi appresso un fardello così pesante. La presunta estetica rivoluzionaria fu teorizzata a partire non solo e non tanto dallo sfondo storico-politico (altri film avevano raccontato storie simili, ambientate in Italia, Francia e in ogni parte del mondo), ma piuttosto nelle scelte di antispettacolarità della pellicola: campi lunghi, ellissi narrative, temporalità libera rispetto alla tradizionale linearità cronologica della maggior parte dei film, uso della cultura popolare greca – canzoni e repertori teatrali – come base per la drammaturgia.

''La recita''Insomma, un aggiornamento nello straniamento brechtiano: un distanziamento, anche letterale, dall’azione che permette allo spettatore di assorbire razionalmente i messaggi. Si capisce dunque perché, nel 1975, quando il film  fu premiato a Cannes per essere poi presentato nelle sale, si potessero leggere dichiarazioni come queste, peraltro condivisibili, scritte da un critico non certo estremista come Morando Morandini: «[…] un film epico, marxista, costruito con le tecniche di Brecht, ma ridiscusse in funzione del cinema e delle sue capacità ancora così poco esplorate in questa direzione. Uno dei capolavori degli anni Settanta.»
Ma proprio prendendo come esempio le righe precedenti, non dovrebbe essere necessario sottolineare che La recita è un’opera tutt’altro che puritana e iconoclasta, come affermava la critica militante dell’estrema sinistra. Esibisce spudoratamente, infatti, non solo la folclorizzazione del mito e la sua attualizzazione, ma le spettacolarizza entrambi alla maniera del  teatro musicale. È insomma l’opera di un autentico artista,  inimitabile e incapace di porsi come modello per un cinema presente e futuro.

Ma anche ammesso che La recita potesse diventare una guida per apprendisti registi appartenenti alla sinistra rivoluzionaria non inquinati dalla spettacolarità hollywoodiana o nostrana, quel film arrivò sugli schermi fuori tempo massimo. Di lì a pochi anni, Angelopulos, per sua fortuna, fu giudicato semplicemente come un grande autore contemporaneo. Si può, non a caso, ricordare che i due film successivi, I cacciatori (1977) e Viaggio a Citera (1979), mai presentati nelle sale italiane e accolti con sufficienza anche dalla nuova critica, erano ancora più innovativi sul piano formale e politicamente molto incisivi e persino attualizzati, visto che raccontavano il travaglio della Grecia durante la dittatura del colonnelli. Successivamente, anche quando gli anni delle presunte rivoluzioni furono quasi dimenticati, il regista greco, scomparso tragicamente nel 2012, è sempre stato fedele ad uno stile di regia basato su lunghi piani sequenza, riprese in campo lungo, narrazioni ellittiche, campi vuoti e scarni dialoghi. Insomma, i suoi film – belli e meno belli e talvolta anche poco riusciti – non prescindono dalla politica e dalla storia, ma la inglobano dentro una forma filmica personalissima. Guai a far diventare le sue pellicole dei modelli estetici: gli imitatori finirebbero per realizzare delle involontarie caricature, come spesso accade quando si vuole fare un film “alla maniera” di Bergman, Tarkovskij, Fellini, Welles, Antonioni, e pochi altri autori dotati di una personalità artistica originale e assoluta.

''Nel corso del tempo''L’anno successivo, sempre a Cannes, la critica premiò un film diametralmente opposto, sia sul piano della poetica personale, sia dell’estetica: Nel corso del tempo di Wim Wenders.
In Italia la pellicola arrivò tardi, alla fine del decennio, con programmazioni sporadiche inserite in rassegne dedicate ad un fenomeno apparentemente nuovo: il cinema della Repubblica Federale Tedesca. In realtà erano la critica e il pubblico italiano a non essere aggiornati: anche nella Germania occidentale – e persino in quella orientale – c’era stata, sia pure in ritardo, una “nouvelle vague” piuttosto importante che comprendeva non solo l’iniziatore e guida del processo di rinnovamento autoriale, Alexander Kluge, ma anche diversi nomi poi diventati dei veri e propri emblemi del cinema contemporaneo: Fassbinder, Herzog, Reitz e, appunto, Wim Wenders che, con Nel corso nel tempo, realizza  il suo sesto lungometraggio.
L’opera chiude una trilogia, dedicata al viaggio, iniziata nel 1973 con Alice nelle città  e proseguita due anni dopo con Falso movimento, ispirato a Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, entrambi sceneggiati assieme allo scrittore Peter Handke.
Potrebbe anche essere definita una trilogia del ritorno a casa. Colonizzato, per sua stessa ammissione, dal mito americano (cinema e musica), autore di un noir esistenziale come Estate in città e di una problematica ma  bella trasposizione di La lettera scarlatta di Hawthorne – ma anche di un altro film tratto da un romanzo esistenziale dello stesso Peter Handke, La paura del portiere prima del calcio di rigore – il regista sembra voler ricercare, con questo viaggio, un’inesistente “patria” germanica. Un tema ostico, visto che nel 1976 a nessuno sarebbe venuto in mente di ipotizzare una possibile riunificazione tedesca che, in realtà, avvenne poco più di dieci anni dopo.

''Nel corso del tempo''Il tema della ricerca, più o meno destinata al fallimento, è comunque consustanziale ai tre titoli. Ovvero, il cinematografo  è un “falso movimento”, in senso tecnico – il movimento filmico è sempre virtuale – e reale. Da un lato si ricomincia da capo, ogni volta che si è giunti ad una meta – come accade nel viaggio di formazione suggerito dal romanzo di Goethe – dall’altro, come afferma il protagonista di Alice nelle città, un giornalista che abbandona gli Stati Uniti, deluso da sua esperienza di reporter, l’immagine fotografica non assomiglia per niente alla realtà.
Wenders certo non lo immaginava, ma quella frase, oggi, sembra profetica: suggella una sorta di ossessione del protagonista, Philip (Rudiger Vogler, attore di riferimento di Wenders, protagonista dei tre film di viaggio e sorta di “alter ego” del regista in tante altre opere, come un nuovo Antoine Doinel, a cui manca la fase infantile e adolescenziale) che scatta e sviluppa con una polaroid immagini del paesaggio e dei volti americani, per tenere una piccola memoria visiva utile alla successiva scrittura del reportage. Che cosa c’è di diverso dall’odierna ossessione del fotografare – tutto e niente – stimolata o imposta dai telefoni cellulari di ultima generazioni che riversano nel web milioni di immagini senza alcun nesso con la realtà, se non quella dell’auto affermazione, della richiesta di esserci, dell’uscire dall’anonimato?

''Nel corso del tempo''Tornando al primo film della trilogia, il paradosso del racconto è che Philip porta con se, casualmente, una bambina, l’Alice del titolo, abbandonata dalla madre in aeroporto, che deve tornare a casa, in Germania, ma non sa dove sia la città dei nonni. Ha con sé solo una foto della casa, eguale a milioni di altre case in migliaia di città: spera di riconoscerla, passandoci accanto.
E così avverrà, alla fine del racconto filmico, dimostrando che proprio l’età infantile ha ancora una fase dello specchio – freudiana/lacaniana –  in cui le immagini sono in rapporto analogico con la realtà.
In Nel corso del tempo, la struttura richiama nuovamente il “road movie”, ennesima eredità della colonizzazione culturale americana. Ormai, però, sembrano essere dimenticati sia lo scopo di Falso Movimento – realizzarsi attraverso una grande impresa formativa, ovvero arrivare in un luogo a lungo desiderato – sia la ricerca di una stabilizzazione familiare da parte della bambina, che si oppone allo spaesamento del protagonista, incapace di collegare immagini e realtà.

I due personaggi principali – e quasi unici, a parte alcune caratterizzazioni – del nuovo film percorrono le strade e i paesi che stanno ai confini con la sorella/nemica  Repubblica democratica tedesca: confini visibili, segnati dal filo spinato e da vecchie costruzioni in cemento che servivano da alloggi per i soldati. Bruno Winter (di nuovo Rudiger Vogler) è un tecnico specializzato in attrezzature per le sale cinematografiche, dai proiettori agli schermi e agli impianti sonori e luminotecnici. Viaggia e dorme in un camion pieno di tutti gli strumenti che gli possono servire nel suo lavoro. Si unisce al suo girovagare uno sconosciuto, Robert Lander (Hanns Zischler), dopo che, a bordo del suo Maggiolino Wolkswagen, ha forse tentato di suicidarsi gettandosi con l’auto nelle acque dell’Elba, fortunatamente troppo basse per travolgerlo.

''Nel corso del tempo''Il suo ritorno alla vita coincide con una serie di progressive confessioni, un po’ strappate e sempre frammentarie: è un pediatra e glottologo la cui attuale solitudine deriva anche dall’essere stato appena abbandonato dalla moglie. L’esuberanza di Bruno lo aiuta a fare pace con la vita. I due infatti, città dopo città, cercano di attivare l’interesse del pubblico, rimasto a presidiare i pochi locali cinematografici ancora aperti, con una serie di teatralizzazioni da cinema muto (lo schermo e l’illuminazione creano una sorta di teatro di mimi) o con la proiezione di spezzoni di vecchi film. Pochi sono gli eventi che creano un accenno di drammaturgia: una breve storia d’amore, con tanto di litigio tra i due compagni d’avventura; una sorta di sogno ad occhi aperti durante una notte passata proprio in una vecchia casamatta ai confini con la RDT, in cui si sentono le voci delle guardie dell’Est; ma soprattutto le due parallele soste nostalgico-memoriali. Robert chiude i conti con il padre, direttore e redattore unico di un periodico locale, ormai sul punto di cessare le pubblicazioni. Non lo vede da molti anni e, sostando nella sua casa, usa la tipografia per stampare un foglio in formato giornalistico in cui scrive il suo risentimento, accusando il genitore persino della morte della madre.

Bruno, invece, inforcata una moto con side-car da autentico road-movie hollywoodiano, conduce il nuovo amico nella vecchia casa in legno di un isolotto al centro di un’ansa dell’Elba. Era la casa delle vacanze e lì, tra un richiamo a Mark Twain e una citazione di un vecchio film del 1952, Il temerario di Nicholas Ray – regista amatissimo da Wenders che ne firmerà una biografia in “limine mortis”  – ritrova, sotto la casa, una scatola con vecchi fumetti che leggeva negli anni dell’infanzia. Alla fine, i due si separano, ma proprio la sequenza finale, con il camion visualizzato, a lungo, in parallelo con la ferrovia che porterà lontano Robert, e con i due amici che, prima della divergenza inevitabile tra strada ferrata e autostrada, si scambiano messaggi affettuosi attraverso i sorrisi e la mimica, sembra una sorta di invito a rivedersi, forse in un’altra Germania.

''Nel corso del tempo''Ideato, scritto e diretto da Wenders, Nel corso del tempo aggiunge alla tematica dello spaesamento  un epilogo quasi obbligatorio: la resa dei conti con il mondo dei padri, tardiva, come di fatto è accaduto storicamente in Germania. Non è un caso che, proprio alla fine del decennio, fu prodotto anche il celebre film di Margarethe Von Trotta, Anni di piombo (1981), dedicato appunto al versante tragico di questa resa dei conti generazionale che aveva avuto inizio, anche  lì, e in maniera spesso cruenta, alla fine degli anni Sessanta. Ma in Wenders, questo confronto, proprio perché tardivo, è inutile: totalmente interiorizzato fino all’afasia. Non c’è più niente da rivendicare nei confronti del mondo dei padri, né la loro uccisione simbolica, né  una diversa “novellizzazione” della storia e della realtà. I padri sembrano essersi volontariamente estinti. Ma, assieme alla loro estinzione, è assente, anche l’“heimat”, necessariamente rimossa a causa del recente passato nazista che ha impedito di rievocare una Germania materna.  Solo nel 1984, Edgar Reitz avrà il coraggio e persino il timore di metterla in scena con i tanti cicli dedicati alla rievocazione di una patria affettiva, al femminile, diversa dalla Vaterland, cioè alla terra del padre che non può essere riesumata.

''Nel corso del tempo''Proprio per questa apparente mancanza di centralità storico-culturale, Nel corso del tempo è forse il primo film a certificare una poetica rivendicata dallo stesso regista nel 1982 (quando vinse il Leone d’oro a Venezia per Lo stato delle cose): “non mi interessa filmare le storie ma gli spazi tra i personaggi”. Proviamo a tradurre: le storie tedesche contemporanee non esistono, non possono esistere se non per frammenti esistenziali. Sembra di leggere in queste definizioni, anche una sorta di legame con altri illustri esempi di cinema d’autore segnati dai vuoti: Antonioni (che Wenders aiuterà a dirigere uno dei suoi ultimi film, Al di là delle nuvole, cercando purtroppo, di farlo diventare wendersiano) e Bergman. Ma forse, tenendo presente la sua formazione americana e il continuo oscillare del suo cinema tra scenari statunitensi e tedeschi, il modello figurativo classico è quello che prevale: John Ford, ovvero gli spazi ampi, desolati, in cui la figura umana si perde. Dietro la pienezza della storia e delle storie il vuoto dei deserti, la memoria di una pre-civiltà non ancora degradata.
I personaggi di Nel corso del tempo cercano così di riempire i vuoti con i loro ricordi, troppo personali e fragili per creare una drammaturgia accettabile o una nuova narrazione della Germania. Non è un caso che il pediatra/psichiatra citi indirettamente lo stadio dello specchio  già apparso in Alice nelle città, come elemento trionfante dell’immaginazione infantile e della coscienza di sé.

''La recita''Ma, da buon regista post-moderno, con le sue citazioni e con la creazione di un personaggio che tenta disperatamente di far rimanere in vita il cinematografo, Wenders inserisce anche i film, soprattutto quelli classici, da lui mitizzati, come specchio dei desideri di eterna fanciullezza e immaginazione. Entrambi le operazioni sono però illusorie: il “corso del tempo” è dominato dall’assenza, anche questa lacaniana, poi  confermata in tutte le pellicole successive del regista – dal bellissimo L’amico americano a Lo stato delle cose, e fino Il cielo sopra Berlino, che fa da prologo al ritrovamento di una “heimat” materna e affettiva.
Forse la ragione principale del suo successo internazionale e della lunga durata del suo mito di autore originale e quasi unico, è dovuta anche a questa consapevolezza dell’assenza, del vuoto esistenziale, della perdita di senso che le nuove generazioni occidentali subivano in maniera ora interiorizzata ora eccessivamente “urlata” nelle piazze.
Difatti, poiché abbiamo messo in parallelo, quasi abusivamente, se non per i contesti storici, due film diversissimi come La recita di Angelopulos e Nel corso del tempo di Wenders, occorre specificare che anche il film tedesco ha sempre avuto un pubblico formato da innumerevoli nicchie di spettatori sparsi in ogni angolo del mondo, in parte già globalizzato, almeno sul piano della comunicazione culturale. E se la  pienezza storica, teatrale, mitologica e soprattutto politica di Angelopulos arrivò troppo tardi,  i vuoti  di Nel corso del tempo furono colmati dall’immedesimarsi in quel “falso movimento” da parte di una generazione, anch’essa in cerca di presenze dopo la fine delle illusioni rivoluzionarie. Una buona parte di questo pubblico era peraltro costituito da una nuova categoria: gli spettatori-operatori.

Alla fine del decennio, infatti, in Italia c’erano già le radio private e s’annunciano le prime tv locali, nei cui studi covavano nuovi sogni non solo televisivi, poi diventati troppo grandi per essere governati dal basso, ma anche cinematografici. Una buona parte dei giovani cineasti italiani degli anni Ottanta si misurò con le prime forme di “camera-stilò”, magari non proprio leggera come teorizzava Astruc negli anni Cinquanta, ma comunque in grado di realizzare le riprese senza troupe e con personale ridottissimo, buona definizione, e senza eccessiva perfezione artigianale da parte dei collaboratori tecnici (fotografi, scenografi, illuminotecnici) dei quali si poteva anche fare a meno. Con le videocassette in valigia, cioè con i film belli, brutti, interessanti o meno, molti di loro giravano per le città italiane dove venivano organizzate retrospettive obbligatoriamente “ottimistiche” dedicate al “nuovo cinema italiano”.
La maggior parte di loro avevano come modello dichiarato Wenders, il che significava anche affermare esplicitamente la volontà o forse l’illusione di poter essere artisti per semplice volontà e passione, cercando di filmare anch’essi lo spazio tra i personaggi, ovvero una dimensione totalmente poetica appartenente al singolo artista.

''La recita''“Quel film parlava di me”, ha dichiarato qualche anno fa Antonello Grimaldi. Per tradurre l’esplicita identificazione del regista sassarese, Nel corso del tempo lo invitava a colmare il proprio vuoto esistenziale attraverso la creatività. Grimaldi frequentò successivamente la scuola cinema della Gaumont, a Roma, ed esordì nel 1990. Non mi risulta che abbia mai cercato di imitare Wenders.
Un altro celebre regista “fulminato sulla via di Damasco” fu Mario Martone che, nel 1979, fondò la sua compagnia teatrale e gli diede il nome di Falso Movimento. Come si sa, a partire da Tango glaciale, il suo primo successo che fu messo in scena anche a Cagliari, nel 1982, Martone sperimentò un’interazione tra i diversi linguaggi scenici e audiovisivi che finivano per essere inglobati parzialmente o totalmente nei “mass media”.
Lo spettacolo fu definito da autorevoli critici come il primo esempio di teatro post-moderno. Ma a parte questa analogia con le frequenti dichiarazioni di Wenders, teorico della morte del cinema classico e della sua resurrezione in altre forme, appunto post-moderne, non c’è mai stato alcun tentativo di imitazione wendersiana da parte del regista napoletano. Semmai, nei suoi primi film, Morte di un matematico napoletano (1992), L’amore molesto (1995), Teatro di guerra (1997), c’è questa voluta mancanza di un centro narrativo-drammaturgico  che fa pensare ad una lontana derivazione dal cinema dell’assenza del regista  tedesco. Ma qui finisce la sua dipendenza che riguarda semplicemente l’idealità estetica: fare film, così come fare teatro, significa vagare coscientemente  attraverso i testi e le realtà con uno sguardo nuovo.

9 novembre 2016

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