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Arcipelaghi: dal romanzo di Maria Giacobbe al film di Giovanni Columbu

di Chiara Sulis

 Gli arcipelaghi è una delle opere di narrativa di Maria Giacobbe, scrittrice sarda, trasferitasi ormai dalla fine degli anni Cinquanta in Danimarca.
Il romanzo narra di una vicenda della Sardegna: sarda nell’ambientazione e nella descrizione delle problematiche che investono una società chiusa dove esiste ancora l’omertà.
L’impianto narrativo è caratterizzato dalla presenza di diversi narratori che raccontano e, spesso, si raccontano al lettore e da un particolare intreccio che suscita un interesse crescente per la narrazione.
La storia narra dell’omicidio del piccolo Giosuè, figlio di una povera famiglia di Dolomè e della vendetta che viene compiuta ai danni dell’assassino del ragazzo.
Giosuè viene lasciato da solo nell’ovile di famiglia per badare a degli animali, ma per sua sfortuna quella notte passano davanti all’ovile dei ladri di vacche che lo minacciano di non proferire parola su ciò che ha visto.
Giosuè vorrebbe stare zitto, ma il padrone delle vacche, Antonio Flores, è determinato a farlo parlare, per ritrovare il proprio bestiame.
Così Giosuè, schiacciato tra due minacce, parla e segnala la strada che i ladri hanno preso per fuggire con le vacche; Flores trova i ladri e riesce a riprendersi ciò che gli appartiene.
Uno dei ladri decide di punire Giosuè per aver parlato, pur non essendo sicuro che ciò sia veramente accaduto. Ma la punizione non consiste in una semplice sgridata, bensì nel tagliargli la lingua e lasciarlo agonizzante nell’ovile; per mettere fine all’agonia del ragazzo, uno degli altri due ladri lo finisce con un colpo di pistola.
A questa vicenda si affiancano i fatti avvenuti nel paese dove vive la famiglia di Giosuè. A casa del ragazzo ci sono i suoi familiari ad aspettarlo: il fratello gemello Oreste, le sorelle Cassandra e Daniela, la nonna, il padre con il vizio dell’alcol e la madre Lucia Solinas.
Alla morte di Giosuè ciascun familiare reagisce in maniera differente: le sorelle sono afflitte dal dolore e spaventate da eventuali vendette; il fratello gemello resta sconvolto dalla vicenda, tanto da chiudersi in se stesso e passare ore ammutolito di fronte al fuoco; il padre è assente, in preda all’alcol; le uniche due figure che reagiscono in maniera attiva sono la nonna e la madre: esse, per quanto afflitte dalla morte di Giosuè, progettano una vendetta per fare in modo che la famiglia recuperi il proprio onore.
 
 La madre è una figura molto forte e decisa; non si rassegna al fallimento delle indagini legali e intraprende una ricerca del tutto personale che le permette di giungere al nome dell’assassino del figlio. Lei medita vendetta per salvare la propria famiglia dal disonore e l’anima di Giosuè che non potrà trovare pace altrimenti.
Così la madre, con il consiglio della nonna, organizza la vendetta del figlio, da operarsi per mano di Oreste, fratello gemello di Giosuè: Oreste è la mano, la madre la mente e la nonna l’anima di questa vendetta.
Tutto è pronto e programmato, dopo che “i conti sono stati sistemati”, Oreste va via da Dolomè e viene ospitato in casa Rudas a Trezene, sotto indicazione di sua madre.
Ma dopo un periodo abbastanza sereno a casa dei Rudas, Oreste viene arrestato per l’omicidio dell’uomo, perché sospettato di vendetta alla luce della morte del fratello. Si svolge il processo con la testimonianza di vari abitanti del paese e della dottoressa Rudas che garantisce l’ottima condotta di Oreste nella sua casa: Oreste viene assolto.
Attorno alla famiglia Solinas gravitano altri personaggi che giocano dei ruoli determinanti all’interno della narrazione. Tra essi:
•    i tre ladri: determinati a svolgere un furto, si ritrovano a uccidere un bambino, solo per dei sospetti; uno di essi, detto il Falco, conosceva l’uomo che andava a derubare e questo è un aspetto importante perché accentua la vergogna provata al momento del confronto con il proprietario delle vacche: Flores lo ha riconosciuto e lo sputa in faccia, considerandolo un traditore, poiché lo aveva accolto nella sua casa per insegnargli il mestiere. La vergogna del Falco è enorme, poiché, se rubare è umano, tradire non è da uomo, ma da serpe. L’insopportabile vergogna porta l’uomo a sfogare su Giosuè.
Gli altri due ladri sono uomini che si sono ritrovati in una situazione proficua e ne hanno approfittato: uno dei due per comodità e l’altro per il bisogno di sfamare la propria famiglia. In realtà è proprio uno di loro a uccidere con un colpo di pistola Giosuè, per mettere fine alla sua agonia.
•    Antonio Flores: è l’uomo derubato che affronta coraggiosamente i tre ladri; per Flores il coraggio è tutto e per questo lamenta il fatto di avere un figlio poco valente che non si è saputo difendere dai ladri.
Sul piano della violenza perpetuata su Giosuè, egli viene immediatamente dopo gli assassini, poiché per far parlare il ragazzo, lo minaccia e lo butta dentro il pozzo, finché egli non gli indica la strada che hanno preso i delinquenti.
Flores sa di avere delle responsabilità nei confronti della morte di Giosuè, ma tende a giustificare il proprio gesto attraverso la disperazione di ritrovare la fonte di vita e di sostentamento della propria famiglia; inoltre incolpa i genitori di Giosuè, incapaci di tenerlo al sicuro: lo hanno lasciato da solo nell’ovile perché il padre è sempre ubriaco, la madre incapace di rassegnarsi all’idea che i propri figli facciano un lavoro diverso da quello di pastore e possessore di animali.
•    Il figlio di Flores: ha visto i ladri e li potrebbe identificare, ma si rifiuta di farlo per non passare altri guai; anche se questo significa essere preso in giro dal resto del paese e rimproverato dal padre.
Egli rispecchia pienamente la mentalità di alcune zone della Sardegna, soprattutto negli anni in cui il romanzo è ambientato, gli anni Sessanta: la paura di essere coinvolti in vicende pericolose e la conseguente omertà; il silenzio salva perché ti tiene lontano dai guai; è così per tutti, e lo è sempre stato.
•    La famiglia Rudas: è la famiglia che ospita Oreste dopo che egli ha vendicato suo fratello.
La vedova Rudas vuole proteggere Oreste, mentre sua figlia, non vorrebbe entrare in contatto con una storia del genere. La figlia della vedova Rudas è dottoressa come lo era stato suo padre: lei rappresenta la lotta di chi nasce e cresce in una realtà fatta di omertà, e non accettandola, fa di tutto per respingerla.
La dottoressa conosce i meccanismi della società da cui proviene e se ne vergogna, soprattutto di fronte al marito “continentale”; in realtà la vergogna e l’ostinazione del rifiuto non sono altro che prove della sua debolezza e dipendenza di fronte a quel tipo di società che vorrebbe ignorare, ma di cui fa parte e fatto più importante che, volente o nolente, fa parte di lei.
•    Lorenzo, il marito della dottoressa: Lorenzo è “mezzo” sardo, poiché ha vissuto in Sardegna da bambino, tanto da restarne affezionato, ma è cresciuto a Milano, dove ha studiato veterinaria. Poi è tornato in Sardegna per lavoro e ha sposato la dottoressa Rudas. Anch’egli conosce i meccanismi della società in cui vive, ma non li rifiuta, piuttosto potremmo dire che tenta di comprenderli. Comprendere lo strano modo che certe persone hanno di considerare la vendetta come giustizia, il senso dell’onore contro la vergogna e il rubare, il tradire, la legittima difesa. Lorenzo fa riflettere sua moglie sul concetto di giustizia, su quanto possa essere ingiusto incarcerare Oreste, anche se colpevole: si priva della propria libertà un soggetto considerato pericoloso per gli altri; uno come Oreste, colpevole solo di aver eseguito l’ordine della madre, deve essere aiutato a superare il trauma e non messo a contatto con dei delinquenti che non faranno altro che peggiorarlo.

 Ogni capitolo del romanzo si apre con la fase della narrazione che racconta il viaggio che Lorenzo compie per tornare in Sardegna, dopo anni di assenza. Per ogni capitolo ci sono dei ricordi, dall’infanzia alla vicenda di Oreste, come se egli fosse il narratore sottinteso di tutta la storia.
E proprio quello del narratore e uno degli aspetti più interessanti del romanzo.
Oltre a Lorenzo, narratore delle proprie vicende all’interno delle varie introduzioni, quasi “raccoglitore” di tutte le altre narrazioni, perché proveniente “dall’esterno”, dal continente e per questo probabilmente più obiettivo, in alcuni casi si scambiano il ruolo di narratore alcuni personaggi, in altri vi è un narratore onnisciente che ci guida nei pensieri del protagonista.
Il passaggio del testimone avviene senza forzature da un paragrafo all’altro, poiché ogni personaggio che si racconta in relazione alla morte di Giosuè e all’omicidio del Falco ci mostra il proprio punto di vista, diventando narratore partecipante, o narratore – personaggio.
Il primo paragrafo Giosuè, la nave, la luna in cui conosciamo Giosuè, per esempio, è caratterizzato da una narrazione guidata dal narratore onnisciente che ci racconta dei pensieri del bambino e dei dialoghi e fatti che accadono dopo il suo incontro con i ladri.
Già nel secondo paragrafo Il guerriero, la narrazione è lasciata a Flores, il quale racconta come ha scoperto del furto delle sue vacche e della decisione di inseguire i ladri.

 Nel terzo paragrafo Astianatte ritorna la presenza del narratore onnisciente che ci racconta la giornata del piccolo Astianatte, personaggio slegato alla vicenda di Giosuè e Oreste, ma figlio della donna che ha visto i ladri e che teme che il proprio figlio possa fare la stessa fine di Giosuè. Astianatte non ci viene descritto perché ha un ruolo nella vicenda, ma perché ci può dare l’idea di come vivesse un bambino povero della Sardegna degli anni Sessanta e di ciò che prova sua madre, alcuni capitoli più avanti, quando ha paura di dire la verità su ciò che ha visto: parla di suo figlio e di come sia difficile seguirlo e dargli da mangiare; ha paura che possa succedergli qualcosa di male. La nostra immaginazione torna alla descrizione di quella mattina triste e noiosa di Astianatte, passata nel corridoio, fuori dall’aula di scuola: non abbiamo bisogno di andare oltre, noi Astianatte lo conosciamo già.
E di seguito a questi primi paragrafi, ogni qual volta incontriamo un narratore – personaggio sappiamo che ci sta raccontando di sé e del suo rapporto con la vicenda della famiglia Solinas: la portavoce dei fatti di casa Solinas, per esempio, è Cassandra, la sorella maggiore di Giosuè e Oreste: è lei che ci racconta delle reazioni dei suoi familiari alla morte del fratello, del piano per la vendetta, percepito attraverso l’intuizione, più che attraverso una reale conoscenza.
L’ultima parte del romanzo è narrata dalla dottoressa che racconta della sua reazione alle vicende di Oreste e del processo.
Il linguaggio dell’intera narrazione non subisce importanti variazioni nella forma, si presenta sempre semplice e lineare. Non possiamo dire lo stesso per quanto riguarda il contenuto che varia a seconda del personaggio in questione.
La dottoressa, per esempio, narra attraverso riferimenti colti (da Spinoza a Socrate), Flores, invece, spiega le proprie ragioni tramite il concetto di onore infangato, di legittima difesa, come fanno pure Oreste e sua madre spiegando la vendette come arma legittima per giungere alla giustizia.
Nell’ultima parte della narrazione la dottoressa ci mostra il proprio concetto di giustizia, nel tentativo di allontanare quella società che le appartiene e da cui si sente tanto minacciata. Il timore più grande rimane quello di essere lasciata dal proprio marito perché immersa in quel mondo, come se anche lei avesse delle responsabilità all’interno di questo sistema.
La sua testimonianza al processo è, come la definisce lei stessa, una prova d’attrice, in un palcoscenico di attori che recitano le battute scritte per loro da un regista. Poco importa di chi sia Jago, Otello o Desdemona…, l’importante che essi ci siano e dicano la propria battuta al momento giusto. E, coinvolta in questa performance da attrice, comincia a recitare anche con gli sguardi, i movimenti, creando pause ad arte, insomma, prendendoci gusto.
Il suo impegno nel testimoniare non è determinato dalla convinzione che ciò sia importante, ma solo dalla voglia di “fare bene” che la coinvolge ogni volta che accetta di assumersi un impegno e prendersi una responsabilità.
Il romanzo risulta come la somma di una serie di narrazioni individuali che, volendo potrebbero essere considerate anche indipendenti, collegate le une alle altre dall’evento portante della storia, cioè l’uccisione di Giosuè. Così la mattina di Astianatte, il fervore del prete nei confronti di sua madre e via dicendo, sono delle narrazioni di contorno che arricchiscono la nostra idea dell’ambientazione in cui la storia si svolge, ma potrebbero essere eliminate o tenute in considerazione al di fuori della storia generale, che godrebbero di vita propria e acquisirebbero un significato per se stesse.

 La trasposizione del romanzo che abbiamo appena descritto è stata curata da Giovanni Columbu, regista sardo che per anni ha collaborato alla Rai di Milano.
Il film è caratterizzato da un massiccio utilizzo della tecnica del montaggio che influenza la narrazione sia dal punto di vista formale che contenutistico.
Dal punto di vista formale, la  narrazione risulta frammentata e irregolare e le varie vicende possono essere collegate solo dopo la visione dell’intera storia. Spesso sembra che il regista tenga a dare più importanza al personaggio che alla storia stessa.
Dal punto di vista contenutistico, la narrazione è guidata dalla scelta di sovrapporre diversi momenti della vicenda sconvolgendo lo svolgimento reale dei fatti. Così la narrazione si apre con il processo a Oreste, che nel romanzo avviene al termine del racconto, e si svolge, attraverso i racconti dei vari testimoni, come se le immagini prendessero forma grazie alle parole della testimonianza.
E su questo punto è utile soffermarsi per notare alcune delle incongruenze che intercorrono tra libro e film.
All’interno del romanzo troviamo la descrizione di vari personaggi tra loro collegati perché “attori” all’interno della vicenda di Giosuè e Oreste; ogni personaggio ha una propria  storia e delle ragioni che lo hanno portato a comportarsi in un determinato modo all’interno di quella vicenda; tante storie, quanti sono i personaggi descritti e tante personalità differenti, ma tutte importanti nell’economia del racconto.
Nel film, invece, come spesso accade nelle trasposizioni, occorre semplificare, limare e a volte eliminare personaggi e vicende: così la figura della donna che vede i ladri la notte in cui viene commesso l’omicidio viene eliminata e sostituita con quella di un’anziana che sta curando il proprio orto, come pure vengono spesso smussati i tratti del prete e delle persone del paese che gravitano attorno alla famiglia Solinas.
Anche la famiglia Solinas viene presentata in maniera un po’ differente: la figura del padre alcolizzato, forse troppo ingombrante e difficile da gestire viene eliminata e si lascia sottinteso che egli sia già morto, poiché in una scena in cui la madre di Giosuè sta parlando con un carabiniere, quando quest’ultimo le chiede se la famiglia abbia dei nemici, se suo marito potesse averne qualcuno, lei rispondendo di no, allude ad una cornice sul mobile in fondo alla stanza e la macchina da presa ci mostra una foto evidentemente di qualche anno addietro che rappresenta un uomo vestito con una sorta di divisa o di uniforme, presumibilmente ricordo del marito già morto, ma sempre presente nei pensieri dei suoi familiari.
 La madre detiene sempre un ruolo di grande importanza all’interno del nucleo familiare e all’interno della narrazione, poiché ha un peso enorme nell’intera vicenda narrata, ma rispetto al personaggio del romanzo, viene descritta come una donna meno combattiva, almeno apparentemente. La sua lotta per compiere la vendetta non è aggressiva e lei agli occhi dello spettatore appare più remissiva e debole, quasi sconfitta dal dolore e dal senso di colpa per aver lasciato il piccolo Giosuè da solo nell’ovile; anche le motivazioni che la portano a lasciare il figlio da solo in un luogo così pericoloso sono differenti: nel libro la madre di Giosuè viene descritta come una donna piena di orgoglio che, non riuscendo ad accettare il decadimento della propria famiglia, si ostina a mandare il figlio all’ovile per farlo diventare pastore e non falegname o artigiano, mestieri considerati inferiori rispetto a quello del possessore di bestiame. Nel film, invece, la donna è costretta a lasciare il bambino nell’ovile perché, dovendo terminare una mansione al panificio in cui lavora, non si avventura nelle strade di campagne durante la notte; il gesto è comunque poco materno, perché, se le strade di campagna a quell’ora di notte possono essere pericolose per una donna, figuriamoci quanto possa essere pericoloso, per un bambino così piccolo, stare da solo in un ovile in aperta campagna; ma tale gesto è determinato dall’onere del lavoro, da una sbadataggine di una madre indaffarata a mandare avanti una famiglia da sola, non di sicuro dalla volontà di non perdere l’onore di essere pastori.
Inoltre la madre del romanzo si vanta della vendetta che Oreste compie per il fratello, perché dimostra che la loro famiglia ha saputo difendersi e riacquistare onore. Quell’onore offuscato dall’umiliazione di aver subito una perdita senza ragioni apparenti e senza punizione dei colpevoli. La madre del film, invece, tiene nascosta tutta la vicenda per paura che questo possa mettere in pericolo la propria  famiglia, senza farne alcun vanto, ma solo trovando pace nel regolamento dei conti. Inoltre, al contrario del romanzo, il film ci mostra una madre che manda il figlio a compiere la vendetta, ma che nel frattempo lo segue per essere sicura che tutto vada per il meglio; e quando lui non ci riesce, è lei a prendere il controllo della situazione e a sparare.
Ed è forse proprio il concetto di vendetta che cambia dal romanzo al film: il romanzo è ambientato attorno agli anni Sessanta, quando la Sardegna viveva in un clima di maggiore chiusura, rispetto all’anno 2001 quando il film esce nelle sale. In quegli anni era probabilmente più forte il concetto di vendetta e maggiore l’omertà che accompagnava i delitti consumati all’interno dei paesini dell’entroterra. Sicuramente al giorno d’oggi omertà e delinquenza non sono ancora del tutto debellate, ma anche nei paesi più isolati c’è una maggiore partecipazione sociale e il tentativo, almeno da parte dei giovani, di superare l’immobilità dell’omertà che nel romanzo viene ancora considerata parte integrante della società.

 Anche i concetti di vendetta come legittima difesa, onore, vergogna, sono sminuiti e ricondotti semplicemente ai discorsi della vecchia zia Caterina, madre del marito di Lucia Solinas: <<…anche loro un giorno moriranno…>>, come se potesse essere la vita stessa a vendicare la morte di Giosuè, ma al tempo stesso dice alla nuora <<…sei sicura di non voler fare niente?…>>, e questa frase si riferisce al voler fare vendetta.
Nel romanzo la vendetta è naturale percorso di qualsiasi uomo o donna d’onore che è costretto ad attuarla per non cadere nella vergogna; essa fa quindi parte di uno schema precostituito, di un sistema dal quale è difficile uscire, e una volta attuata è fonte di orgoglio; nel film, invece, sembra rimanere solo la sensazione di sollievo provata dalla madre per aver “regolato i conti”; in questo caso vendicare significa rimettere a posto le cose perché si dimostri tutto l’affetto che si provava e si prova ancora per Giosuè.
Così anche la figura della dottoressa, figlia della vedova Rudas, perde spessore e importanza rispetto alla narrazione del romanzo, poiché non ha poi molto a cui opporsi: nel romanzo è inorridita dal vanto che la madre fa del gesto del figlio e dal fatto che sia stato un ragazzo così giovane a compiere la vendetta; nel film il suo personaggio non entra a conoscenza del fatto, almeno per quello che noi possiamo vedere nello scorrere della narrazione, per cui non ha motivo di sentirsi in collera per questo; rimane solo molto distaccata nei confronti della vicenda, perché lontana dalla mentalità a cui sua madre per esempio è ancora molto legata. Ma in tutto questo non emerge il suo bisogno di allontanarsi da quella società in cui è nata, che detesta, pur avendola interiorizzata. E soprattutto non emerge la paura di perdere il marito, “estraneo” a questa mentalità, non chiamato neanche a testimoniare (nel film, invece, non solo lui testimonia, ma appare come un qualsiasi spettatore del dramma della famiglia Solinas); così vengono eliminate le considerazioni finali rispetto al concetto di giustizia che ci vengono proposte dalla dottoressa e da suo marito.
Un'altra variazione importante va a toccare il ruolo dei fratelli Giosuè e Oreste. Nel libro essi sono fratelli gemelli e compagni di giochi e confidenze; quando Giosuè muore Oreste rimane attonito, fino al giorno in cui non compie l’assassinio del Falco. Nel film, invece, Giosuè ha un’età inferiore rispetto a quella di Oreste e viene identificato il piccolo di casa, motivo per cui non viene lasciato da solo nell’ovile perché responsabile di esso, ma come abbiamo già detto, per una leggerezza della madre. Oreste da parte sua ricopre il ruolo del fratello maggiore che vorrebbe prendersi cura dei propri fratellini, e in quest’ottica risulta più in linea con il bisogno di vendetta. Il dolore di Oreste viene espresso dalle immagini in cui egli ricorda il fratellino e in cui immagina di parlar con lui; in particolare egli scrive dei pensieri su Giosuè e contro i suoi assassini e la macchina da presa ci mostra la scrittura da vicino, come se riuscissimo ad entrare dentro le parole di Oreste e sentirle più vicine a noi.
Per completare il quadro della famiglia notiamo che la zia Caterina interviene a più riprese nella narrazione del film, ma con minor peso rispetto a quella del romanzo, in cui gioca un ruolo carismatico nei confronti della madre dei bambini. Inoltre Cassandra, la sorella maggiore di Giosuè, che nel romanzo ci narra le situazioni familiari all’interno della casa, non esiste all’interno della narrazione filmica, forse perché non indispensabile, visto che all’interno del film non esistono narratori veri e propri, ma le immagini si raccontano da sole; viene lasciato spazio solo alla piccola Daniela (che nel film si chiama Maria) e ricopre il ruolo dell’innocenza e dell’impossibilità di comprendere quel sistema tremendo che si è portato via il fratellino.
Variazione rilevante anche nell’incontro che Flores ha con Giosuè: nel romanzo Flores è spietato e minaccia il ragazzo, almeno quanto il Falco farà in seguito, con la differenza che il ladro poi dalle parole passa alle azioni. Nel film Flores è meno spietato, ma pur sempre spaventoso per un bambino così piccolo; gioca sul fatto che Giosuè si possa intimorire facilmente e alla fine gli promette protezione.
Questa promessa dipinge l’azione di Flores di maggiore ipocrisia, rispetto alla narrazione letteraria: nel romanzo Flores spaventa e minaccia Giosuè perché è suo diritto, e forse per lui anche dovere, recuperare il sostentamento della propria famiglia, a tutti i costi. Ogni gesto è giustificato e la colpa della morte di Giosuè è di chi lo ha lasciato lì da solo. Nella narrazione filmica Flores promette al bambino protezione, che ovviamente non arriverà mai, poiché recuperati i propri cavalli (nel romanzo erano venti vacche, ma penso che sia più facile girare una scena con cinque cavalli che con venti vacche), recuperati i propri animali, Flores torna a casa tranquillo e felice della propria impresa.
Quando nel film ci viene mostrato Flores che porta la croce nella processione, udiamo la sua voce isolata, come se fosse il suo pensiero, che ricorda i fatti di quella sera e la promessa fatta a Giosuè; nel pentimento conclude comunque con un <<…che me ne importa, è la vita che è fatta così…>> pur sapendo di essere stato la causa principale della morte del bambino.

 Nella narrazione filmica le responsabilità della morte di Giosuè sono diversamente distribuite: non c’è più una società povera e degradata dove ci si deve rendere giustizia da soli, ma dei singoli uomini, ipocriti e senza scrupoli, che se la prendono con un bambino.
E' come se la società descritta dalla Giacobbe fosse tutta immersa in questa ipocrisia e omertà che rende gli uomini nemici gli uni degli altri; la società di Columbu è invece più semplice: da una parte i cattivi, dall’altra le vittime; il dramma è affrontato dalla famiglia Solinas con dolore, ma senza aggressività, la vendetta non avviene più perché la società vuole che sia così, ma per alleviare il dolore legato alla morte di Giosuè; è sempre una vendetta, ma dettata dal dolore e non dalle regole di un sistema.