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Ettore Scola e la via francese alla commedia.

Come sopravvivere alla crisi del cinema nazionale con opere di alto livello che raccontano la storia d’oltralpe e, metaforicamente, anche quella italiana. Memorie d'oltrecinemaGianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

Ettore ScolaApprofitto, con molto ritardo, dell’anniversario della scomparsa di Ettore Scola (19 gennaio 2016) per rivedere alcune definizioni troppo generiche sulla sua filmografia.

Come si sa, il regista di Trevico, provincia di Avellino, arrivato a Roma poco dopo la nascita (1931), a causa del trasferimento nella capitale di tutta la sua famiglia, ha fatto parte di quella generazione di cineasti e sceneggiatori, attivi a partire dagli anni Cinquanta, che comprende Risi, Comencini, Monicelli, Lattuada, Germi, Zampa, Fellini, Antonioni, Pietrangeli, Rosi, Loy, Pontecorvo, Solinas, Age, Scarpelli, Amidei, Sonego, Maccari, Lattuada, nonché  tanti altri che sfuggono ad una immediata rievocazione memoriale.
Dentro questa “quantità” c’era, come si sa, anche una qualità altissima ma, soprattutto, tutto il gruppo, con poche ma significative eccezioni (Fellini, Antonioni, Pontecorvo, Solinas) è facilmente catalogabile in  un genere storicamente consolidato, anche sul piano temporale: la commedia italiana, il cui successo si deve anche ad altre figure professionali, vale a dire gli attori che  ne hanno incarnato i diversi personaggi in maniera continuativa: Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi.
Scola ha fatto parte di quel genere fin dal 1953, quando apparve la sua prima firma come sceneggiatore in  Fermi tutti … arrivo io di Sergio Grieco: una commedia “gialla” che non ha lasciato molte tracce nella storia del cinema italiano. Il ruolo di Scola fu, per lo più, quello di collaboratore ai dialoghi e alla battute comiche. Infatti,  come ha ricordato lui stesso nella sua ultima pellicola, Che strano chiamarsi Federico (2013), dedicata all’amico Fellini, le origini della sua passione cinematografica maturarono nella redazione di un giornale umoristico, il Marc’Aurelio, e, nell’immediato dopoguerra, fu travasata ben presto nelle riunioni degli sceneggiatori che “portavano l’acqua” al mulino della commedia italiana. Dopo il film di Grieco, il suo nome è presente in altri 43 copioni che vantano altri collaboratori ben più famosi come Sonego e Maccari. Pochi titoli bastano a certificare l’avvenuto ingresso del futuro regista nel cinema che conta: Anni ruggenti (Zampa), Nata di marzo, La marcia su Roma, Il sorpasso (Risi), La parmigiana, Io la conoscevo bene, La visita (Pietrangeli).

''Se permettete parliamo di donne''Nel 1964, esordisce alla regia con Se permettete parliamo di donne, film con diversi episodi non irresistibili, che confermano le scenette/barzellette de I mostri. Ma già, al suo quarto film come regista, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa, scritto assieme a Age e Scarpelli, troviamo una variante importante non già nei confronti dei meccanismi ormai rodati della commedia ma dei suoi contesti culturali. Difatti, nel viaggio dell’imprenditore Di Salvo (Alberto Sordi), in cerca del cognato Oreste Sabattini (Nino Manfredi), scomparso nell’Angola ancora portoghese, vi sono tracce che potremmo chiamare “cosmopolite”: i fumetti di Cino e Franco, inventati negli Stati Uniti alla fine degli anni Venti e pubblicati in Italia dalla Nerbini. Gli stessi che furono poi ripescati da Spielberg, alla fine degli anni Settanta, e riadattati nelle avventure di Indiana Jones.
Erano questi fumetti anche i nutrimenti anti provinciali anche del giovane Fellini.
Il “cotè” culturale del film, citato dallo stesso Sordi e analizzato in profondità dal celebre anglista Mario Curreli, è invece una sorta di “parafrasi” caricaturale del racconto di Conrad, Cuore di tenebre (1902), punto di partenza per ogni discorso sul “fardello dell’uomo bianco” che, contraddicendo l’orgoglio colonialista di Kipling, finisce per caricarsi sulle popolazioni africane brutalmente schiavizzate dall’Europa.
Apparsa nel fatidico anno 1968, Riusciranno i nostri eroi… consente, anche oggi o soprattutto oggi, ampie escursioni sul piano dei sottotesti e degli ambiti produttivi e formali. Giusto per contrapporlo alla furia contestativa della nuova generazione di cineasti (Bertolucci, Bellocchio, Taviani, Ferreri), Scola sembra voler ribadire, da un lato, il peso di una tradizione leggera come la commedia, dall’altra la possibilità, attraverso questa leggerezza, di raccontare la società dei consumi – dalla quale scappa, appunto Sabattini – e di mostrare l’Africa contemporanea come un luogo di oppressione e di schiavismo, ma anche di purezza mitologica, la stessa celebrata da Pasolini quasi in maniera sacrale. Si deve ricordare che, appena un anno dopo, Scola scrisse per Risi il copione di Il profeta, un altro titolo che prendeva di petto un mito della contestazione importato dagli Stati Uniti, “i figli dei fiori”, contrapponendogli un personaggio che rifiuta, individualmente e senza tanto chiasso, la società dei consumi, prima di esserne di nuovo assorbito.

''Riusciranno i nostri eroi a ritrovare...''Due anni dopo, con La più bella serata della mia vita, il rapporto tra la forma della commedia e i suoi contesti storico-culturali viene di nuovo ribaltato. Il film è infatti ricavato da un celebre romanzo dello svizzero Durrenmatt, La panne, una storia ancora possibile, scritto nel 1956 e più volte ripubblicato nonché messo in scena, anche recentemente, nei teatri italiani. Il protagonista del film, Alfredo Rossi, è di nuovo interpretato da Alberto Sordi e, già in questa scelta, vi è la celebre e indiscutibile simbolizzazione dell’icona “sordiana”: il concentrato di tutti i difetti dell’uomo medio italiano al quale, proprio nella schematizzazione dei ruoli tipica del genere più celebre della storia del cinema nazionale, si oppongono il cinismo di Gassman, la mediocrità di Tognazzi e “la resistenza umana” del proletario Manfredi.
Come sottotitolo dell’adattamento di Scola, al quale partecipò anche Sergio Amidei, si potrebbe dunque aggiungere “l’italiano medio va all’estero”. Rossi/Sordi è infatti in Svizzera, a bordo della sua Maserati, per depositare in banca una valigia piena di banconote: un “hobby” che non è affatto scomparso tra i ricchi italiani. La “panne” del titolo avviene in una zona montagnosa, mentre il nostro protagonista insegue una bella ragazza a bordo di una moto, che poi si rivelerà una sorta di esca per trascinarlo in una trappola. Un carro attrezzi – altra apparizione misteriosa, come la ragazza – lo trasporta fino ad un castello dove vivono alcuni stravaganti ex uomini di legge, avvocati e giudici, che lo invitano a restare per la notte, in maniera da poter partecipare ad un gioco processuale: una sorta di teatro che potrebbe rivelare le malefatte nascoste di persone insospettabili e soprattutto non perseguibili dalla legge. Sordi/Rossi sembra appunto il personaggio giusto per interpretare la parte dell’accusato.  
Il processo ha luogo durante la cena, tra ottimo cibo e ottimi vini: l’imputato viene invitato cortesemente a raccontare quali sono le origini della sua ricchezza e, in mezzo ai suoi ospiti, tra una risata e l’altra, confessa una sorta di complotto verso il suo capo, poi morto d’infarto. Le continue rivelazioni di una vita nascosta finiscono per fornire alla pubblica accusa una richiesta di condanna alla pena capitale per omicidio. Tutti continuano a ridere e Rossi ottiene l’ultimo desiderio (passare la notte con la bella cameriera), ma poi, la notte, sogna di essere condotto al patibolo.

''La panne''Al mattino, tutto finisce in gloria: i tre buontemponi sono albergatori che fingono di essere uomini di legge. Fanno pagare a Rossi un conto salatissimo e poi lo fanno scortare dalla motociclista/cameriera che lo induce a sbagliare strada, finendo per provocarne la morte in un dirupo tra le montagne.
Il ribaltamento del senso kafkiano della colpa e del processo che attende ognuno di noi, è il filo conduttore della maggior parte delle opere dello scrittore svizzero. Ma quel tema, come è facile verificare, è quasi completamente assente nella commedia italiana. Però, la messa in scena di Scola non si limita a “relativizzare” quella sorta di orgoglio nazionale basato sulla furberia, carattere nazionale presente in grande parte delle commedie. Piuttosto, la messa in scena contrappone la grande “guitteria” sordiana al tono sofisticato e sommesso – “a sottrarre”, direbbero gli esperti di recitazione – degli attori arruolati tra i grandi del cinema francese pre e post bellico: Michel Simon (Il porto delle nebbie di Renoir), Charles Vanel (I diabolici di Clouzot), Pierre Brasseur (Les enfant du paradise). La ragione di certe scelte sta anche nella pratica delle coproduzioni tra Italia e Francia, ancora oggi abbastanza numerose. Ma quei nomi hanno una storia particolare: rappresentano, per Scola, una sorta di scuola drammaturgica alternativa all’inevitabile dominio della commedia.
L’anno dopo Scola tornerà al  genere dominante del cinema italiano del dopoguerra. Ma è enormemente  arricchito, anche linguisticamente, tanto da essere capace di raccontare il grande tramonto e dell’Italia della commedia e dei suoi motivi dominanti.

''Brutti sporchi e cattivi''I film più celebri di questa nuova stagione creativa sono infatti C’eravamo tanto amati (1974) e La terrazza (1980). Entrambe le opere sono, per citare Bachtin, dei  cronòtopi, incroci spazio temporali che definiscono le coordinate dell’epoca. La prima, C’eravamo tanto amati, racconta la fine delle illusioni post belliche attraverso molti intrecci  e altrettanti riferimenti storici (la Resistenza, la sconfitta del Fronte popolare, i resti del Sessantotto non ancora squassati dal terrorismo) e culturali: il teatro di O’Neil, modello strutturale del film; il Neorealismo; Lascia o raddoppia; l’omaggio commovente a La dolce vita di Fellini e quello, alquanto caricaturale, ai film sull’alienazione di Antonioni, replica intellettualizzata della celebre battuta di Gassman in Il sorpasso. Il film ebbe un grande successo ma fu anche il canto del cigno del grande cinema nazional-popolare che raccontava la storia e la società dell’epoca. Non a caso, il secondo film citato, La terrazza, interamente ambientato durante un serata mondana in un grande appartamento romano – ma con continue fuoriuscite mentali e memoriali dei personaggi principali – finirà per rappresentare una patetica, anche se a tratti esplosiva, auto rappresentazione di coloro che, qualche anno dopo, verranno etichettati come “radical chic”: artisti, intellettuali, cineasti, editori, sceneggiatori, scrittori, con donne al seguito, impegnate o meno nella produzione di cultura e soprattutto uomini di potere, appartenenti però saldamente alla sinistra.

Non ho invece mai amato un altro  titolo di Scola degli anni Settanta, egualmente famoso: Brutti, sporchi e cattivi (1976), che considero una versione lunga di alcuni episodi de I mostri, i peggiori, che giustamente ipotizzarono, in una parte della critica, una sorta di furbizia produttiva, nonché di perverso piacere nel mettere in scena il degrado italiano. Forse la definizione migliore è di Alberto Moravia che, pur lodando la straordinaria regia, giudicò il film come una “contemplazione apatica”. Aggiungo che la contemplazione riguarda  quello stesso mondo sacralizzato da Pasolini. D’altronde la collaborazione di Sergio Citti nella sceneggiatura indica proprio un dissacrante omaggio a Pasolini, morto l’anno prima e non ancora santificato dalla sinistra italiana e meno che mai dal Partito comunista al quale apparteneva Ettore Scola.

''Trevico''Contrappongo a questa pellicola che sembra voler  allontanare di nuovo la commedia dalla sua tradizione più ovvia – magari costruendo un macchiettiamo sotto proletario ancora più ovvio – un’altra opera  da tempo scomparsa dai circuiti e poco vista anche in tv: Trevico-Torino, girato nel 1973 e distribuito con un titolo bruttissimo, Viaggio nel Fiat-Nam. È, dichiaratamente, un docu-dramma  che racconta le disavventure di un giovane emigrato, proveniente da Trevico (paese natale del regista), assunto in Fiat e, fuori dal lavoro, disperso tra la grande stazione centrale – rifugio di “drop-outs”, soprattutto emigrati – un centro di assistenza caritatevole e il quasi amore di una ragazza fuggita di casa. Gli attori-personaggi interpretano se stessi e, a parte il pistolotto finale (il ragazzo torna a Trevico per combattere le diseguaglianze nel suo Meridione ancora sotto sviluppato), il film è un quadro verosimile dello sradicamento provocato dall’ondata migratoria verso il nord industriale che, peraltro, proprio all’inizio degli anni Settanta, cominciava a mostrare segni di una crisi profonda. Andrebbe mostrato assieme al grande Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti e a La classe operaia va in paradiso (1971) di Petri.
Infine, con Una giornata particolare (1977) – che gran parte della critica considera, non senza ragione, il suo capolavoro – la commedia traspare sia in quella superficie di straordinaria leggerezza esistenziale del personaggio interpretato da Mastroianni, sia nella buffonesca ricostruzione del fascismo popolare, osannante il duce e la sua virilità. Queste tracce, il cui sfondo è la vera architettura familiare del fascismo,  sono ovviamente sommerse sia dal dramma personale dello stesso Mastroianni – licenziato dall’Eiar perché poco o niente virile, nella voce e nella vita – sia nella solitudine di Sofia Loren, “fattrice” del fascismo che vuole molti figli per le sue baionette, e soprattutto nelle immagini documentarie della visita di Hitler a Roma, avvenuta nel 1938, un anno prima dell’invasione della Polonia che darà inizio alla seconda guerra mondiale.

Nella mia ricostruzione non imparziale ma piuttosto partigiana della filmografia di Scola, gli anni Settanta rappresentano, dunque, sia la persistenza della commedia, sia la sua progressiva scomparsa. Il decennio d’oro di Scola, anche in senso commerciale, è dunque anche un tentativo di “resistere”  alle nuove generazioni (i già citati Bellocchio, Bertolucci, Taviani, Ferreri e l’emergente Moretti) che si erano affermate negli anni precedenti e che  parevano avviate, almeno sul piano critico, verso la progressiva cancellazione del cinema tradizionale. Nuove forme di racconto, nuovi stili, nuovi temi, nuovi personaggi e nuovi attori, indicano una sorta di rivendicazione autoriale da parte del regista di Trevico. La commedia, insomma, è, per Scola, solo una definizione di comodo entro le cui coordinate si possono cambiare radicalmente le forme e i linguaggi, permettendo la messa in scena di qualsiasi vicenda.

''La famiglia''Come si sa, gli anni Ottanta  saranno invece caratterizzati dall’inizio della grande crisi del cinema, ovvero dalla progressiva chiusura delle sale, soprattutto nei paesi e nelle periferie urbane, determinata dalla caduta verticale delle frequentazioni, accentuata, a partire dalla metà del decennio dall’arrivo di una mostruosa offerta televisiva di film del passato e del presente. Né i registi di genere né i nuovi autori potranno dire di aver vinto la sfida nei confronti del pubblico, visto che non esisterà più una massa critica capace di sostenere nuove o vecchie tendenze.
A costo di sovra interpretare l’importanza di certe scelte, si potrebbe sospettare che la dominanza degli spunti “francesi” di quello stesso decennio sia stata, per Scola, una sorta di forzata ma piacevole liberazione dagli obblighi della commedia italiana più tradizionale. D’altronde, anche l’ultimo suo capolavoro, La famiglia (1987) sembra talmente lontano dai modelli degli anni Sessanta (e parzialmente Settanta), da ipotizzare un tardivo approdo al cinema d’autore che ha finito per coinvolgere, in senso positivo, anche uno degli attori/personaggi più stabilizzati del genere: Vittorio Gassman, irritualmente pavido rappresentante di un’Italietta che sopravvive a tutto, al fascismo come alla guerra, sacrificando alla tranquillità della famiglia anche la propria felicità sentimentale.

''Il mondo nuovo''Ed ecco finalmente i  tre film francesi: Il mondo nuovo (1982), Ballando ballando (1983), Il viaggio di capitan Fracassa (1990). Tutte queste opere sembrano voler dimostrare, attraverso le loro strutture narrative e/o drammaturgiche, l’appartenenza ad una sorta di poetica universale: raccontare i “tempi del mondo” attraverso le avventure e le disavventure di personaggi “finzionali” che finiscono per essere assorbiti dalle vicende storiche vere e proprie.
Il personaggio di Capitan Fracassa, inventato da Théophile Gautier nel 1862 e pubblicato come romanzo d’appendice, è, alla pari dei romanzi di Dumas e persino di Balzac, l’ennesimo cronòtopo. Racconta infatti, attraverso le disavventure di un aristocratico poverissimo che si unisce ad una compagnia di commedianti diretti a Parigi, la decadenza della nobiltà delle provincie che aprì le porte, un secolo dopo, alla rivoluzione del 1789. Tocqueville l’avrebbe analizzata e descritta in dettaglio in L’antico regime e la rivoluzione, pubblicato nell’Ottocento – e forse letto da Gautier – in cui faceva risalire la perdita del potere (ma non del privilegio) nobiliare al regni di Luigi XIV e, soprattutto, di Luigi XIII, epoca nella quale è appunto ambientato il romanzo. Infine, il carro di Tespi, concentrato di tutte le dinamiche tra i personaggi,  è l’antecedente della commedia, anche di quella cinematografica italiana. E, per ribadire l’importanza della temporalità storica, proprio uno dei personaggi più belli e più tragici di La terrazza, il produttore televisivo interpretato da Serge Reggiani, ormai messo in disparte dalla Rai e deciso a morire di inedia, ha un sogno nel cassetto: produrre una nuova versione per il piccolo schermo del romanzo di Gautier. Il progetto, approvato dalla direzione, finisce per essere diretto da un giovane regista d’avanguardia, il quale lo trasforma in un musical contemporaneo. Reggiani, in fin di vita, decide di morire come Matamoro: viene sepolto da una tempesta di neve (finta), nello studio cinematografico in cui si sta mettendo in scena il progetto da lui ideato.

''Ballando ballando''Il secondo titolo, Ballando ballando, conferma l’idea e il progetto di un mondo teatrale (e, per estensione, cinematografico) come cronòtopo. Il film, apparso in Italia nel 1984, candidato all’oscar come miglior film straniero (la bandiera nazionale fu l’Algeria, coproduttrice del film), è Ballando, Ballando, titolo che adatta abbastanza banalmente quello originale, Le bal, uno spettacolo teatrale o meglio di danza, scritto da Jean Claude Penchenat e messo in scena a Parigi per ben due anni, dal 1981 al 1983. Scola, amico dell’autore, se ne innamorò e lo sceneggiò, associando all’impresa non solo l’amico francese, ma anche i fidati Furio Scarpelli e Ruggero Maccari. Non ne cambiò l’ambientazione, appunto parigina: una sala da ballo nella quale ogni sabato, la piccola borghesia si concede una salutare distrazione. Siamo nel 1936, l’epoca del Fronte Popolare, e da questa datazione simbolica – fu l’ultimo tentativo di salvare la Francia e l’Europa, già coinvolta nella guerra civile spagnola, dalla catastrofe bellica del decennio successivo – ogni serata danzante ha una epoca di riferimento: la guerra, il dopoguerra, De Gaulle, la contestazione, e ancora altri eventi fino al 1983. Non ci sono dialoghi, ma musica, canzoni e balli: questi “indizi” comportamentali finiscono per essere delle testimonianze storiche che si sovrappongono ad altri elementi del quadro scenico, ovvero “le cose” evocate da Antonio Costa in un ormai celebre libro, La mela di Cezanne e l’accendino di Hitchcock, e prima ancora da Pasolini. Insomma, non solo un film bello che ha permesso di allungare all’infinito la vita del testo teatrale di Penchenat (anche nel 2016, sono state messi in scena, in Italia, diversi adattamenti “nazionali” dello spettacolo), ma anche la dimostrazione più convincente che il cinema di Scola non può essere ristretto nei confini della commedia italiana.

''C'eravamo tanto amati''Ma il film più interessante e, secondo il mio modesto parere, più bello della serie (che senza esitazione metterei a fianco di C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare come capolavoro del regista) è Il mondo nuovo, girato nel 1982 e coprodotto anch’esso con la Francia, nonché dominato da uno stuolo di grandi attori d’oltralpe.
Il titolo italiano fa riferimento di nuovo al “teatro del mondo”: una cornice, ambientata nel lungo Senna, presumibilmente nell’Ottocento, vede un quasi irriconoscibile (se non per la voce) Enzo Jannacci che, nei panni del classico imbonitore di piazza, mostra lastre e rulli scorrevoli che appaiono e scompaiono dentro una Lanterna Magica. L’argomento del racconto che, verosimilmente, ma soprattutto allegoricamente, anticipa il cinematografo, è la Rivoluzione francese e, in particolare, un episodio decisivo di quegli anni: la fuga di Luigi XVI e di tutta la famiglia reale  verso i confini del nord, tra Belgio, Lussemburgo e Confederazione del Reno, in Germania, territori in cui si sarebbe dovuta organizzare una controffensiva anti rivoluzionaria. Siamo nel settembre 1791 e  il re e la sua famiglia, dopo essere stati costretti a risiedere a Parigi, quasi prigionieri dell’Assemblea costituente, tentarono una sortita ben organizzata verso la libertà. Ma il piano fallì. Ricercato dai rivoluzionari che lo accusavano di tradimento, ma anche da Lafayette, che voleva riportarlo a Parigi perché aveva ben chiaro che, senza la sua presenza, la monarchia avrebbe avuto i giorni contati, il re fu destituito e imprigionato. Processato e condannato a morte assieme alla moglie Maria Antonietta, fu ghigliottinato, e, dopo di lui, anche la consorte, nel 1793.

Coerentemente, il titolo francese fa appunto riferimento all’episodio storico, così come è stato tramandato: La nuit de Varennes. Ma la fisicità del motivo conduttore, cioè la carrozza e i suoi ospiti regali,  è  completamente occultato. Proprio nella versione italiana, più breve di circa venti minuti rispetto a quella francese, vi è una bella sequenza, nel pre finale, in cui il popolo, accorso nella casa del sindaco (un magnifico Jean Louis Trintignant), cerca di vedere il re e la sua famiglia, riuscendo però solo ad osservarne i piedi, visto che una tenda impedisce la visione generale. Talvolta i tagli censori o commerciali – il film si può comunque vedere integralmente nella versione francese con i sottotitoli – riescono paradossalmente ad evocare un linguaggio dell’assenza, metonimico, efficacissimo proprio nel raccontare la Storia con la maiuscola che si svolge in contemporanea con l’esistenza dei cittadini, dei sudditi, dei cronisti che, quasi sempre, non hanno la possibilità di osservare gli eventi nel loro farsi. Non è un caso, quindi, che i veri protagonisti che animano il film di Scola, viaggino a bordo di altri veicoli e di cavalli e non sempre si rendano conto della loro importanza testimoniale e storica. In maggioranza borghesi, sono tutti occupati nei loro affari, nei loro amori, nei loro spettacoli: immersi bensì nell’atmosfera rivoluzionaria, sono preoccupati soprattutto per il disordine e il caos, sia che parteggino per il re, cioè per una moderazione che non li riporti all’assolutismo, sia che siano già orientati verso la repubblica.

Solo tre personaggi sono coscienti dell’importanza di quel viaggio e sono tutte figure storiche: il primo è il giornalista, stampatore  e scrittore Restif de La Bretone. Fu libertino e pornografo ma anche moralista e amante dell’ordine costituito – che non rispettava mai – e sempre in cerca di lavori che gli consentissero di vivere senza l’assillo dei debitori. Illuminista “minore” (e perciò definito spesso il Voltaire o il Rousseau dei poveri) fu anche un osservatore curioso degli eventi rivoluzionari. Nel film è interpretato da un’icona incancellabile del teatro e del cinema francese: Jean Louis Barrault. Fu questo il penultimo film dell’attore e regista e Scola potrebbe averlo scelto non solo come ennesimo omaggio alle proprie radici culturali e filmiche (Barrault è lo straordinario mimo Baptiste in Le Enfants du paradise di Carnè, annata 1945), ma anche come sovrapposizione quasi autobiografica dell’intellettuale “politicamente scorretto” che riesce altresì ad essere un buon testimone del proprio tempo.
Il secondo personaggio/testimone è Thomas Paine (Harvey Keitel), scrittore inglese, appassionato cantore della rivoluzione americana ed egli stesso combattente a fianco di Washington, quindi esule in Francia, scacciato dalla sua patria. In qualche modo, rappresenta il “politicamente corretto” del pensiero dialettico che fa da sottotesto al film: costituzionalista, difensore dei diritti dell’uomo, mai estremista ma piuttosto legalista.
Terzo, grandioso personaggio (o reso tale dall’interpretazione di Marcello Mastroianni) è il già vecchio Giacomo Casanova. Per sfuggire agli scherani del principe di Sassonia che lo vogliono riportare a Dresda, si fa chiamare Cavaliere de Seingalt. Viaggia solo, in una piccola carrozza assieme al servitore/cocchiere. Incrocia casualmente la carovana dei testimoni e dei protagonisti e, da uomo dell’ancien regime, ad un tempo perseguitato e omaggiato da ogni genere di tirannia, sembra voler  impartire una lezione di relatività a tutti i protagonisti impegnati nelle diatribe politiche: “il vecchio mondo sta finendo, ma il nuovo non sarà migliore”. Il fatto che un re, da lui considerato un pessimo re e un pessimo uomo, stia fuggendo travestito da servitore, è il segno più importante: “un re che rinuncia ad essere riconosciuto come tale dal popolo fino a farsi arrestare da un borghese qualsiasi – conclude – è già morto.”  

A ben vedere, in questo racconto frastagliato e frequentemente interrotto da flash storici quasi “documentari” – come se ci fosse stato già il cinematografo – come la ricomparsa di Casanova, alla fine della propria vita che racconta quell’episodio, ci sono altri collegamenti letterari e filmici. Il primo è il racconto di Maupassant, Boul de suife, storia di un fuga dalla guerra (quella del 1870) da parte di un gruppo di borghesi benestanti che finiscono per essere dominati da una ricca prostituta che, inutilmente, tentano di isolare. La cantante lirica godereccia interpretata benissimo da Laura Betti è forse il riferimento più chiaro. Il secondo è, ovviamente, la carrozza di Ombre rosse, rifugio di fuggiaschi che, probabilmente, gli sceneggiatori di Ford hanno assorbito proprio da Maupassant. Ma, se nel film western del 1940, la drammaturgia interna alla carrozza è legata indissolubilmente al pericolo rappresentato dall’assalto dei pellerossa, in Il Mondo nuovo come in Boule de suif, i personaggi sono contemporaneamente distanti dagli avvenimenti storici, ma pur sempre coinvolti. Questa situazione ossimorica (la presenza/assenza), tipica di molte narrazioni belliche indirette – molte parti di Guerra e Pace hanno questo andamento narrativo e soprattutto drammaturgico – è, probabilmente, e a rischio di altre sovra interpretazioni, anche un’allegoria della situazione italiana della fine degli anni Settanta, caratterizzata dalla fine della contestazione e dalla prevalenza di un “terrore” che certo non fu quello rivoluzionario ma che mise in crisi la certezza della vecchia generazioni di comunisti o di uomini di sinistra alla quale apparteneva Ettore Scola. La cattura, il processo e la morte di Luigi XVI sono un cronòtopo che guarda anche al futuro: la fine di un’epoca, già timidamente accennata in C’eravamo tanto amati e quindi provocatoriamente dichiarata in La terrazza. I piedi dell’invisibile Luigi XVI sono già gli scorci del prigioniero Aldo Moro nel film  di Bellocchio Buongiorno Notte.
Al di là di ogni paragone di tipo politico, Scola sembra dire – come Casanova/Mastroianni – che la fine di un’epoca si annuncia attraverso dettagli non interpretabili se non con il senno di poi.

28 aprile 2017