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Italiani a Venezia

di Massimo Spiga

Festival di VeneziaL’annuale pellegrinaggio a Venezia per il festival del cinema, come sempre, riserva ricche esperienze estetiche e culturali per i cinefili e per gli operatori del settore a tutti i livelli;  essere testimoni del meglio dell’intera produzione mondiale, in un luogo libero dalle distrazioni della vita quotidiana, è un vero e proprio privilegio che, chiunque ami il cinema, dovrebbe assaporare almeno una volta nella vita.

Anche quest’anno, la visione di questo sconfinato panorama cinematografico ha rivelato una manciata di tematiche dominanti le quali paiono percorrere l’attuale zeitgeist culturale dell’occidente: nello specifico, l’immigrazione, la criminalità organizzata e la vecchiaia. Ciascuno di questi grandi argomenti è stato analizzato da una pluralità di film, attraverso diversi punti di vista e con varie tonalità emotive.
Inoltre, in questa edizione del festival, la presenza italiana è stata straordinaria sia nella qualità artistica sia nel pregio del processo produttivo. Non solo abbiamo visto opere esteticamente elevate, divertenti, coinvolgenti, profonde, ma film realizzati da team di professionisti, efficaci e organizzati; quest’ultimo elemento non è secondario, perché dimostra quanto cruciali siano tutte le infrastrutture cinematografiche (scuole di cinema, film commission, associazioni culturali e via dicendo), molto più importanti del “talento” di un singolo autore. Iniziamo con una carrellata delle opere italiane imperdibili che, auspicabilmente, delizieranno le italiche pupille nei mesi a venire.

''Ammore e malavita''Ammore e malavita (Manetti Bros). Per quanto possa sembrare un concept improbabile, l’idea di realizzare un avventuroso musical sulla camorra si è rivelata un trionfo. Ammore e malavita racconta dello squinternato piano di un boss locale per andare in pensione attraverso un finto funerale e dell’amore “impossibile” tra uno dei suoi sicari e la testimone di un delitto. Il film è raccontato con toni volutamente grotteschi e fa uno straordinario uso dei tropi narrativi del cinema trash, risultando in un’ opera, la quale, non solo fa rotolare in terra dalle risate, ma coniuga in maniera intelligente e profonda il folklore, il neomelodico e l’estetica hollywoodiana e li usa per analizzare i tanti problemi della povertà e della criminalità (e della spettacolarizzazione delle stesse) in Italia. Come dicono i Manetti: «Se l’anno scorso c’era La La Land, questa è Na Na Land». Segnaliamo, nel cast, la presenza di un sardo: Michele Badas, il quale ha guidato i droni per le molte inquadrature aeree dell’opera.

''Gatta cenerentola''Gatta Cenerentola (Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone). Come per l’opera dei Manetti, siamo innanzi a un film d’animazione il quale, per certi versi, può essere considerato un miracolo. Nonostante sia stato realizzato da una squadra piuttosto ridotta e con un capitale anch’esso ristretto, può competere con (e di certo superare) la maggior parte delle faraoniche produzioni statunitensi. Anche in questo caso, la storia si svolge a Napoli, e le dinamiche camorristiche sono usate come chiave di lettura per riproporre una versione fantascientifica della novella seicentesca di Basile. Il protagonista, il poliziotto Gemito, dovrà infiltrarsi su un enorme yacht nel porto di Napoli per sventare le trame di un boss, “Il Re”, e salvare (o essere salvato da) una neo-Cenerentola appartenente a un altro clan. Anche in questo caso, l’uso della musica folk (proiettata verso il futuro e non fossilizzata nella tradizione) è un elemento cruciale del film e costituisce uno dei suoi elementi più importanti.

''L'ordine delle cose''L’Ordine delle Cose (Andrea Segre). Alla sua terza opera non documentaristica, il regista ci offre uno dei migliori  lungometraggi sull’immigrazione che siano mai stati realizzati negli ultimi tempi. Raccontando la missione in Libia di un funzionario di polizia, incaricato di ampliare un campo per migranti (ovvero un campo di concentramento), L’Ordine delle Cose eccelle proprio perché non lascia che il sentimentalismo o la retorica appanni la sua lucida e cruda descrizione di come funziona un sistema. Flussi di carne umana, flussi di capitale, faide tribali, violenza barbarica, indifferenza neoliberale: l’intero funzionamento della “macchina” dell’immigrazione è disvelato, e il regista lascia che sia lo spettatore a trarne le conseguenze.

''La vita in comune''La Vita in Comune (Edoardo Winspeare). In un racconto corale ambientato nella cittadina pugliese di Disperata (ovvero Depressa, la minuscola frazione di Tricase in cui abita il regista), assistiamo alle vicende di un rapinatore la cui vita è salvata dalla poesia, di un sindaco introverso il quale lotta contro l’edificazione di un mostro ecologico, di un bandito con una speciale venerazione per Papa Francesco e di molti altri abitanti, tutti dipinti con un amore agrodolce. Nonostante sia un film estremamente divertente, La Vita in Comune affonda le mani nei profondi problemi sociali dei piccoli centri, che, soprattutto in questi anni, stanno venendo cannibalizzati dai processi di accentramento e di sfruttamento del grande capitale; eppure, lo fa in maniera costruttiva, idealistica, senza lasciarsi andare dalla disperazione nichilistica capace di avvelenare così tanti film “impegnati”.

''The Leisure Seeker''The Leisure Seeker (Paolo Virzì). La produzione americana di Virzì è forse una delle sue opere più riuscite. Racconta della fuga di due anziani, a bordo di un vecchio camper (che dà il titolo al film), con l’obiettivo di raggiungere la casa di Hemingway. Donald Sutherland interpreta il marito, la cui mente è in rapida disgregazione, mentre Helen Mirren impersona la moglie, una donna divorata dal cancro. The Leisure Seeker fa suoi tutti i topos dei classici road movie (dalla musica alle avventure pindariche), reinventandoli in funzione del particolare status dei protagonisti, colmi d’amarezza e di acciacchi, eppure determinati a condurre a modo loro quanto gli resta da vivere. La sceneggiatura è brillante, le interpretazioni sono monumentali, la regia è perfetta.

''Il contagio''Il Contagio (Matteo Botrugno, Daniele Coluccini). I due giovani registi avevano già avuto modo di stupire con il loro Et In Terra Pax, un film che, seppur girato con i proverbiali cinque euro, aveva svettato alla 67° Mostra del Cinema di Venezia come una delle opere preferite dal pubblico.
Il Contagio, basato sull’omonimo libro di Walter Siti, racconta la vita di un condominio delle borgate romane nei giorni di Mafia Capitale. Nella sua prima parte, introduce alla vita e alle traversie di una pluralità di personaggi sul filo di rasoio tra sottoproletariato e criminalità organizzata mentre, nella seconda, ci mostra l’ascesa e la caduta di alcuni di essi. Questo film è stato paragonato all’estetica pasoliniana, per la sua attenzione e l’amore, sempre libero dal cinismo, con cui mostra delle vite di uomini e donne già perdenti in partenza, in un mondo costruito per schiacciarli.

''L'equilibrio''L’Equilibrio (Vincenzo Marra). Nonostante il focus della sua vita artistica sia il documentario, Marra ha prodotto anche ottime prove registiche in ambito narrativo (ad esempio, La Prima Luce). Ne L’Equilibrio ci viene raccontata la storia di un prete il quale, stanco della piatta routine romana, decide di farsi trasferire nel suo paese natio, un’anonima periferia nella “terra dei fuochi”, per far sì che la sua vocazione si possa esprimere anche sul piano sociale e non solo su quello liturgico. Il protagonista, giunto in una nuova (e nel contempo vecchia) realtà, dovrà scontrarsi contro un’ intera comunità, un sistema, che ha trovato il suo punto d’equilibrio in una grigia e sordida pax mafiosa; il suo obiettivo sarà quello di infrangere questo equilibrio.
Scarno ed essenziale, in linea con l’estetica di Marra, L’Equilibrio ci offre una storia realistica, capace di far furiosamente ragionare lo spettatore su un contesto sociale in cui ogni scelta è dura e nulla è come appare. L’iniziale spunto narrativo, ovvero la basilare idea del prete “buono” che va a civilizzare i paesani “cattivi”, omertosi e vigliacchi, viene spazzata via quasi subito, lasciando spazio a un complesso sociale di sfumature di grigio, di complessità inestricabili, di vuoto culturale, esistenziale e materiale, i quali orbitano intorno ad un buco nero centrale e ineludibile: la scomparsa dello Stato.

In conclusione, questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia ha trionfato sia sul punto di vista della qualità delle opere che della presenza del pubblico, in continua ascesa. L’enorme qualità delle produzioni italiane, spesso indipendenti, ci mostra, inoltre, la vitalità della nostra vita culturale nazionale; è particolarmente importante sottolineare questo dato, che potrebbe sembrare scontato, alla luce della recente legge sul cinema del ministro Franceschini. quest’ultima appare come uno strumento cinico, costruito su misura sugli interessi delle grandi case di produzione, mirato a radere al suolo tutto ciò che non sia commercio di bassa bottega; ovvero gli indipendenti, il cinema “difficile” (il quale, come abbiamo visto, non è affatto difficile e, anzi, spesso intrattiene molto più del mainstream – ma lo fa in maniera costruttiva e non passivizzante), le associazioni cinematografiche e, in essenza, tutto ciò che costituisce il cuore pulsante della nostra vita culturale.

11 settembre 2017