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Percorso

Storia e politica, visibile e invisibile, nel cinema dei paesi totalitari. Est europa comunista e Spagna franchista.

''Gli amori di una bionda''

Memorie d’oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

L’asso di picche (1964) Gli amori di una bionda (1965) di Milos Forman - Ingenui perversi (1960) di Andrej Wajda - La ballata del boia (1963) di Luis Garcia Berlanda - La caccia (1966) di Carlos Saura - Lo spirito dell’alveare (1973) di Victor Erice - Le lunghe vacanze del ’36 (1975) di Jaime Camino

Sui titoli di testa di Gli amori di una bionda appaiono il volto e il corpo di una ragazza, quasi un’adolescente, che, accompagnata da una chitarra, canta un delicato inno amoroso alla sua metà, compagno o compagna. L’ambiguità della dedica, che dovrebbe commentare uno strip-tease intimo, si chiarisce nella prima sequenza: due ragazze sono nello stesso letto e si confidano affettuosamente i loro segreti.

''Gli amori di una bionda''Restaurato e riportato alla sua versione originale del 1965 dalla Cineteca di Bologna, la pellicola di Milos Forman è stata presentata in anteprima al Bergamo Film Meeting del marzo scorso è poi transitata nelle sale italiane grazie ad una iniziativa di cui ho parlato spesso: “Il cinema ritrovato”,  ospitata a Cagliari dal Greenwich d’essai.
In questo caso, il “ritrovamento” è soprattutto una questione memoriale e non materiale. Infatti,  dopo la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia del 1965 e la candidatura agli oscar, il film ebbe una regolare programmazione nelle sale italiane e, successivamente, fu una presenza fissa nei programmi dei cineclub e dei cineforum. Però, nell’edizione italiana, l’ambiguo canto amoroso dell’esordio fu sostituito con il celebre brano di Caterina Caselli, Nessuno mi può giudicare, inno della “gioventù bruciata” di quegli anni. La canzone e la sua autrice garantivano un approccio universalistico ad un film che aveva una trama quasi da commedia all’italiana. Eppure la pellicola di Forman ha uno stretto legame con la cultura letteraria e teatrale praghese: ironica, sarcastica e forse persino feroce nei suoi sorrisi forzati. Un atto di resistenza, presente anche nei primi racconti di Milan Kundera, nei confronti delle  burocrazie oppressive e dittatoriali che, a parte il breve periodo tra le due guerre mondiali, hanno dominato l’orizzonte politico e culturale di quel territorio per buona parte dell’Ottocento e del Novecento.

''Gli amori di una bionda''Ed eccoci alla sintetica trama: Andula, la protagonista femminile, lavora in un’azienda tessile. Centinaia di operaie, giovani e meno giovani, sono dovute emigrare in una città-fabbrica e si annoiano. Pochi sono i ragazzi  – e Andula ha appunto un flirt con uno di questi giovani, non troppo raccomandabile  – e la direzione si rivolge alle autorità praghesi affinché trasferiscono in quelle zone dei reparti militari, in maniera da poter organizzare, nei fine settimana, delle serate danzanti.  Ma già alla prima festa, ospitata nella hall dell’unico albergo del paese, le ragazze scoprono che i soldati sono degli uomini attempati e quasi tutti sposati.  L’unica persona che attira l’attenzione della protagonista è un giovane pianista, Milda, che, approfittando del gioco degli equivoci tipico di ogni festa,  finisce per portarsela a letto, lasciandole poi un indirizzo e il solito messaggio: “vieni a trovarmi a Praga”.
Nel successivo fine settimana, Andula trascina la sua pesante valigia fino alla capitale, forse convinta di non tornare più alla città/fabbrica . Arriva a casa di Milda la sera tardi. Non lo trova – il ragazzo si esibisce in una ennesima serata danzante – e, poiché è ormai notte, il padre del ragazzo, sia pure ostacolato dalla possessiva madre,  si offre di ospitarla. Mugugnando,  le prepara il letto nella stanza del figlio. Quando Milda ritorna a casa, viene costretto dalla madre a dormire nel lettone matrimoniale con i genitori. Seguono battibecchi continui che l’ormai disillusa ragazza riesce ad ascoltare avvicinandosi alla porta della camera da letto. Non le resta che riprendere la sua valigia e tornarsene alla città/fabbrica, dove però racconterà alla solita amica di aver conosciuto i genitori di Milda, entrambi gentilissimi. Forse accadrà qualcosa: questo è il messaggio rassicurante per le colleghe e le amiche che vorrebbero anch’esse fuggire.

''Gli amori di una bionda''Lo sviluppo narrativo e drammaturgico di Gli amori di una bionda potrebbero ricordare  la commedia italiana. In particolare i film “al femminile” di Antonio Pietrangeli, che, appunto, raccontano le fughe dalla  provincia di ragazze che sognano la metropoli (La parmigiana, Io la conoscevo bene) e finiscono per esserne deluse, se non “disastrate” fino ad arrivare al suicidio o alla prostituzione. Ma ogni cultura nazionale, e ovviamente, ogni autore, ha la sua poetica, le sue forme e il suo stile. Quello di Forman è quasi sempre sommesso, a sottrarre, ad alludere, se non nello scoppiettante dialogo a tre, sul lettone, tra genitori e figlio, un vero e proprio pezzo teatrale che sembra volere chiudere in crescendo una sorta di sonata. Il primo tempo/presentazione propone i temi principali, mescolando intimismo patetico, fin dalla canzone iniziale, e vera e propria opera buffa: la scena dell’albero a cui viene legata una cravatta – dono di Andula al suo fidanzato – non è più assurda e surreale del dialogo tra i funzionari sulle necessità fisiologiche delle ragazze. Poi, la parte centrale e l’intermezzo sentimentale e poetico della scena d’amore, sviluppano due dei temi iniziali: l’inevitabile contrasto tra le generazioni e il possibile punto d’incontro tra due diversi romanticismi. Infine, il finale, pur scoppiettante, finisce per chiudere un cerchio di solitudini che domina tutto il film. Le alternative ad un mondo tristissimo, diviso tra il moralismo della madre di Milda e la rassegnazione del padre, sono semplicemente la vitalità debordante del loro figlio e la patetica esaltazione sentimentale di Andula.

''Gli amori di una bionda''Nel 1965, quando il film uscì nelle sale cecoslovacche, e con molto successo, certamente agevolato dalla buona accoglienza alla Mostra del cinema di Venezia, mancavano poco più di due anni all’esplosione della breve Primavera di Praga (Gennaio-Agosto 1968) che vide una straordinaria libertà  e un ricambio dirigenziale che trovò il suo punto di riferimento nel presidente Dubcek, poi rimosso dai carri armati sovietici. Pure, il mondo letterario, teatrale  cinematografico di quel paese esprimeva già da diversi anni forme e valori nuovi che non appartenevano solo a Forman ma a tutta la generazione post bellica. Non a caso, quando nel 1994, il festival Cinema Giovani di Torino dedicò una bella retrospettiva alla Nova Vlna – ovvero la “nouvelle vague” locale – si poterono vedere molti film che raccontavano storie analoghe a quelle del film di Forman, cioè legate ad una silenziosa ma fortissima rivolta anti autoritaria e anti burocratica non dissimile da quella in corso nei paesi occidentali.
Come misura di questa specifica contestazione giovanile converrà “esibire” una frase di condanna del film, tratta da una rivista della Gioventù comunista dell’URSS:  “Il suo – di Forman n.d.r. – odio patologico per la gente semplice non è misantropia (…) L’obbiettivo della sua cinepresa è diretto contro la classe operaia cecoslovacca (…).” Con questa citazione siamo già al non visibile, ma pure esistente, nodo politico di certi film provenienti dai paesi in cui la libertà di espressione è molto limitata se non cancellata totalmente.
Prescindendo dalle diverse posizioni critiche, l’obbiettivo della stampa sovietica ipotizzava la necessità di normalizzare la produzione culturale dei paesi comunisti, nei quali il cinematografo,  ma anche il  teatro o la letteratura, erano stati in grado, per tutto il dopoguerra, non già di fare opposizione ma piuttosto e semplicemente di alimentare un’opinione pubblica non allineata e capace di raccontare, anche in maniera sentimentale, ma non solo, l’irrequietezza delle giovani generazioni

''L'asso di picche''Furono i cosiddetti paesi satelliti, in particolare, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Ungheria, ad esprimere delle culture nazionali che, già abbastanza sviluppate nel corso della loro storia secolare, avevano continuato a produrre “immaginario”, con o senza l’approvazione dei nuovi vertici politici post bellici.  Così, per tornare al cinema, proprio questi quattro paesi espressero fino alla fine degli anni Sessanta, alcuni dei maggiori talenti registici del cinema mondiale:  Wajda, Polanski, Skolimowski in Polonia; Forman, Passer, Menzel, Chytilova, Jakubisko in Cecoslovacchia; Szabo, Jancso, Sandor, Szomjas; Kovács, Huszárik, Tarr, Gothár in Ungheria; Makavejev, Pavlovic, Paskalevic in Jugoslavia. Paradossalmente, in quei paesi, il Sessantotto, simbolizzato non già dalla rivolta giovanile ma dall’invasione di Praga da parte delle truppe sovietiche, chiuse il ciclo libertario di questi autori oggi considerati degli autentici innovatori e sperimentatori, più di quanto non fossero i mitizzati e amatissimi francesi della “nouvelle vague”.
Ma poiché, sia a Praga che a Budapest e Varsavia, nonché nei vari centri produttivi della Jugoslavia, erano sorte scuole di cinema prestigiose, è anche da questa corrente creativa mai soffocata interamente e visibile quasi sempre nei festival internazionali, che nasceranno, non molti anni dopo, altri grandi autori come Zanussi, Kieslowski o Kusturica.

''L'asso di picche''Il caso cinematografico Est Europa è così diventato quasi un manuale utili ad analizzare il rapporto tra cinema e storia in maniera  non puramente evenemenziale, visto che non potevano esserci film politici in senso stretto e nemmeno legati alla cronaca, secondo quando si vedeva negli stessi anni in Italia o, in genere, nei paesi occidentali. Il linguaggio filmico allegorico, metonimico, simbolico, allusivo – cioè appartenente alle avanguardie – era una sorta di strada maestra che, al di là delle estetiche personali dei registi, serviva  ad evocare una silenziosa rivolta  che metteva in crisi la società dei padri, così rassicurante, così tradizionale sul piano del costume e della morale, da poter pensare che il comunismo non avesse affatto cancellato le stratificazioni sociali, morali, religiose, vecchie di secoli. Difatti,  nell’opera prima di Forman, L’asso di picche (1963), un’altra madre, dopo aver scoperto che il figlio adolescente ha nascosto la riproduzione di un celebre quadro nel quale è raffigurata una donna nuda, si rivolge al marito dicendo che i nuovi governanti (comunisti, ma lei non cita affatto il regime in termini diretti) avevano promesso una rigida moralità nei comportamenti sociali. Il che, ovviamente, dovrebbe impedire che si diffondano simili immagini licenziose. Questo frammento è, seppure sottilmente, già politico e spiega appunto le critiche della rivista sovietica nei confronti del più celebre regista ceco.

''L'asso di picche''Il contraltare direttamente ribellistico del “nato stanco” di L’asso di picche, del pacato romanticismo di  Andula e dell’anarchismo esistenziale e amoroso di Milda, sta però nel lungo ciclo polacco degli stessi anni, che ha inizio con un film a due mani del già famoso Wajda e del giovanissimo Skolimowski (Ingenui perversi), prosegue con i minacciosi e surreali corto e medio metraggi di Polanski (Rovineremo la festa, Due uomini e un armadio, Il coltello nell’acqua), e si conclude con la celebre tetralogia para autobiografica dello stesso Skolimowski: Segni particolari nessuno (1964), Walkover (1965), Barriera (1966), e soprattutto Mani in alto (1968), film che anticipa persino il teatro della memoria  di Kantor e che costò la carriera e l’esilio al più dotato e al più ribelle di quella generazione di cineasti.
Questa stagione felice  è raffigurata in Ingenui perversi come già consumistica, cioè borghese, legata a segni molto precisi di appartenenza sociale, ad esempio la Lambretta.  In Italia, come è noto, segnò una sorta di accesso al benessere  da parte del proletariato; nei paesi comunisti, il cui benessere, quando esisteva, era certo meno eclatante rispetto ai paesi occidentali, veniva usata, come mostra appunto la pellicola di Wayda,  dai giovani medici e laureati in genere, cioè la futura classe dirigente. Sempre nello stesso film, anche altri segni sono importanti: ad esempio la musica jazz,  mito della gioventù bruciata americana; una vita notturna brillante e soprattutto la disinvoltura sociale e sessuale delle ragazze. 

''L'asso di picche''Ovviamente, il discorso sulla leggibilità delle società dell’Est Europa comuniste attraverso il cinema non è così semplice come appare nelle poche righe precedenti. Il rischio è sempre la sopravalutazione degli indizi e delle allegorie: entrambi cercano di “dribblare” le censure, che però restano. E non a caso, se anche oggi, forse ingenuamente, ci stupiamo di questa ricchezza creativa proveniente da paesi in cui la libera circolazione delle idee era, a dir poco, problematica, e riguardava non tanto le arti ma la stampa e la pubblica manifestazione del dissenso politico, dobbiamo  ricordare che uno dei grandi obiettivi del “comunismo realizzato” fu anche quello di sviluppare le arti e di essere un centro di sviluppo creativo che portasse ad un sentimento nazionale  ampio. Così non c’è da stupirsi se, accanto alla tradizione musicale e di danza dell’Unione Sovietica, mutuata dal passato, molto apprezzata in occidente e talvolta “scivolata” oltre le maglie del controllo poliziesco che impediva agli artisti di lasciare l’URSS, troviamo un primato teatrale in Polonia (Kantor ma anche Grottowski e il Ian Kott, studioso dello Shakespeare “nostro contemporaneo”), una grandissima tradizione grafica e, come ho già scritto, una cinematografia mai interamente soffocata dalla censura. Solo che, proprio in campo cinematografico, mezzo di comunicazione culturale popolarissimo, accanto ad un’ampia disponibilità a coltivare l’arte creativa, sia pure con i copioni tenuti sotto controllo, vi era una sorta di separazione tra la possibilità che certe opere varcassero i confini per approdare ai festival internazionali e magari circolassero in occidente e, per contrasto, rimanessero fermi nei magazzini dei paesi che li avevano prodotti.

Al grandissimo Tarkovskij, figlio di un celebre poeta russo-sovietico, mai sfiorato dalla censura, accadde proprio questo, così come all’indimenticabile armeno Paradjanov e ad altri autori provenienti dalle repubbliche sovietiche come la Georgia e l’Armenia, le cui opere si potevano vedere, appunto, nei festival o nei cinema d’essai parigini.
In ogni caso, proprio per dimostrare la difficoltà di certe letture, questo scritto, oltre alla riapparizione  del film di Forman, deve molto anche ad un esperimento da me compiuto, almeno dieci anni fa, in un corso di formazione per insegnanti di scuola media superiore. Il tema era appunto il cinema del dopoguerra e i suoi rapporti con la storia e la cultura dell’epoca. Ebbi una completa autonomia nella scelta dei film e, per rappresentare  l’inquietudine giovanile, scelsi Gli amori di una bionda e, un po’ provocatoriamente, decisi di presentare la pellicola senza testa e coda, cioè togliendo le informazioni su regista e produzione. Certo, con un po’ di attenzione, si sarebbe potuta notare la carta geografica della Cecoslovacchia e persino qualche scritta in lingua ceca, ma nessuno dei presenti aveva mai visto il film e dunque si concentrò sulla storia. Nella discussione successiva svelai finalmente l’arcano e molti si stupirono: non era possibile che quella gioventù descritta da Forman, nonché quella famiglia, fossero così simili – fino ad essere sovrapponibili – ai giovani e alle famiglie che venivano “messe in scena”, negli stessi anni, nelle società occidentali e soprattutto in Italia.

''Ingenui perversi''La constatazione di una vita sociale “normale”, purché non apertamente oppositiva, non è ovviamente applicabile solo al mondo comunista ma, come ho già scritto, a tutti i mondi senza libertà e senza democrazia. Se nel corso degli anni sono stati effettuati studi sia sul cinema del periodo fascista e nazista, tendenti a mettere in luce proprio il visibile e l’invisibile sociale e antropologico di quei regimi, un caso quasi unico riguarda però la Spagna franchista e,  di nuovo, per analizzare i pochi film nei quali si può osservare una sorta di simbologia o di allegoria oppositiva/contestativa, occorre sintetizzare un percorso storico particolare.
Reduce da una guerra civile spaventosa (1936-1939), la Spagna di Franco, dal 1940 al 1945, riuscì a barcamenarsi tra la neutralità – forzata dalla paura di ritorsioni da parte degli alleati – e l’aperta simpatia nei confronti dell’asse nazifascista. Inoltre, sul fronte interno, la riunificazione del paese non fu mai pacifica ma costruita su una repressione ferocissima e sulla costante emigrazione  verso la Francia degli ex repubblicani che avevano paura di finire in carcere o di essere fucilati come traditori.
Con la fine della guerra, il paese pagherà la sua lealtà alla Germania e all’Italia e fu completamente isolato, fino ad essere respinto, per ben otto anni, dalla nascente Organizzazione delle Nazioni Unite.  Fu “salvato”, a metà degli anni Cinquanta, dagli  Stati Uniti i cui governanti decisero di investirvi ingenti risorse in cambio di basi militari che avrebbero aumentato la dissuasione armata dell’Europa nei confronti dell’Unione Sovietica.
Sul piano politico interno, però, nulla cambiava: la Spagna restava un dittatura retta da un uomo solo e dalla sua corte. Poi, lentamente, il clima interno cominciò ad apparire meno chiuso, soprattutto nei confronti delle influenze culturali esterne. Infine, grazie agli investimenti statunitensi e poi europei, il paese uscì lentamente dalla miseria secolare e dai disastri visibili della guerra civile. Non a caso, dalla fine degli anni Cinquanta ha inizio un’inevitabile, dati i trascorsi storici del paese, riscoperta culturale e turistica della Spagna.

''Ingenui perversi''Questa riscoperta avrà un testimone eccezionale: Orson Welles. L’attore e regista non solo la scelse come “buen ritiro” – le sue ceneri sono sepolte in Andalusia – ma, nel 1961, ideò e diresse un lungo documentario in nove puntate, Nella terra di Don Chisciotte,  coprodotto dalla Rai che lo mise in onda qualche anno dopo. Quel lavoro esplorativo  fu anche la base per il celebre film mai finito, ma egualmente visibile in diverse versioni DVD: Don Chisciotte.
Un altro ospite attratto dalla mescolanza di storia, cultura, tradizione e modernismo forzato delle grandi città spagnole, fu l’italiano Marco Ferreri che, quasi casualmente, girò a Madrid i suoi primi tre film, Lo chicos, El Pisito, El cochecito. Lo sceneggiatore delle tre opere fu Rafael Azcona, che faceva parte di una sorta di “nouvelle vague” iberica (gli altri nomi, anch’essi famosi, furono Luis Berlanga, Carlos Saura e Javier Bardem), i cui punti di riferimento erano i film neorealisti italiani, certamente depurati da ogni tentazione politica. Il realismo spagnolo degli anni Cinquanta era più vicino alla commedia o al primo Fellini.

''Ingenui perversi''A quest’ultimo è certo debitore Calle Major (1956) di Bardem, storia di alcuni “vitelloni” che scommettono sulla conquista di una bella e già matura signorina che passeggia ogni pomeriggio per le strade del centro di Madrid. Un “film alla Zampa” – abbastanza corrosivo nella sua ironia – è invece Benvenido Mr. Marshall (1953) di Berlanga, che racconta i preparativi, inutili, per il passaggio della delegazione americana (di cui dovrebbe far parte, nell’immaginario popolare, il celebre generale Marshall, ideatore e direttore dell’omonimo piano che, nell’immediato dopoguerra, organizzò gli aiuti economici e alimentari all’Europa) in un piccolo paese della Castilla. Questi e altri film simili furono ben accolti dal pubblico e tollerati dall’autorità che aveva bisogno di pubblicità positiva in campo internazionale. Così come capitava nei paesi comunisti dell’est Europa, la presenza delle pellicole nei festival internazionali diventava un vero e proprio atto di diplomazia. E non a caso, il decennio del timido rinnovamento si chiuse con il caso Viridiana , film che  Buñuel girò nel proprio paese natale dopo un esilio professionale durato quasi trent’anni. Criticato in fase di lavorazione dagli antifranchisti,  Viridiana –  tra i film più belli e significatici dell’intera opera del regista  – divenne una sorta di bomba comunicativa antifranchista.

''La ballata del boia''Dopo aver ottenuto la Palma d’oro a Cannes nel 1961, il film venne severamente criticato come blasfemo dall’Osservatore romano. A seguire il governo spagnolo ne bloccò la circolazione nel paese e silurò  il funzionario governativo che aveva consentito una simile provocazione. Insomma, un vero e proprio  sabotaggio nei confronti della cultura franchista che lascerà tracce profonde all’interno del mondo intellettuale spagnolo, senza che né il regista, né i produttori, avessero sospettato in anticipo di creare un simile scandalo. Dieci anni dopo, nel 1970, Bunuel poté girare a Toledo un altro film, Tristana,  politicamente molto più forte, senza suscitare alcuna protesta: il regime, in fase di collasso progressivo, aveva altre gatte da pelare.
Ma, con tutte le presunte e difficili liberalizzazioni, nonché  gli ammiccamenti nei confronti degli intellettuali e degli artisti, c’era un argomento che non si poteva assolutamente affrontare ed era, ovviamente, la guerra civile: un’epoca di divisione nazionale cruenta che aveva lasciato tracce profonde nella società.
Anche sul fronte della propaganda franchista, si può citare un solo testo che esalta la guerra: il film Raza, diretto nel 1942 da Josè Luis Saenz de Heredia, basato sulla biografia di Francisco Franco scritta da lui stesso sotto falso nome.

La “Raza” del titolo è, ad un tempo, la stirpe familiare del caudillo e l’hispanidad – vera o falsa, o meglio di antico lignaggio o di semplice gloria militare – che portò alla vittoria contro i cosiddetti “falsi spagnoli” riuniti nell’esercito repubblicano.
Nel campo opposto, altresì, dopo il celebre film di Sam Wood, Per chi suona la campana (1942), tratto dal romanzo di Hemingway, occorrerà attendere fino al 1964 per mostrare i residui sanguinosi della guerra trasfusi in una pellicola. Il film è E venne il giorno della vendetta, di produzione americana indipendente ma girato e ambientato nei Pirenei francesi, dove appunto si erano rifugiati molti ex combattenti repubblicani. Il regista  era Fred Zinneman e  il soggettista Emeric Pressburger, euro-americani. Gli interpreti decisamente hollywodiani: Gregory Peck e Anthony Quinn. Il titolo originale  è Behold a pale horse, ovvero intravedere un cavallo pallido: la morte. E ciò che attende l’ex comandante repubblicano interpretato proprio da Gregory Peck, rifugiato in un paesino  a due passi da Lourdes.  Oltre il valico, nella cittadina spagnola in cui vive ancora la vecchia madre, lo attende il suo nemico giurato, il capitano di polizia interpretato da Anthony Quinn. Il repubblicano è tuttora un militante che spesso compie azioni di disturbo in Spagna e il suo nemico approfitterà della malattia della madre per tendergli una trappola.

''La ballata del boia''Il film va segnalato per la quasi unicità di una pellicola di rilievo internazionale che riprende il tema scottante della guerra civile, ovvero del duello mortale tra due spagnoli, quasi volesse spronare l’opinione pubblica europea alla ripresa d’attenzione verso un paese, ben radicato nella storia europea, ma ancora immerso nella dittatura. Di lì a pochi anni, un film di Alain Resnais, La guerra è finita (1966), scritto da Jorge Semprun, esule, poi prigioniero politico a Matthausen , militante antifranchista dai tanti nomi che nel dopoguerra, faceva da corriere tra la Francia e la Spagna; infine ministro della cultura del primo governo socialista del dopo Franco, quello di Felipe Gonzales, eletto nel 1988.
La guerra è finita è una sorta di autobiografia dello scrittore – interpretato da Yves Montand – che, ancora in clandestinità,  si chiede se l’idea di una sollevazione popolare contro la dittatura non fosse ormai che un’illusione, visto che la Spagna e le giovani generazioni non avevano più le idee rivoluzionarie  dei loro padri. Però è curioso scoprire – grazie a Fuori Orario – che nel 1970, nella Spagna apparentemente stabile e senza memoria, fu però girato un film, Contactos, di Paulino Viota, nel quale venivano raccontate, attraverso un minimalismo straubiano, le esistenze di tre giovani antifranchisti sulle cui tracce si sono già messi gli agenti del regime. Insomma, l’antifranchismo interno era ancora un argomento possibile, almeno sul piano finzionale, ma poco praticabile all’interno di una vasta platea culturale e politica.

''La ballata del boia''Lo stesso anno, un altro celebre esule, Fernando Arrabal, girava in Francia Viva la muerte, ambientato durante la guerra civile e parzialmente autobiografico. Quel film e soprattutto la sua continua attività di propagandista anti regime particolarmente efficace gli valsero una condanna a morte in contumacia, pena, fortunatamente mai eseguita ma confermata con l’altra sua opera, L’albero di Guernica (1975), di produzione italiana, uscito poco prima della morte di Franco e basato sul bombardamento nazista del paesino spagnolo che ispirò anche Picasso.
Per poter analizzare, seppure sommariamente, i pochi titoli di produzione autoctona che, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta della fine del franchismo, hanno raccontato allegoricamente la guerra civile, occorre ripartire proprio dal quel titolo apparentemente provocatorio di Arrabal, “Viva la muerte”.
A metterla per primo in circolazione fu un generale ribelle che, all’inizio della guerra civile,  interruppe un discorso accademico di Unamuno, rettore dell’Università di Salamanca, neo oppositore del franchismo a cui aveva aderito alcuni mesi prima, con la frase “Abbasso l’intelligenza, viva la morte”. “Viva la muerte”  divenne poi il motto del terribile Tercio marocchino, composto in larga parte da arabi e berberi, in una sorta di legione straniera che si rese celebre per massacri spaventosi.

È dallo stesso motto che si può partire per un lungo viaggio attraverso la mitologia negativa della Spagna,  diffusasi soprattutto dopo il declino della potenza spagnola, o meglio degli Asburgo spagnoli che, rimasti senza eredi al trono, dopo la guerra di successione (1701-1715), videro il proprio regno passare nelle mani di Filippo V di Borbone, nipote di Luigi XIV, e i suoi grandi possedimenti europei divisi tra le  potenze rivali. Progressivamente, complici il secolo dei Lumi e la successiva stabilizzazione e statalizzazione delle varie correnti protestanti che dominavano l’Europa del Nord, la Spagna fu considerata  la terra della feroce tirannia, dell’Inquisizione, dello schiavismo d’oltremare e della miseria in patria. Come scrive Daniel Defoe in Robinson Crusoe (1719), riflettendo, nella sua isola, sul diritto alla vita persino dei cannibali, “ Gli Spagnoli (…) hanno distrutto milioni di persone che, per quanto barbare, idolatre, dedite a riti sanguinari del genere di sacrifici umani, erano (…) del tutto innocenti”. Ovviamente, c’è in questo brano, una sorta di indicibile e inconsapevole contrappasso sul piano delle colpe dei popoli europei, visto che lo stesso eroe del romanzo era un possessore di schiavi catturati in Africa e portati a forza nelle piantagioni dell’America Latina.

''La ballata del boia''Ciò che qui ci interessa è, comunque, il fatto che questo ingenuo atteggiamento intellettuale divenne, nel Settecento e poi per tutto l’Ottocento, una sorta di “immaginario” collettivo che si rivela, ironicamente, anche nella celebre apertura di un film di Buñuel, Il fantasma della libertà: un tableaux vivant  ispirato al celebre quadro di Goya,  Le fucilazioni del tre maggio, ispirato alla resistenza dei soldati spagnoli di fronte all’invasione napoleonica. Nella versione originale della pellicola un patriota  grida “viva le catene”, scegliendo paradossalmente la propria nazione povera e schiava contro il “fantasma della libertà” imposto dalle armi straniere. La Spagna, insomma, era vista come un luogo di eterne e orgogliose catene, sorta di palinsesto sopra il quale, da Schiller e poi Verdi (Don Carlos) fino a Beethoven (Fidelio) e poi Melville (Benito Cereno) e  Dostoevskij (La leggenda del santo inquisitore), si esibirono, e con grandi risultati, gli artisti del nord Europa, del Nuovo mondo americano e persino della Russia autocratica ma anti cattolica che vedeva nel Papa e nell’Inquisizione, l’anticristo.
Il paradosso è che, da un lato, questa mitologia negativa espandeva il proprio disprezzo nei confronti di tutta la storia moderna della Spagna, almeno da Carlo V in poi, cancellando con un tratto di penna i tormenti morali e religiosi del “grande imperatore”, il mecenatismo di Filippo II, il siglo de oro di Filippo IV, Cervantes, il grande teatro dei Tirso de Molina, Lope de Vega e Calderon della Barca, rivali di Shakespeare, nonché i Velasquez, Zurbaran, Murillo, El Greco, Ribeira.
Di tutta la storia e la cultura spagnola, fortunatamente ancora visibili nelle città d’arte e nei musei, restava in piedi l’avello dell’Escorial, appunto una grande architettura mortuaria, quasi un sepolcro per i viventi. E non a caso, in una versione del capolavoro verdiano messo in scena alla Scala, nel 1977, da Luca Ronconi e tuttora visibile negli archivi della Rai, fu criticata proprio la scelta del regista di impostare la costruzione scenica come una sequenza ininterrotta di “trionfi della morte” ispirati alla Controriforma. C’era, appunto, in questa scelta, una sorta di richiamo ai resti della cultura anche bellica basata sulla lunga durata del motto “Viva la muerte”.

''La ballata del boia''Che questo aspetto sia stato storicamente importante o puramente mitologico, costruito prevalentemente dagli stranieri, è una questione che, ovviamente, deve essere lasciata agli storici (Braudel, ad esempio, non era affatto d’accordo su questa demonizzazione), ma il motto è rimasto come marchio indelebile della guerra civile, fino a diventare un messaggio nascosto per i pochi registi spagnoli che, proprio negli anni Sessanta e Settanta, hanno osato evocare quel fantasma.
Il primo titolo è paradossalmente una commedia, El verdugo (1963) di Luis Berlanga, meglio conosciuto come La ballata del boia. Fu una coproduzione italo-spagnola,  nata all’insegna di quel rinnovamento – anche nei rapporti con gli altri paesi europei – di cui si è già scritto. Berlanga accettò il suggerimento di un celebre scrittore, Ennio Flaiano, maestro del paradosso, ispiratore del miglior Fellini, per varare un film che, come si è già detto a proposito di Gli amori di una bionda, avrebbe potuto imparentarsi con la commedia italiana. E non a caso, il protagonista, Luis, dipendente di una ditta di pompe funebri,  sposato con la figlia del boia locale – “el verdugo” del titolo originale –  è interpretato da Nino Manfredi. Pressato dalla famiglia, accetta di prendere il posto del suocero, pur di avere uno stipendio sicuro e senza rischi: il suocero lo rassicura sul fatto che le esecuzioni capitali sono ormai cancellate. Come si vede, la morte come dato “rimosso” o rimovibile è di nuovo al centro della memoria spagnolo. La rimozione peraltro è quasi una voluta falsificazione: la garotta – ovvero il lento strangolamento al palo, con tanto di rituale medievale – ebbe i suoi ultimi sussulti anche nel 1975, l’anno della morte di Francisco Franco. Però Luis ci crede e, con il tipico atteggiamento del Manfredi italiano, sempre in bilico tra sicurezza e disastri, si gode il suo stipendio, salvo scoprire, dopo due anni di verginità, che a Maiorca c’è stata una condanna a morte e che, proprio lui deve eseguire la crudelissima sentenza. L’ultima scena vede il protagonista in preda al terrore mentre si appresta a varcare la soglia del carcere.
Il film ebbe un grande successo, fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia, accusato di apologia della pena di morte dalla sinistra, e, per contro, di offendere la civiltà spagnola e le sue istituzioni. Più modestamente lo si può leggere come un apologo sull’inutilità della rimozione, soprattutto in relazione con la familiare presenza della morte nella civilissima società spagnola che tentava di normalizzarsi. Il richiamo ai lasciti velenosi della Guerra Civile non era esplicito ma ci voleva poco per afferrarlo.

''La caccia''Tre anni dopo, Carlos Saura, appena trentenne, affrontò direttamente i fantasmi del triennio bellico con un film, egualmente famoso, La caccia, che circolò anch’esso per festival e per sale d’essai. È la storia di quattro personaggi, tre di mezza età, vicini ai cinquant’anni se non ai sessanta che, si capisce subito, hanno vissuto e preso parte alla guerra civile, ovviamente sul fronte franchista. Il quarto è un ragazzo, nipote di uno di loro, che nulla sa dei trascorsi dei compagni di avventura. Tutto il film è occupato da una battuta di caccia ai conigli che infestano un altopiano calcareo, bianchissimo, scosceso e pieno di grotte e tunnel. La base è un villaggio poverissimo, come se ne potevano trovare ancora alla fine degli anni Settanta, soprattutto in Estremadura. Progressivamente vengono evocati i fantasmi del passato: si accenna al fatto che la zona è stata teatro di cruente battaglie e il ragazzo chiede di quale guerra si tratti. La risposta è evasiva – una qualsiasi – ma immediatamente dopo i tre reduci si divertono a mostrare una grotta, diventata rifugio con tanto di porta, dove giace lo scheletro di un miliziano ancora con la divisa d’ordinanza. E ancora, la sosta al villaggio inserisce una cruenta scena extra diegetica e fortemente metonimica, in cui si assiste, come fossimo in un documentario etnografico, all’uccisione e alla macellazione di un agnello. La sequenza fa da prologo alla vera e propria caccia, che appare come un vero e proprio massacro ai danni dei conigli, che non solo vengono definiti, di nuovo allegoricamente, portatori di peste e dunque inservibili anche come prede, ma soprattutto, contro di loro vengono liberati dei zibetti – ennesima  simbologia che evoca gli squadroni della legione marocchina che combatterono contro la Repubblica – che fanno strage degli altri animali. Durante la pausa, sotto il sole, comincia però una discussione sul presente e sugli affari che vanno male e improvvisamente, i contrasti ancora amicali o legati al cameratismo del tempo di guerra, esplodono in un massacro generalizzato, come se la violenza che si sono portati dietro dai tempi della guerra dovesse per forza risalire in superficie.

''Lo spirito dell'alveare''Il terzo e più riuscito –  e più bello – film sulla rimozione della guerra civile, o sui fantasmi della stessa, è invece del 1973, epoca ancora più complessa, storicamente e politicamente, visto che l’opinione pubblica si aspettava una svolta dovuta all’età e alla malattia di Franco, che però, come si vide proprio in quell’anno, dopo il terribile attentato che uccise il quasi designato successore del Caudillo, l’ammiraglio Carrero Blanco, non era affatto all’ordine del giorno.
Il titolo della pellicola è Lo spirito dell’alveare (El espiritu de la colmena) e l’autore, oggi settantasettenne, benché sia considerato uno dei “Grandi di Spagna”, accanto all’inarrivabile Buñuel, a Saura e  ad Almodovar, ha girato solo tre lungometraggi. Il primo di questi è appunto un’opera misteriosa e fantasmatica, ambientata nel 1940 – un anno dopo la fine della guerra civile – in un paesino isolato nella Meseta che separa Madrid dalla Mancha. In questo borgo ci sono molti bambini, una scuola, una famiglia che si direbbe alto borghese o aristocratica e che vive in una villa isolata. Il capo famiglia è uno studioso imperturbabile che vive esclusivamente nel suo laboratorio, osservando la vita delle api. Il riferimento al titolo del film è una prima terribile allegoria sulla società degli uomini che, proprio nella recente guerra, ha intrapreso, forse incoscientemente,  un esperimento sociale simile alla vita delle api, protesa esclusivamente al benessere della Regina e della sua corte.

''Lo spirito dell'alveare''Ma l’uomo si è appunto estraniato dal conflitto, rimanendo incontaminato. Attorno a lui, però il mondo reale esiste ancora: c’è una donna che attende una lettera dal suo fidanzato o amante, disperso in guerra; un reduce, sicuramente repubblicano, sfuggito al massacro, che si rifugia in un casolare isolato, prima di essere ucciso dalla Guardia Civil. Infine, le vere protagoniste sono due bambine  che finiscono per confondere realtà e finzione. Difatti nel paesino c’è non solo una scuola – e l’insegnante spiega l’anatomia in maniera quasi favolistica, quasi dovesse trovare un antidoto alla “dissezione” cruenta della guerra –  ma anche un magazzino che, di tanto in tanto, ospita un cinematografo ambulante. Qui le due protagoniste, sorelle, vedono il film Frankenstein di James Whale (1931) e la più piccola viene colpita dalla scena nella quale il Mostro fa amicizia con la bambina, per poi ucciderla in preda alla paura, ed essere ucciso, a sua volta, dalla popolazione locale. Da questa scena madre, quasi un sogno con se stessa protagonista che vorrebbe aiutare il Mostro, nasce l’identificazione con il miliziano ricercato, e poi ucciso e esposto in municipio, ed infine la fuga verso il fiume, alla ricerca di un mostro da redimere.

''Lo spirito dell'alveare''Lo spirito dell’alveare è un film quasi impalpabile, nel quale violenza e morte sono finzioni filmiche estreme che non possono essere assorbite dal reale, se non attraverso identificazioni patologiche e sintomatiche di una spoliazione totale della vita sociale. Così l’opera prima di un regista purtroppo troppo parco, vive di silenzi che sono rumorosissimi, di tramonti e albe che non riescono ad illuminare la vita delle persone, di apparizioni fulminee, di rapporti impossibili tra le persone, di assenze pesanti. Il paese è dominato dal vuoto della guerra, ovvero, come avrebbe scritto Cocteau e poi Pasolini, dalla morte al lavoro, invisibile e ancora più minacciosa.
Quarto e ultimo titolo è Le lunghe vacanze del ’36, girato nel 1975 e ambientato in un paese vicino al confine francese, nei pressi di Barcellona, durante la guerra civile. Girato dal catalano Jaime Camino, si poté vedere  anche in Italia, sebbene solo nel circuito d’essai.  Fu una sorta di apertura alla drammaturgia bellica resa possibile dalla fase di transizione della politica spagnola: Franco era morto alla fine del 1975, con il film già in lavorazione e il governo provvisorio  era alle prese con una nuova costituzione che sarà operativa solo nel 1978, anno delle prime elezioni libere dopo quarant’anni.

''Le lunghe vacanze del '36''Dunque un film di transizione che riportava finalmente alla luce una sorta di microcosmo borghese in cui tutti i personaggi, fuggiti da Barcellona e rifugiatisi nelle loro ville estive sulle colline,  temono che la loro pace venga turbata da una guerra inizialmente lontana. Ma, appunto, il film di Camino si chiude con la cavalcata dei legionari del Tercio, con tanto di mantelli da cavalieri del deserto che assaltano l’ultima resistenza repubblicana. Il motto dei ribelli, però non è più “Viva la muerte” ma “Arriba … arriba … arriba Espana!!!, ritmato come un incitamento calcistico.  Anche questo moto, inventato dallo stesso Francisco Franco, divenne, nel dopoguerra, un segno politico di orgoglio nazionale. Negli anni Sessanta, infatti, il riavvicinamento della Spagna all’Europa e al mondo, fu fortemente agevolato dai successi internazionali del Real Madrid. La nazionale di calcio spagnola, ovviamente, non fu meno celebre del club madrileno e nel 1960, per volere di Francisco Franco, rifiutò di giocare i quarti di finale dei campionati europei per nazioni, appena nati, pur di non affrontare l’odiatissima Unione Sovietica alla quale venne data partita vinta.

''Le lunghe vacanze del '36''Quattro anni dopo, a Madrid, la nazionale spagnola ritrovò in finale l’URSS e non poté esimersi dall’incontrarla, visto che il paese aveva ottenuto un grande regalo pubblicitario: l’organizzazione del torneo. L’URSS perse di misura al ritmo continuo di “Arriba … arriba … arriba Espana”, come se il paese avesse trovato di nuovo un avversario da sconfiggere con una guerra senza quartiere.
Dieci anni dopo, la riapparizione del motto in Le lunghe vacanze del ’36  sembra declinata al passato: sarà finalmente possibile una ricostruzione normalizzata della Guerra Civile. Seguiranno altri titoli sempre più normalizzati, ma non certo privi di una memoria storica quasi  orrorifica. Una rassegna in corso a Roma ne elenca una ventina, tra i quali, uno recentissimo, La isla mínima  (2014) di Alberto Rodríguez, un giallo ambientato alla fine degli anni Settanta e, di nuovo, pieno di fantasmi, così come, sul un piano totalmente diverso lo è stato Balada triste de trompeta (2010) di Álex de la Iglesia e Il labirinto del fauno di Guilliermo del Toro.

Anche in queste pellicole la morte domina tutta la narrazione ma ormai quasi come una semplice provocazione iper spettacolare, fantasiosa e splatter che quasi cancella il contesto storico.
I silenzi e i vuoti di Erice, lo strazio del boia di Berlanga e gli spari e  i fantasmi di Saura erano stati molto più feroci e carichi di significato.

20 settembre 2017

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