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Cento anni dall'ottobre 2017

Raccontare l'URSS e la Russia attraverso il cinema e i film dell'epoca. Memorie d'oltreoceano. La cineteca di Gianni Olla.

''Lenin''Poiché ho dedicato una puntata delle mie “confessioni” cinematografiche al rapporto tra cinema e dittature, contrapponendo o accostando due paesi dell’est comunista (Polonia e Cecoslovacchia) alla Spagna franchista, approfitto dei cent’anni della Rivoluzione d’ottobre (o di novembre, visti i diversi calendari tra Russia e Europa), e delle inevitabili celebrazioni/rievocazioni di quell’evento per ripercorrere, a volo d’uccello, anche straordinaria e persino sconcertante storia che riguarda il cinema e i film.

Per ammorbidire i due iperbolici aggettivi (straordinario e sconcertante), posso provare ad usare una definizione di Fernand Braudel, relativa alle lunghe durate delle periodizzazioni storiche che, quasi sempre, noi assorbiamo attraverso frammenti più brevi, talvolta brevissimi, legati alla nostra altrettanto breve esistenza durante la quale si svolgono degli eventi particolarmente traumatici, come le rivoluzioni e le guerre che segnano importanti fratture storiche.
Ora, nessuno si è mai stupito che, nella Russia autocratica e quasi feudale degli zar ci sia stata non solo una letteratura tra le più importanti del mondo, tuttora esaltata, ma anche musica, teatro, danza, arte plastica e figurativa di grandissimo valore, nonché un fiorire di riviste, di circoli letterari, di dibattiti politico-culturali.  

Muro di BerlinoAllo stesso modo, non c’è da stupirsi se la cultura nazionale russa si sia facilmente incarnata, e ovviamente trasformata, entro nuovi confini istituzionali e territoriali, sorti dopo l’ottobre del 1917, che perpetuavano la lunga durata di Braudel, iniziata con l’avvicinamento all’Europa di Pietro il Grande, proseguita con Caterina II, bloccata dalle incertezze dei Romanov, e sbloccata violentemente dall’evento che nessuno si aspettava, neanche Lenin.
Così, possiamo anche osare un pensiero che, prima del 1989 o del 1991 – rispettivamente, l’anno del crollo del Muro di Berlino e della scomparsa ufficiale dell’Unione Sovietica – sarebbe stato definito blasfemo dalla grande maggioranza di militanti o semplici simpatizzati del comunismo.
Sintetizzando, la Russia di Putin è l’erede sia del vecchio impero zarista e cristiano ortodossa – sono parole sue –  e nello stesso tempo, dello stato sovietico che si stabilizzò vincendo la seconda guerra mondiale, non a caso chiamata “grande guerra patriottica” e celebrata annualmente con le stesse parate militari degli anni del comunismo.

BreznevLenin, per poco tempo, e poi Stalin nonché Kruschov e Breznev sono stati, di fatto, i nuovi zar di uno stato-nazione-impero che ha ereditato dal passato l’autocrazia, in forme non troppo diverse da quelle zariste (polizia segreta onnipotente, divisioni di classe basate non più sull’economia ma sulla vicinanza/lontananza dal potere), e soprattutto la vocazione imperiale, poi trasferita integralmente alla Russia di Putin. Così, dopo l’ubriacatura iniziale di alcuni studiosi che, nel 1991, pontificavano sulla “fine della storia”, ci si è accorti che anche la geopolitica  ha una periodizzazione di lunga durata che ha inizio con “il grande gioco” ottocentesco – o grande conflitto sotterraneo – tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Oriente, dal Mar Nero all’India, passando per il Caucaso, poi effettivamente annesso all’impero zarista e saldamente conservato dall’Unione sovietica.
Dopo il 1945, il nuovo stato guidato dai comunisti fu addirittura più espansivo visto che, con la spartizione seguita alla seconda guerra mondiale,   controllò un buon terzo dell’Europa, e patrocinò, con armi e soldi, il Medio Oriente mussulmano. Invece della Gran Bretagna, ebbe come avversario la nuova potenza imperiale, gli Stati Uniti. Putin ha dunque ereditato, pur con molte rinunce e un bel po’ di guerre ai confini, molti di quei territori e di quelle influenze imperiali e gli USA hanno sostituito la Gran Bretagna come “guardia”, diplomatica e armata, affinché la Russia non “ si allarghi” troppo.

Ed ora il cinema che, per l’appunto, esisteva anche prima del 1917, e con modalità produttive, pratiche, estetiche, influenze culturali (prima di tutto letterarie e teatrali, nazionali o meno), abbastanza simili a quelle europee. Questo almeno secondo le poche analisi e le cronache di lungo respiro storico, arrivate in Italia. La prima è Il cinema muto sovietico di Nicolaj Lebedev, scritto nel 1947,  pubblicato molto tempo fa da Einaudi: un’opera testimoniale piuttosto utile, anche se “inquinata” dall’ufficialità delle fonti critiche. La seconda è Storia del cinema russo e sovietico di Jay Leida, studioso e regista statunitense che poté vantare un lungo soggiorno da studente e giornalista in Urss, prima e dopo la seconda guerra mondiale.

''Aelita''Il maggior dei registi pre rivoluzionari, Protazanov, fece anche in tempo ad inserirsi nel nascente cinema sovietico: restò fedele alla tradizione, nel 1918, portando sullo schermo il racconto di Tolstoj, Padre Sergio.
Nel 1924, con Aelita – film ancora oggi godibile – inaugurò un filone fantascientifico-allegorico  rimasto quasi un genere di riferimento che sembrava profetizzare le prime conquiste spaziali dell’Unione Sovietica di Kruschov. Ma certamente, se ancora oggi ci occupiamo di cinema sovietico relativo ad una fase storica – gli anni Venti e Trenta – in cui i problemi di quell’immenso territorio erano la fame, le guerre civili, le secessioni dei territori “imperiali”, la produzione agricola e quella industriale, lo dobbiamo soprattutto ad alcuni nomi nuovi, emersi nel crogiuolo della rivoluzione.  I primi tre sono Eisenstein, Vertov, Kulesov, quest’ultimo diventato celebre soprattutto per la scuola di cinema, la prima al mondo, nella quale sperimentò e teorizzò con geniale e “altezzosa” sicurezza il modo di comunicare visivamente attraverso le inquadrature e il montaggio.

Le sue teorie furono considerate quasi delle scienze esatte, almeno fino alla nascita del cinema sonoro, e, successivamente, buttate a mare frettolosamente dalla “nouvelle vague” e dalle analisi semiologiche degli anni Settanta.  Accanto ai primi tre è obbligatorio citare l’ucraino Dovzenko e soprattutto Pudovkin, quest’ultimo anche teorico, affine a Kulesov; infine i meno noti Kozintsev e Trauberg, che percorsero buona parte del cammino del comunismo sovietico, dai tempi di Lenin e fino a Breznev.

EisensteinI primi tre – Eisenstein, Vertov, Kulesov – si erano formati a contatto con le avanguardie artistiche europee, soprattutto il futurismo e apprezzavano anche altri “ismi”, tra i quali, in ambito pittorico, il costruttivismo di Rodcenko e il suprematismo di Malevic, specificamente russi e non ancora sovietizzati.
Inoltre facevano parte di associazioni culturali e artistiche, Il Proletkult o la FEKS (Fabbrica dell’attore eccentrico), totalmente autonome rispetto alle direttive del Partito Comunista prima e dopo la rivoluzione, ovvero durante gli anni della guerra civile e poi, nel periodo della NEP (Nuova politica economica), sorta di boccata d’aria economica e culturale che durò non più di tre anni, e fino alla morte di Lenin, avvenuta nel 1924. Per dare un’idea di questa relativa autonomia della cultura, che aveva creato una sorta di neo aristocrazia intellettuale, ci si può affidare, abbastanza irritualmente, non già alle fonti storiche, ma ad un romanzo incompiuto di Curzio Malaparte, Il ballo al Cremlino, scritto nel 1948 e mai portato a termine, che racconta la sua permanenza a Mosca, nel 1929, come inviato del quotidiano “La Stampa”. Un anno cruciale: Stalin è al potere dal 1924, come erede non designato di Lenin, ma esiste ancora un’opposizione interna che verrà fatta a pezzi a partire dai primi anni Trenta.

Nel 1929, dunque, Malaparte osserva una sorta di ultimo carnevale dei protagonisti dell’Ottobre. Tra questi, Anatolij Lunacarskji, ancora Commissario del popolo alla cultura, poi emigrato in Francia per ragioni di salute, dove morirà nel 1933, che si gode un’ultima libertà di pensiero e di critica, prima dell’apocalisse che tutti si attendono. Lunacarskij fu infatti una sorta di garante di quella prima avanguardia culturale che, di fatto, contestava Lenin. L’indiscusso segretario del partito bolscevico non aveva alcuna simpatia né per la FEKS, né per il Proletkult e pensava, come Marx del resto, che il comunismo avrebbe dovuto proseguire sulla grande strada tracciata dalla cultura borghese, alfabetizzando le masse popolari escluse da ogni possibilità di apprendimento, se non quello tecnico che consentiva loro di lavorare.

''L'amore a tre''L’idea di Lenin, ma successivamente anche di Stalin, era abbastanza semplice: il cinema, mezzo di grande divulgazione popolare , avrebbe dovuto essere guidato da “ingegneri delle anime”, termine inquietante – anche al di là dell’arte – visto che postula una sorta di costruzione forzata e definitivamente ingabbiata della coscienza e dell’agire umano.
Un altro elemento decisivo, sempre di tipo innovativo/sperimentale, fu la presenza, a partire dal 1914 e non interrotta neanche negli anni staliniani, di una corrente di studi formalisti e linguistici che trovò nel cinema degli anni post rivoluzionari un terreno adatto per allargare le basi culturali  delle proprie teorie. Non a caso, uno dei maggiori studiosi, Victor Sklowski, non fu solo un biografo di Eisenstein, ma anche lo sceneggiatore di Secondo la legge di Kulesov (1926) e L’amore a tre di Rom (1927).
Un altro celebre formalista, Tynijanov collaborò con Kosincev per la realizzazione de Il cappotto di Gogol (1926). Ovviamente, non si può certo affermare che il primo cinema sovietico fu contro il potere o contro la rivoluzione. Pochi sono i titoli che, direttamente, o indirettamente, non si confrontano in positivo con il tema centrale dell’epoca: la rivolta anti zarista e la successiva rivoluzione, la presa del potere da parte dei bolscevichi, la trasformazione della Russia in Unione Sovietica.

''Sciopero''La filmografia di Eisenstein è particolarmente indicata per verificare, da un lato, l’adesione entusiastica del regista alla rivoluzione, dall’altra la sua totale autonomia artistica che, a partire dalla fine degli anni Venti, poco prima della trasferta americana, gli procurerà non pochi problemi.
Il punto di partenza è, appunto, un film a suo modo dimostrativo, Sciopero (1924), apparentemente didascalico  ma, in realtà, “stracarico” di suggestioni mutuate dall’avanguardia. Due di queste sono rimaste come “stigma” della prima filmografia del regista sovietico: la prima è il bisogno di non personalizzare l’eroismo di un singolo o di pochi personaggi che avrebbero perpetuato una sorta di epica avventurosa e drammatica mutuata dai film di Griffith, peraltro ammiratissimi da tutti i cineasti sovietici.
La seconda è il “montaggio delle attrazioni” , un contrasto simbolico tra sequenze e spesso tra inquadrature che deve colpire cuore e cervello degli spettatori. Esempio classico: la sequenza del massacro degli operai che protestano è infatti montata in continuità/contrasto con l’uccisione di un bue e il successivo squartamento nel mattatoio. È facile capire il simbolismo, oggi che il linguaggio filmico ha avuto un’evoluzione che ha introiettato anche Eisenstein nel cinema spettacolare, ma allora il film non piacque. L’“attrazione” non scattò, forse per eccesso di virtuosismo.

''Ottobre''Maggiormente raffinata, la stessa “attrazione” divenne però una vera e propria epica di tipo nuovo – collettiva, popolare – nel suo maggior capolavoro, girato lo stesso anno, La corazzata Potemkin che, come si è già detto, ebbe un grandissimo successo in URSS e in ogni altro paese nel quale fu proiettato, spesso con grandi tagli censori, nonostante fosse facile accettarlo sul piano storico, visto che l’ammutinamento della nave imperiale avvenne durante le agitazioni e le rivolte del 1905, che chiedevano la democrazia e un parlamento dotati di poteri reali e soprattutto votato dai cittadini.
Il  contrasto tra il bisogno di sperimentare una nuova lingua per il cinema e le esigenze didascalico-propagandistiche del nuovo regime, esplose con il film successivo, Ottobre (1927), anch’esso celebrativo ma, direttamente, della presa del potere dei Soviet, concentrata, nel film e nel mito, in due “insiemi” oppositivi: l’assedio e poi l’occupazione del Palazzo d’inverno da parte dei bolscevichi e la simbolica e fallimentare ascesa al potere di Kerenskij, capo del governo provvisorio che dovrà sloggiare e fuggire su un auto dell’ambasciata americana. L’attesa per l’assalto, preceduta da un sintetica descrizione degli avvenimenti dell’Ottobre, sembra però quasi un dovere cronachistico. Al contrario, il film è passato alla storia proprio per la lunga, geniale e stancante sequenza nella quale si vede Kerenskji che sale le scale che portano agli appartamenti reali: scale infinite, come se il cammino verso il potere fosse un semplice sogno o anche, alla fine, un incubo.

''Entr'acte''La “scalata” è contornata, extra diegeticamente, dai simboli eclatanti dei privilegi della vecchia monarchia, e, alla fine, prima dell’impossibile arrivo,  da un pavone meccanico, probabilmente di Fabergé, che si apre e fa la ruota. Significato probabile e quasi banale: Kerenski si pavoneggia! È questa la sequenza più compiuta del montaggio intellettuale –  un’altra, meno nota, sta all’inizio del film, con la statua del zar fatta a pezzi, il cui volto in caduta si sovrappone all’immagine del prete che china la testa, annunciando simbolicamente anche la resa del potere religioso – che non portò fortuna al regista, accusato di sterile sperimentalismo e di non aver saputo descrivere l’entusiasmo di quei giorni. Rivista oggi, la magnifica sequenza della scalinata può essere sottratta ai significati politico-allegorici, e riportata alle radici europee dell’avanguardia filmica, ad un Entr’acte (1924), la cui parata oggettuale resta senza un senso che non sia il “non senso” dadaista o la scrittura automatica dei surrealisti.  Questa esegesi blasfema – che non ho inventato io – è comunque un vero e proprio complimento al regista di Riga che, con o senza la rivoluzione d’Ottobre, è stato un grande inventore di cinema puro, successivamente copiato e usato a profusione da altri grandi maestri.

''Il vecchio e il nuovo''Il successivo film, Il vecchio e il nuovo (o nella prima titolazione, molto più politica, La linea generale), venne messo in produzione pochi mesi prima di Ottobre, poi interrotto per l’urgenza delle celebrazioni ufficiali, e quindi ripreso, censurato da Stalin che invitò gli autori, gentilmente ma con decisione, a girare per le campagne russe al fine di conoscere meglio la situazione ed esaltare le realizzazioni del socialismo.
Dopo queste raccomandazioni, il finale divenne una trionfale parata di trattori e altri strumenti agricoli moderni che, dopotutto, erano anche l’oggetto dell’entusiasmo rigeneratore di Eisenstein, di nuovo derivante dal futurismo. Esemplare, non a caso, fu la sequenza della scrematrice meccanica accolta come una grande magia dai contadini, e interpretabile quasi come un’allegoria dell’atto finale di un orgasmo che alcuni studiosi accreditano come una sorta di inconscio omosessuale eisensteiniano. Non entro in merito alla questione, che ho affrontato in un’altra occasione. Ma è pur vero che, per per gli artisti dell’avanguardia, magari senza tessera del partito comunista – come lamentavano i burocrati e i dirigenti politici – la rivoluzione era pur sempre un grande godimento sentimentale quasi orgasmatico.
Dopo la parentesi americana, Eisenstein rimase, in qualche modo, disoccupato, alle prese con tanti progetti che, con il rafforzamento e la successiva rigidità dell’apparato burocratico stalinista, non furono accettati.

Il regista si mise ad insegnare ma nel 1935 girò una nuova storia – e sempre con un eroe individuale – che modernizzava un celebre racconto di Turgenev, Il prato di Bezin, innestando la poetica della natura  in un contrasto, appunto, tra il vecchio e il nuovo: da un parte i contadini ancora legati al concetto di proprietà; dall’altra la collettivizzazione delle campagne.  Il film non arrivò mai sugli schermi e solo dopo la seconda guerra mondiale si riuscì a ricavare da ciò che era rimasto del montaggio originale una sorta di foto-film, musicato poi da Prokofiev, con la sintesi della vicenda. Vi appare, per ciò che si può vedere nelle immagini fisse, un Eisenstein diverso, plastico e con una profondità di campo straordinariamente efficace.
Ovviamente, la ragione del sequestro e della distruzione del negativo originale era abbastanza semplice: da un lato la rievocazione del lungo processo di collettivizzazione, da tempo concluso, riapriva una ferita mai chiusa – neanche oggi, soprattutto nell’Ucraina in cui la popolazione fu, letteralmente, lasciata morire di fame perché si opponeva all’abolizione della proprietà privata – dall’altro, il tema non era più all’ordine del giorno, dopo i primi successi dei piani quinquennali che, negli stessi anni della Grande Crisi del capitalismo occidentale, trovava consensi anche tra i nemici del comunismo.

''Alexander Nevskj''In ogni caso, il film di Eisenstein sembrava anche postulare una via estetica di alta qualità per il dogma artistico di quegli anni di normalizzazione: il realismo socialista, dottrina ufficiale dell’Unione Sovietica fino al secondo dopoguerra. A questo dogma, fortunatamente rielaborato da un artista ormai lontano dalle avanguardie del primo dopoguerra, si rifarà il primo vero film propagandistico – benché in maniera totalmente allegorica – di Eisenstein, Alexander Newskij.
Girato nel 1938, racconta o meglio raffigura – la pittura è uno dei principali modelli del film – e orchestra musicalmente, con la collaborazione di Prokofiev, l’impresa del principe  che nel 1240 sconfisse i cavalieri teutonici (ovvero i tedeschi) e divenne uno dei primi unificatori del territorio russo.
Con questo film, quasi “commissionato” dai vertici del partito, s’intendeva non solo celebrare la nascita o la ri-nascita della Russia come grande potenza “di mezzo” che fa da baluardo sia alle orde tartare che a quelle teutoniche, ma anche simbolizzare la pericolosità della Germania nazista che non nascondeva il suo disprezzo non solo ideologico ma anche razziale nei confronti del paese comunista.
Poco più di un anno dopo, i due dittatori, Hitler e Stalin, si accorderanno per spartirsi la Polonia, come ai tempi degli zar e dell’impero prussiano, dando inizio alla seconda guerra mondiale. Il Newskji fu nascosto fino al 1941, anno dell’invasione tedesca.

''La congiura dei boiardi''Tristemente, il regista di Riga chiuderà la sua carriera con il dittico Ivan il terribile (1940) e La congiura dei boiardi (1946), nati come celebrazione ulteriore di questa saldatura tra la Russia storica e la nuova nazione imperiale nata dalla rivoluzione d’ottobre. I film – soprattutto il secondo – verranno interpretati come una  una parafrasi del potere di Stalin e messi da parte. La congiura dei boiardi circolerà nell’URSS solo nel 1958, quando Stalin era morto da cinque anni e Kruschov aveva denunciato i suoi crimini al XX congresso del Partito Comunista. Anche Eisenstein era morto, per un attacco cardiaco, a soli 50 anni, nel 1948.
La contraddizione e, alla fine, lo scontro, aperto o sommesso, tra la sperimentazione  artistica e la politica ufficiale degli apparati e soprattutto di Stalin, è stata la caratteristica della prima fase del cinema sovietico, e la si può osservare anche in altri titoli. Giusto per sintetizzare, ecco due esempi piuttosto famosi: il primo è L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, uscito anch’esso nel 1929, in un periodo di transizione verso lo stalinismo più feroce. Il secondo è Arsenale (1927) il più celebre film dell’ucraino Dovzenko, già autore di un film quasi romantico, Svenigora, dedicato, l’anno prima, ad una montagna sacra, custode di segreti e di tesori che dovrebbero essere riportati al popolo.

''Arsenale''Arsenale è il film di mezzo di una trilogia che si concluderà, nel 1930, con La terra, anch’esso dedicato alla collettivizzazione delle campagne. Dovzenko, rispettato, ammirato dai suoi colleghi, fu anche guardato con sospetto per la sua classicità para romantica, ma anche perché non si curava affatto della presunta scientificità del montaggio di Kulesov, Pudovkin e Eisenstein, fatto di brevi inquadrature. In Arsenale, vi sono piani sequenza – un termine ancora sconosciuto alle teorie del cinema – e piani totali in cui agiscono i personaggi, contrasti di campo/controcampo da film d’azione, momenti di suspense e di poesia visionaria. Allo stesso tempo, Arsenale è il vero film politico di Dovzenko, visto che racconta la lotta dei comunisti ucraini contro il governo nazionalista, appoggiato da Polonia e Germania, che si era distaccato dalla Russia dopo la caduta dello Zar.
L’episodio dunque, s’inquadra nella fase della guerra civile post rivoluzionaria (1918-1921) che porterà il governo dei Soviet a replicare la potenza imperiale del vecchio regime: non a caso, dopo la riconquista dell’Ucraina, l’esercito rosso guidato da Trotzskij invaderà la Polonia e verrà fermato solo alle porte di Varsavia, senza poter riaffermare il suo dominio su un paese che, non a caso, verrà poi occupato, nella sua parte orientale, nel 1939. Insomma, al di là della sua grandezza estetica, Arsenale è un vero film di propaganda utilissimo per quell’uso strumentale del cinema postulato da Lenin.

''La corazzata Potemkin''Completamente opposto è il caso di L’uomo con la macchina da presa, documentario sperimentale per definizione, “cineocchio”, per dirla con Vertov, che fondò una sua criticatissima – dalle altre avanguardie – scuola di cinema antifinzionale.
Ambientato a Odessa, città nella quale nacque un centro cinematografico d’avanguardia e che aveva già ospitato le riprese spettacolari di La corazzata Potemkin, racconta o meglio mostra una giornata-tipo della città, apparentemente senza alcun scenario di riferimento o senza privilegiare degli aspetti particolare.  Il vero e proprio “metafilm”, che ha inizio e fine in una sala cinematografica, con tanto di pubblico, orchestra, e tecnici, evoca l’impressionismo della nascita del cinema, ma totalmente destrutturato e affidato ad una sorta di autonomia della macchina da presa: una sorta di scrittura automatica anti surrealista. È la realtà ad imporsi al cineocchio, ovvero ad un nuovo modo di vedere derivato da una modernità tecnologica che sembra anticipare non solo la “camera stylo” di Astruc ma anche i video maker più sperimentali del nostro tempo. 

Allo stesso tempo, nonostante le solite accuse di formalismo e di criticità –  Vertov era peraltro un convinto comunista che dedicò altri film alle conquiste del regime e alla memoria di Lenin – L’uomo con la macchina da presa è un film intimamente politico, visto che mostra una città, luogo topico del Novecento, celebrato da tutta l’avanguardia europea e poi da gran parte del cinema hollywoodiano, nella quale si vive, si lavora, si produce, si gioca, si fa sport, si va al cinema, in perfetta armonia. La normalità della rivoluzione conclusa s’impone al caos, celebrando il nuovo impero.

''Sobborghi''Come è facile intuire, il cinema sovietico non smette di esistere dopo l’eclisse o la scomparsa fisica dei primi maestri dell’avanguardia. L’imposizione di un’arte ufficiale, il realismo socialista, che imperò dal 1934 al secondo dopoguerra, almeno fino alla morte di Stalin, nel 1953, non impedì una sorta di creatività delle “piccole cose”. Cioè la vita della gente comune – oltre che, ovviamente, delle grandi imprese raccontate in un film celeberrimo come Ciapajev dei fratelli Vassiliev, prototipo, nel 1934, del cinema realista-propagandistico che intendeva replicare la passionalità avventurosa hollywoodiana respinta dalle avanguardie  – prima e dopo la rivoluzione d’ottobre. Tra i film più celebri, Sobborghi di Boris Barnet (1934) e soprattutto La trilogia di Massimo di Kosintsev e  Trauberg, romanzo di formazione in tre parti, ovvero in tre film, che racconta le avventure di un operaio, dal 1905 al trionfo della rivoluzione d’ottobre.
Il realismo socialista si chiuderà tristemente con il trionfo del culto della personalità staliniana, celebrato in diverse pellicole a soggetto, involontariamente comiche e soprattutto paradossalmente “irrealiste”, eppure celebratissime anche in occidente, nell’immediato dopoguerra: La grande aurora (1938), sulla rivoluzione del febbraio 1917; Il giuramento (1946) che vede Stalin accostarsi al potere, dopo la morte di Lenin; quindi il più celebre e sicuramente il più comico, La caduta di Berlino (1949), che vede il dittatore, durante la guerra, coltivare amorevolmente un giardino e accogliere i suoi ospiti adoranti, quasi sempre appartenenti alla classe operaia e all’esercito. Infine, L’indimenticabile (1949), anch’esso sull’Ottobre rivoluzionario.

''Il dottor Zivago''I quattro film parabiografici furono girati dal georgiano Ciaureli e interpretati da Mikael Gelovani,  anch’esso georgiano, somigliante a Stalin, al punto da diventare anche successivamente alla morte del dittatore, una sorta di sosia ufficiale. Si può ben scrivere che i film furono quasi un affare di famiglia e di nazionalità, ovviamente georgiana.
Seguirà un nuovo periodo quasi mitologico, il “disgelo”, termine mutuato da un romanzo di Iljia Eremburg che così definiva la fine della glaciazione stalinista. L’opera simbolo di quell’epoca non è però un film, ma un romanzo, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, pubblicato solo in Italia nel 1957 dall’editore Feltrinelli e subito diventato un best seller internazionale, a dispetto delle censure sovietiche che impedirono allo scrittore di recarsi a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la letteratura.
Tornando al cinema, il tema centrale della maggior parte dei titoli sovietici del “disgelo” (Quando volano le cicogne di Mikhail Kalatozov, Cieli puliti e La ballata di un soldato di Grigorij Chucraj, Pace a chi entra di Vladimir Naumov e soprattutto il primo lungometraggio di Tarkowskji, L’infanzia di Ivan) è la guerra, vista dalla parte dei soldati che vogliono (e spesso non possono) tornare a casa, dalle madri e dalle fidanzate. Insomma, anche l’intimismo poetico diventa un bisogno di normalità, che, dopo gli anni di propaganda bellica, appare quasi una rivolta.

''Guerra e pace''Paradossalmente, la prudente e contraddittoria liberalizzazione di Kruschov non cessò con la sua caduta, visto che il ventennio 70-90 può essere considerato, per il livello dei singoli film e delle personalità artistiche (Tarkowskij, Suksin, Michalkov, Konchalowski, Paradjanov, Ioseliani, Danjielia, Shengelaja, German, Klimov) il più creativo dell’intera storia dell’Unione Sovietica, assieme, ovviamente, agli anni post rivoluzionari.
Ma l’aspetto che più ci interessa è una sorta di rappresentanza nazionale e persino plurinazionale – i film venivano prodotti e girati in tutte le repubbliche sovietiche – che prendeva il posto sia del vecchio e ormai dimenticato realismo socialista, sia dell’avanguardia degli anni Venti.
I film sovietici di quel ventennio si vedevano nei festival e nelle sale – anche non d’essai, talvolta – nonché nelle programmazioni televisive e mostravano una varietà incredibile di temi, di poetiche e di stili.
Si riprendevano i testi letterari e teatrali russi: i Cechov e i Gonciarov di Nikita Mikalkov, da Partitura incompiuta per pianola meccanica (1976) e Occi ciorne (coprodotto con l’Italia nel 1983) a Qualche giorno nella vita di Oblomov (1979) sono ormai quasi dei classici e altrettanto si può dire di Zio Vanja (1971) di Konchalowski, altro grande autore russo-sovietico.
L’ufficialità obbligatoria di queste opere, simili produttivamente al celebre film “monstre” in quattro parti di Sergej Bondarčuk, Guerra e pace (1967), ma molto più liberi sul piano creativo, veniva “dribblata” da  personalità autoriali abbastanza inusuali provenienti da un nuovo ceto sociale in espansione che potremmo già definire, paradossalmente, borghese e cosmopolita: una classe media colta e privilegiata.

''Amleto''Persino il vecchio regista Kosintsev, che aveva attraversato l’intero arco della storia sovietica, chiuse la sua carriera con due capolavori tratti da Shakespeare: il miglior Re Lear (1971) di tutta la storia del cinema, musicato da Shostakovic, e un Amleto (1964), riscritto da Pasternak per il teatro, che si apriva con un’immagine allegorica di un castello nel quale venivano sbarrate tutte le porte: la Danimarca del principe era già una prigione, o forse l’URSS era una prigione, magari confortevole per questo nuovo strato di intellettuali.
Autenticamente borghesi, su un piano comportamentale e culturale, sono invece i personaggi dei film intimi e familiari di Mikhalkov, Cinque serate (1978) e Senza testimoni (1983), mentre dalle repubbliche periferiche, ma anche dall’Ucraina, arrivano i film di altri autori come Ioseliani (giorgiano, poi rifugiatosi in occidente, dove a continuato a dirigere film eccelsi e originalissimi, quasi bunueliani) e soprattutto Paradjanov,  perseguitato e incarcerato per la sua omosessualità e totalmente incompreso nelle sue vere e proprie espressioni lirico-poetiche  che, liberandosi da ogni trama, evocavano un mondo perduto fatto di tradizioni antiche, di leggende, di pittori primitivi, mai cancellati dall’ufficialità modernista dell’Unione Sovietica. E ancora, giusto per sottolineare l’emergere di un Russia eterna che si sovrapponeva all’Unione Sovietica, un grande regista/poeta, oggi dimenticato, fu Vassilji Suksin, scrittore, regista, attore, sceneggiatore cinematografico, vissuto tra la Siberia e il Don, cantore della campagna russa e dei suoi anti eroi legati alla cultura popolare celebrata anche dai maggiori scrittori dell’Ottocento.

''Lo specchio''Suksin fu autore di sole cinque pellicole, programmate anche in Italia negli anni Settanta: Così vive un uomo (1964), che ottenne il Gran premio alla Mostra del cinema di Venezia; Vostro figlio e fratello (1966); Strana gente (1970), anch’esso tratto dai suoi racconti i cui protagonisti sono tre individui che cercano di dare un senso alla propria esistenza e lo fanno ciascuno a suo modo, attraverso i ricordi o le fantasticherie, trasmettendo un profondo senso di malinconia, ma allo stesso tempo anche l’intensa vitalità di un mondo prossimo alla scomparsa. Infine, nel 1972, Il viaggio di Ivan Sergeevič, una commedia incentrata sul lungo viaggio intrapreso da una coppia per trascorrere le vacanze sul Mar Nero, e Il viburno rosso (1974), tratto da un suo romanzo, un melodramma sulla vicenda di un ex detenuto che cerca invano di ricostruirsi una vita all'interno della sua comunità di villaggio.
Ho lasciato per ultimo il più grande di tutti, Andrej Tarkovskij, il cui cinema visionario e totalmente spirituale segna una paradossale unificazione concettuale, territoriale e persino storica dell’Unione Sovietica con l’eterna madre Russia, quasi dostoevskiana, baluardo  che protegge l’Europa cristiana – come scrisse Puskin, citato dal regista in Lo Specchio – da nuove invasioni orientali.

Regista appena tollerato, nonostante il suo evidente nazionalismo e patriottismo, Tarkovskij – che oggi viene riconosciuto come un autore tra i più grandi della storia del cinema – è stato, involontariamente, con il suo spiritualismo, il profeta della dissoluzione dei grandi apparati di potere che, negli ultimi film che precedono il crollo dell’Ottantanove/Novantuno, sono popolati di giovani funzionari riformatori (Subentra la controfigura – 1984), o all’opposto del solito personaggio buffo gogoliano (Le montagne blu – 1985), che si arrangia nel suo ufficio, in attesa dell’ inevitabile e catastrofica implosione, nonostante gli sforzi dei rinnovatori alla Gorbaciov.

StalinOvviamente, nessuno capì che l’ultima ondata di cinema sovietico di qualità annunciasse la fine dell’Unione Sovietica, non riformabile a causa della rigidità delle sue strutture di potere. Né oggi è facile spiegare che la storia del cinema e, in generale, della produzione culturale di quel paese nato da una rivoluzione e costruito su una successiva dittatura, è stata, in settant’anni, di livello estetico altissimo e capace di raccontarne, in controluce, anche la storia o almeno i flussi sociali.
Ciò può significare che la cultura nazionale si afferma al di là e spesso contro le istituzioni, o camuffandosi nei pochi spazi di libertà creativa disponibile.
Ma, in ogni caso, ci consola pensare che la storia cinematografica dell’Unione Sovietica dimostri che la mancanza di libertà di espressione generalizzata – o riservata con cautela agli artisti – non è mai arrivata, neanche negli anni terribili di Stalin, ai livelli della rivoluzione culturale cinese o delle stragi di Pol Pot, un personaggio passato alla storia per aver programmato, in vista della nascita di una nuova società di eguali, lo sterminio di tutti coloro che sapevano leggere e scrivere.
Secondo il dittatore cambogiano, l’unica possibilità di far trionfare una rivoluzione comunista, ovvero egualitaria, stava nel ritorno ad un grado zero della civiltà umana.

12 dicembre 2017