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''La forma dell'acqua''. Oscar 2018. I mostri salveranno il mondo

''La forma dell'acqua''

Memorie di Oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla. La forma dell’acqua (2017), Il labirinto del fauno (2009), La spina del diavolo (2001) di Guillermo Del Toro. Lo spirito dell’alveare (1973) di Victor Erice

Per una volta mi occupo del presente, ma solo nell’introduzione. Il film da cui prendo le mosse è ancora nelle sale e ha vinto l’oscar come miglior film, dopo essere stato premiato, a settembre, a Venezia, con il Leone d’oro. Si tratta di La forma dell’acqua di Guillermo del Toro, regista messicano ben accolto, da tempo, a Hollywood.

''La forma dell'acqua''È una pellicola di genere che oscilla tra fantascienza,  fantasy e persino horror che, però, scivola nel fiabesco, finendo per coinvolgere, in queste definizioni, altre stagioni del cinema statunitense ed altre “figure” filmiche ad alto tasso allegorico, che si sovrappongono ad ogni interpretazione di quest’opera con letture trasversali di tipo storico.
E già nel racconto di Del Toro, l’immaginario post bellico degli Stati Uniti si staglia con una certa precisione fin dalle prime immagini. Siamo infatti a Baltimora, in un bunker militare, presumibilmente alla fine degli anni Cinquanta, o forse già nei Sessanta, a giudicare dai macchinari tecnologicamente avanzati che si trovano all’interno.

''La forma dell'acqua''La rigida sorveglianza esterna e interna serve a proteggere un importante segreto: in una grande vasca di acqua marina, si muove, pur legato ad una catena che ne impedisce la fuga, una creatura anfibia, un vero e proprio mostro che ha, però, tratti gentili in quello che appare un viso quasi umano,  dolce e sofferente,  e nella perfezione del corpo, pur squamoso e con tanto di artigli difensivi e offensivi.
Il controcanto di questo scenario fantascientifico ma credibile nelle sue premesse (gli alieni di Roswell tengono banco, nell’informazione e nei presunti segreti militari, fin dal 1947, con una crescente mole di presunte verità sulla loro cattura e successiva prigionia in una zona desertica assolutamente “off limits”) è la vita senza scosse e senza emozioni di una giovane addetta alle pulizie, muta (ma non sorda), che, assieme all’amica di colore, scopre il segreto e, come accade solo nei miti, nei romanzi e nei film, s’innamora della creatura.

''La forma dell'acqua''Sintetizzo altri dettagli della vicenda: il mostro è destinato alla morte, per poi essere studiato anatomicamente e fisiologicamente, ma il suo corpo è, per così dire, rivendicato anche dalle spie sovietiche che hanno infiltrato uno di loro nel bunker. Infine, sarà proprio la giovane muta a rapirlo, liberarlo dalle catena, ospitarlo nella propria vasca da bagno, avere con lui un rapporto sentimentale e sessuale per poi accompagnarlo in un canale marino e scomparire nell’acqua – il mutismo della donna ha finalmente un senso – con il suo amato prima che i vari inseguitori, tra i quali il truce capo del laboratorio e le spie sovietiche, possano ucciderlo.

''La forma dell'acqua''È facile trovare i riferimenti nobili della storia, a prescindere dai contesti scenici e storici: si va da La bella e la bestia a King Kong, per citare solo i film più noti e più vicini al “sentimento” di un amore impossibile.
È altrettanto facile agganciare il film di Del Toro, in qualche modo distante dalla iper spettacolarizzazione del fantasy contemporaneo, a tanta fantascienza artigianale degli anni Cinquanta: il modello della creatura di La forma dell’acqua è, apertamente, Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, bmovie di grandissima popolarità che apparve nel 1954. La differenza sta in un ingentilimento dei tratti fisionomici, che lo rende patetico e sofferente, quasi voglioso di amore e di affetto, nonostante la sua rabbia e la disponibilità a reagire e a dare battaglia per la sua libertà.

''La forma dell'acqua''Si può infine aggiungere che il genere “creature  misteriose e/o minacciose”,  a partire dai primi anni Cinquanta, con il film La cosa (1951) di Nisby e Hawks, fu un sottogenere, appartenente appunto ai bmovie – anche Ed Wood, “il peggior regista del mondo”, secondo il grande film di Tim Burton, si specializzò in quel settore, ottenendo qualche successo – che, nel 1956, con L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (un regista vero, che fu poi tra i formatori dell’Eastwood americano), arrivò non solo al successo nelle categorie di prima fila, ma  divenne una sorta di pietra di paragone per tutta la fantascienza allegorica del periodo.
I mostri, compresi i baccelli giganti che, progressivamente, nel film di Siegel, prendono il posto degli umani, non sono altro che prefigurazioni della minaccia, sottile ma concreta – almeno nell’immaginario distorto dell’epoca – di una progressiva infiltrazione comunista nella società americana.

''La forma dell'acqua''Tra i due titoli citati, ormai fortunatamente sottratti, per ragioni generazionali, alla problematica mitologia anti comunista, emergono, nello stesso decennio, decine di bmovie meno noti nei quali i protagonisti sono insetti giganti, frutto di mutazioni genetiche dovute alle radiazioni nucleari, provocate dagli esperimenti atomici. La variante hollywoodiana del pericolo rosso è dunque interna e non esterna alla società americana: la nuova paura s’incarna in altri film – e non certo bmovie –  del decennio successivo, da  L’ultima spiaggia di Kramer (1960)  fino A prova d’errore di Lumet (1964) e a Il dottor Stranamore di Kubrick (1964).
Dunque, non è improbabile che, in un pre-filmico totalmente inventato dallo scrivente, sulla scia di un altro personaggio mostruoso, Godzilla, anche la creatura di Del Toro sia stata “creata” dalle mutazioni seguite alle sperimentazioni di ulteriori atomiche, per esempio nel celebre atollo di Bikini, nelle isole Marshall del Pacifico, dove, nell’immediato dopoguerra, vi furono ben 77 esplosioni nucleari.

''La forma dell'acqua''Tornando, però, a ciò che si vede nel film, l’ambientazione storica si specchia anche nella costruzione scenografica: dominano i colori slavati che tendono al grigio-verde, le immagini di strade solitarie, gli interni claustrofobici, nonostante i grandi spazi. Due sono le eccezioni, entrambe significative: da una parte la Cadillac  verde smeraldo che viene acquistata dal responsabile della sorveglianza del laboratorio, segno di distinzione e di potere, ma anche di effimero prestigio visto il seguito della pellicola; dall’altra i quadretti pubblicitari che il vicino di casa della ragazza, un anziano omosessuale, dipinge e vende alle aziende: puro Norman Rockwell, familiare e affettivo, ma anche ingenuo nelle sue rassicuranti immagini di una metropoli “comunitaria” che non è certo quella che si vede nella pellicola. E non a caso queste raffigurazioni ottimistiche vengono respinte dai vecchi committenti: certe immagini non si usano più. I ritratti delle città, sembrano voler dire questi signori, sono ormai quelli di Edward Hopper e delle sue solitudini.

''Lo specchio della vita''In ogni caso, giusto per provare a specchiare il film di Del Toro nei veri anni Cinquanta hollywoodiani, dobbiamo necessariamente confrontarlo non già con il prevalente “bianco e nero” delle produzioni seriali, ma con il colore, rappresentato dai fiammeggianti melodrammi post bellici di Douglas Sirk (Magnifica ossessione, Secondo amore, Come le foglie al vento, Lo specchio della vita), sui quali ho già scritto in altre puntate di questa rubrica. È certo esclusa ogni parentela con questi titoli sottilmente feroci nei confronti della ricca classe media. Allo stesso modo, La forma dell’acqua è lontanissimo anche dai ricalchi contemporanei di Sirk, vale a dire nei due titoli di Todd Hayness (Lontano dal Paradiso, Carol) che, attraverso lo stesso esasperato colorismo, raccontano l’illusione di un cinema che democratizzi il melodramma, mostrando scenari che mai avrebbero potuto esistere nella Hollywood del tempo.

''Carol''C’è, invece, una recente pellicola, drammatico-realista, la cui rappresentazione metropolitana potrebbe essere associata, almeno sul piano coloristico, al film di Del Toro: A proposito di Davies di Ethan e Joel Coen, nel  cui sfondo decolorato si ritrova l’ossessione anti comunista e il contrasto tra la generazione dei rivoltosi (basta il profilo e la voce di Bob Dylan a inquadrare l’epoca) e la società chiusa che si contrapponeva a quel mondo emergente. In questo scenario pre e post apocalittico – di lì a poco ci sarebbe stata l’invasione fallita a Cuba e, nella stessa isola, la crisi dei missili sovietici che rischiò di provocare la terza guerra mondiale – il richiamo allegorico ci obbliga a fare un viaggio nel tempo, a ritroso.
Nella ormai lunga filmografia di Del Toro compaiono infatti – e sono tra i suoi film più famosi – due titoli ambientati in Spagna, tra il 1939 (l’anno in cui i franchisti debellarono definitivamente i repubblicani e chiusero la lunga guerra civile) e il 1944, in cui, nel paese isolato dalla guerra europea, si stavano ancora stanando gli ultimi ribelli anti franchisti.

''La spina del diavolo''Il primo film è La spina del diavolo (2001), il secondo Il labirinto del fauno. Entrambi, si potrebbero definire, con un ossimoro, realistico-fantastici: La spina del diavolo è ambientato in un orfanotrofio in cui si sono rifugiati i bambini senza genitori, scampati ai massacri della guerra civile, ossessionati dal ricordo del sangue e dei morti. Questi ultimi vengono trasfigurati fino a diventare presenze demoniache. Il secondo è altresì basato su un’altra trasfigurazione fantastica. Difatti, il racconto è incentrato sulla missione del capitano Vidal, giovane ufficiale con moglie incinta e figlia adolescente, che deve dare la caccia agli ultimi ribelli in un paesino sulle montagne. Ma il paese è  sorvegliato e protetto da un invisibile fauno.

''Il labirinto del fauno''Questi “mostri” buoni non sono solo delle prefigurazioni che facilmente si legano a La forma dell’acqua, ma dei richiami ad una tradizione culturale che si porta appresso un ampio catalogo visivo di “trionfi della morte” cattolico-pagani che entusiasmarono anche Eisenstein, durante la sua sfortunata trasferta messicana.
Infine, sempre gli stessi mostri sono una precisa eredità del poco cinema spagnolo che, negli anni finali della dittatura, osò sfidare, o anche solo accennare, al vero “trionfo della morte”: i tre anni di battaglie e di stragi che opposero l’esercito repubblicano alle milizie di Francisco Franco.
Anche in questo caso, mi rifaccio a quanto ho già scritto in una precedente puntata di questa rubrica.

''Lo spirito dell'alveare''Il più celebre, o meglio il più bello e misterioso di quei film è, infatti, Lo spirito dell’alveare di Victor Erice, ambientato nel 1940 – un anno dopo la fine della guerra civile – in un paesino isolato nella Meseta che separa Madrid dalla Mancha.
Anche in questo borgo ci sono molti bambini, una scuola, una famiglia che si direbbe alto borghese o aristocratica, isolata in una villa, estranea al mondo che la circonda.  
Il capo famiglia è uno studioso imperturbabile che vive esclusivamente nel suo laboratorio, osservando la vita delle api. Il riferimento al titolo del film è una prima terribile allegoria sulla società degli uomini che, proprio nella recente guerra, ha intrapreso, forse incoscientemente,  un esperimento sociale simile alla vita delle api, protesa esclusivamente al benessere della Regina e della sua corte. Ma l’uomo si è appunto estraniato dal conflitto, rimanendo incontaminato.

''Lo spirito dell'alveare''Attorno a lui, però il mondo reale esiste ancora: c’è una donna che attende una lettera dal suo fidanzato o amante, disperso in guerra; un reduce, sicuramente repubblicano, sfuggito al massacro, che si rifugia in un casolare isolato, prima di essere ucciso dalla Guardia Civil.
Infine, le vere protagoniste sono due bambine  che finiscono per confondere realtà e finzione. Difatti nel paesino c’è non solo una scuola – e l’insegnante spiega l’anatomia in maniera quasi favolistica, quasi dovesse trovare un antidoto alla “dissezione” cruenta della guerra –  ma anche un magazzino che, di tanto in tanto, ospita un cinematografo ambulante. Qui le due protagoniste, sorelle, vedono il film Frankenstein di James Whale (1931) e la più piccola viene colpita dalla scena nella quale il Mostro – non a caso anch’egli un morto vivente – fa amicizia con una bambina, per poi ucciderla in preda alla paura, ed essere ucciso, a sua volta, dalla popolazione locale.

''Lo spirito dell'alveare''Da questa scena madre, quasi un sogno con se stessa protagonista, che vorrebbe aiutare il Mostro, nasce l’identificazione con il miliziano ricercato, e poi ucciso e esposto in municipio, ed infine la fuga verso il fiume, alla ricerca di un mostro da adottare.
Lo spirito dell’alveare è un film quasi impalpabile, nel quale violenza e morte sono finzioni filmiche estreme che non possono essere assorbite dal reale, se non attraverso identificazioni patologiche e sintomatiche di una spoliazione totale della vita sociale. Lo slittamento di senso dai fantasmi della guerra civile – incarnatosi nei “mostri” che dimorano in luoghi inaccessibili, a protezione degli stessi e dei loro abitanti, scampati ai massacri e alla caccia all’uomo che fece seguito alla guerra del 1936-1939 – alla simbolizzazione della creatura di La forma dell’acqua, che racchiude un’inesistente minaccia alla sopravvivenza dell’America o del mondo occidentale è anche un modo grottesco di rileggere la società americana del tempo e le sue ossessioni. 

''Il dottor Stranamore''Grottesco ma volutamente ironico fino all’irrisione dei “cattivi” da fumetto (il responsabile del bunker, che, dopo uno scontro con il mostro, sembra progressivamente putrefarsi; gli agenti sovietici o il generale che pare uscito da Il dottor Stranamore di Kubrick), contrapposti al sacrificio assoluto della ragazza che danza nelle acque profonde del mare con il suo amore.
Forse ci vorrebbe un nuovo film di Guillermo del Toro che tenti di scavalcare quest’epica dell’amore e della morte, tipicamente fiabesca ma anche, in qualche modo, wagneriana, con una risalita dalle acque profonde in cui si nascondono i fuggiaschi, per approdare alle ribellioni e alle utopie degli anni Sessanta e Settanta che volevano appunto distruggere le mostruosità germogliate e cresciute smisuratamente nel genere umano.

10 marzo 2018

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