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Kubrick novanta: l'ordine e il caos

Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

''2001: Odissea nello spazio''Nell’estate appena conclusa ho rivisto in una sala cinematografica 2001 Odissea nello spazio. Il sonoro era ottimo, al punto da percepire quella musica/rumore di fondo – in realtà di Ligeti – che dovrebbe acclimatare lo spettatore in uno spazio infinito e angosciante. Lo schermo era sufficientemente grande, quasi avvolgente, di nuovo per accogliere lo spettatore in un universo immaginario solcato dalle astronavi.

Nella sala, in un agosto assolato e caldissimo, c’erano una cinquantina di ragazzi e qualche coetaneo, forse anche lui nostalgico: cifre record per la stagione, e si può anche soprassedere sul fatto che quei giovani silenziosissimi, durante l’intervallo, andassero a fare provviste di patatine, pop corn, caramelle e bevande varie.
Per dirla tutta, ho festeggiato a modo mio il cinquantenario della pellicola di Stanley Kubrick e il novantesimo della sua nascita. La celebrazione  – durata troppo poco: le 2 ore e quaranta sono volate via – non sostituisce però il dovere di raccontare un inventore  di cinema fortunatamente non inattuale, nonostante l’inesorabile scorrere del tempo e dei gusti del pubblico.
Il termine inattuale è certamente  discutibile, visto che, in occasione di una altra commemorazione, i 100 anni dalla nascita di Bergman e i 10 anni dalla sua scomparsa, ho cercato di sottolineare una sorta di classicità del suo cinema iper prolifico, diseguale ma immenso, non archiviabile in alcun deposito dei capolavori di cui si parla molto senza osare rivederli.

Ebbene, anche Kubrick è certamente senza eredi ma i suoi pochissimi film – tredici lungometraggi in oltre 46 anni di carriera – sono in larga misura “maneggiati” con grande disinvoltura non tanto dalla critica, il cui compito è misurarsi continuamente con le false certezze della storia del cinema e delle altre arti,   quanto da un pubblico che non è solo rubricabile nella cinefilia internazionale ma piuttosto tra i comuni spettatori di ogni generazione.
Questa curiosa “discrepanza” tra l’accettazione di una filmografia spettacolare – e il termine non è usato in senso demonizzante, tutt’altro – e lo studio delle sue caratteristiche autoriali, ovvero uniche e certamente innovative sul piano poetico e estetico, è certo il nodo entro il quale cercare di analizzare brevemente il fenomeno Kubrick, magari iniziando proprio dal film più celebre, 2001. Odissea nello spazio, e dal suo lungo percorso tra il pubblico e la critica.
Per personalizzare il problema, vidi il film nel 1969, in seconda visione, per una semplice questione di denaro. Inutile sottolineare che facevo parte del pubblico indifferenziato.

''2001: Odissea nello spazio''Rimasi confuso ma affascinato da quella costruzione spettacolare che faceva a pezzi i giocattoli della fantascienza filmica del dopoguerra – diciamo da Ultimatum alla terra (1951) in poi – per poi inoltrarsi nei misteri del cosmo, dell’intelligenza artificiale (ma allora il termine non era alla portata del pubblico) e di un possibile ciclo continuo dell’esistenza. Ma anche quest’ultimo concetto, presente nel lunghissimo viaggio finale verso Giove e nella successiva stanza della morte e della rinascita, non era così facile da definire o semplicemente da mettere a fuoco, almeno per un diciottenne abituato a vedere film western.
Poi lo rividi nel 1974, in occasione della riedizione italiana. Ebbi in omaggio, come tutti gli altri spettatori, un opuscolo in cui si spiegavano le cosiddette “incognite” del film. In primo luogo il monolite, e poi, nell’ordine, le tecnologie avveniristiche che, pur verosimili, almeno secondo gli scienziati, erano fuori dalla portata informativa del comune spettatore. Ma soprattutto il misterioso finale, con il protagonista che osserva se stesso mentre vive un’esistenza velocissima, per poi morire ed eternarsi in un feto spaziale.
Prescindendo dalla validità delle interpretazioni, c’era qualcosa di paradossale in quelle “istruzioni per l’uso”. Infatti, sei anni prima, quando il film uscì in prima visione, le “incognite” non ne ostacolarono il successo. Anche i tantissimi che, per loro stessa ammissione, “non ne avevano capito molto”, poi confessavano di essere stati ipnotizzati, soprattutto nella seconda parte, dalle immagini e di non aver pensato ad interpretarle.

D’altro canto, Kubrick, dribblando la critica giustamente razionalista, definì la sua opera come un’esperienza soprattutto auditiva-visiva: pochi dialoghi e non sempre legati al racconto, molta musica extradiegetica che, talvolta, non sembra neanche tale, vista la stretta associazione con la scena o la quasi dipendenza da essa.
A questo risultato il regista era giunto per gradi e per strappi: partito dalla fantascienza parascientifica, scelse poi uno smilzo testo di Arthur C. Clarke, La sentinella, che descriveva una stazione radio nascosta sulla Luna. Nel racconto si postula l’esistenza di alieni che, dallo spazio profondo, milioni di anni fa, hanno lanciato messaggi nei diversi pianeti.
Da La sentinella fu ricavata una sceneggiatura e poi un romanzo autonomo di Clarke. Nel  corso della lavorazione del film, ed anche dopo, in fase di montaggio, Kubrick asciugò il racconto fino a raggiungere una paradossale incompiutezza narrativo-drammaturgica giustificata dalla problematica teleologica: non c’è alcun disegno finalistico all’avventura dell’uomo.
Così oggi si può affermare che la fama “atemporale” dell’opera ha spazzato via le discussioni di 45 anni fa: ciò che, nel 1968, era necessariamente legato ai possibili e poi realizzati viaggi spaziali, oggi è un utopico/distopico viaggio nel futuro, che da un lato è molto vicino ad altri esempi di fantascienza contemporanea, dall’altro contesta proprio la presunta razionalità “filmica”  di questo apparato che non ha bisogno di giustificazioni scientifiche.

''2001: Odissea nello spazio''E ancora, la forma prevalentemente scenica, la scansione temporale ellittica, il montaggio intellettuale (l’osso che si trasforma in astronave, ovvero il lunghissimo viaggio della tecnologia), l’esperienza quasi psichedelica dell’assorbimento del protagonista nell’atmosfera di Giove, sono alla base della permanente attualità del film, anche tra il pubblico giovanile, voglioso appunto di essere ipnotizzato da esperienze visive straordinarie.
Insomma, 2001. Odissea nello spazio resta un grandissimo spettacolo d’avanguardia che nasconde/rivela due quesiti attualissimi. Il primo riguarda una sorta di rigenerazione nietzschiana (l’approdo alla stanza dei misteri su Giove e il feto vagante nello spazio) che si arresta di fronte ad una presenza, il monolite, diventata sacrale, e non più solo aliena.
Il secondo ritorna sulla terra, ovvero elegge come divinità assoluta una creatura della scienza e della tecnica, il computer Hal 9000: talmente perfetto da essere imperfetto, cattivo, egocentrico, e soprattutto soprafatto dalla solitudine. Come ogni essere umano, insomma.
E qui di nuovo, si rivela la grandezza di Kubrick che, dopo averci fatto sbarrare gli occhi per le invenzioni sceniche, ci riporta ad una drammaturgia essenziale e tragica.
In una scena dai contorni figurativi pop, il viaggio del protagonista nel cervello del computer si conclude con una triste filastrocca di un malato terminale (il computer) che rievoca l’infanzia: “giro-giro tondo…”. Pochi minuti che valgono l’intera serie di film, anche belli e famosi, nonché scoppiettanti, sugli androidi umanizzati.

Ma Kubrick, com’è ovvio, non può essere considerato autore di un unico film, benché di valore assoluto: la carriera del regista americano è difficilmente divisibile in film riusciti e non riusciti, giusto per minimizzare il naturale contrasto che la critica usa per giudicare le opere dei registi più celebri.
Si può dunque iniziare con la cronaca biografica. Figlio di un medico newyorchese di origini ebraico-viennesi, il giovane Stanley, per cinque anni, dal 1945 al1950 si guadagna da vivere vendendo istantanee, spesso di cronaca pura, alle riviste illustrate, soprattutto “Look” e “Life”.
Questo breve ma importante apprendistato è oggi documentato in diverse pubblicazioni, anche italiane.
Ma, a parte un brutto – ma sintomatico – film di guerra, Paura e desiderio (1953), che costituisce il suo esordio nel lungometraggio a soggetto, tracce della sua prima professione sono rilevabili in una piccola serie documentaria, notevolissima (Day of the Fight, Il padre volante, The seafares) e soprattutto nel suo secondo titolo, Il bacio dell’assassino, girato nel 1955.
In questo film l’apertura in campo lungo con l’attore protagonista al centro dell’inquadratura, sovrastato dalla Grand Central Station di New York, è appunto un grandioso “residuo” della sua prima passione. Non caso, Il bacio dell’assassino fu l’ultimo titolo in cui Kubrick fu anche  direttore della fotografia e operatore alla macchina.

''Il bacio dell'assassino''Le scene iniziali  e molte delle successive ricalcano le atmosfere di Weegee, alias Arthur Fellig, il fotografo che batteva le strade di New York, di notte, alla ricerca di morti ammazzati “ancora caldi”.
Proprio la geografia urbana  straordinariamente realista di Il bacio dell’assassino – la cui trama noir è invece di maniera – sembra voler far affogare il racconto in un ritratto metropolitano dove ogni immagine apparentemente colta al volo – si pensi ai due clown che finiranno, inconsapevolmente, per innescare la seconda parte delle avventure del protagonista – racchiude una storia che non sempre potrà essere svelata. Non a caso, su un piano già connotativo, dalle foto di famiglia della protagonista femminile si sviluppa un racconto puramente orale, una sorta di melodramma ritmato dall’immagine di una ballerina, ovvero il sogno di gloria della sorella della protagonista.
Per contrasto, proprio la finestra illuminata che mostra una ragazza, dirimpettaia del personaggio maschile, è appunto lo schermo dal quale scaturisce la principale trama “noir”, e contemporaneamente sentimentale, che finirà per sovrastare la centralità delle immagini fotografiche.
Nel suo ingenuo minimalismo narrativo, Il bacio dell’assassino è già un film di grande audacia sperimentale, che prelude alla ricerca spasmodica di una cifra formale più o meno unica, anche se variata di pellicola in pellicola.

Appena un anno dopo, appare  Rapina a mano armata, un film che piacque molto a Welles,  forse per la sua destrutturazione narrativa che finiva per focalizzarsi sui personaggi: dei perdenti classici, se non “disperati” del romanzo e del cinema americano, da Hemingway a Huston. E proprio a Huston, cioè allo straordinario finale di Il tesoro della Sierra Madre (1944), e al fallimento, anche esistenziale, di Giungla d’asfalto (1948) – citato comunque anche nell’attesa della fuga di Il bacio dell’assassino – rimanda l’atmosfera del film, che ha in Sterling Hayden il suo “villain” perdente e tutto sommato sfortunato, in quello straordinario finale nel quale i soldi, come l’oro di Il tesoro della Sierra madre, volano via.
Dunque, anche il primo grande titolo di Kubrick è un vero e proprio film di genere la cui forma  sfugge alle classificazioni, per indicare una sorta di necessaria frantumazione del tempo in tanti insiemi diacronici, come a voler espandere la visione e la narrazione oltre i confini dello schermo ed eludere l’eccessiva concentrazione del “plot” sulla preparazione e realizzazione della rapina.
Eppure, proprio questa perfezione geometrica, che cita gli scacchi come metafora di ogni strategia, rischia di apparire artificiale, se messa confronto con l’apparente anarchia visiva di Il bacio dell’assassino, uno dei film metropolitani, debitore alla pittura della solitudine di Edward Hopper, più “attrattivi” dell’intera storia del cinema. Ma soprattutto l’opera che anticipa l’ossessiva filosofia percettiva del cinema di Kubrick: l’oscillare del mondo e del suo animale più intelligente, l’uomo, tra l’ordine e il caos.

''Orizzonti di gloria''Il film successivo, Orizzonti di gloria (1957), espande ulteriormente la visione filmica, fissandola nel caos degli assalti dei fanti francesi verso le trincee tedesche, durante la prima guerra mondiale, e contrapponendo questo inferno ai grandi saloni storici che ospitano i comandanti, estranei alla sofferenza e alla morte dei loro uomini.
Entrambi gli insiemi hanno una logica rappresentativa costruita attraverso una simbologia: i saloni hanno pavimenti che assomigliano a grandi scacchiere, ovvero a scenari nei quali soldati e ufficiali, pedoni e torri e cavalli, si possono sacrificare. Il gioco simbolico è accentuato da quella cicatrice in viso che deturpa il viso del generale: in realtà, è una sorta di decorazione d’onore e coraggio, legata a qualche duello. Ecco un primo segno storico: alla base della Grande Guerra c’era ancora un’ideologia ottocentesca legata all’onore, alla cavalleria, all’eroismo. Sui campi di battaglia, c’è invece una realtà miseranda: quella trincea infinita, lineare, che percorre il colonnello Dax (Kirk Douglas, anche produttore del film), prima dell’assalto, è l’apparente ordine perfetto che discende naturalmente dalle decisioni prese nei saloni aristocratici.
 Ma è proprio quell’ordine perfetto che si trasforma nel caos della vera guerra e del conseguente massacro, poi accentuato da quella tragica farsa che sarà il processo e la decimazione dei soldati che non hanno avuto la fortuna di essere uccisi dai tedeschi.

''Spartacus''E siamo a Spartacus (1960), grandioso e controverso – soprattutto sul piano storico – “peplum” sullo schiavo che, così dice la mitologia, rischiò di far crollare la grande Roma, 73 anni prima della nascita di Cristo.
Kubrick si trovò quasi obbligato a girarlo – senza poter mettere voce sulla sceneggiatura del redivivo Dalton Trumbo, ex perseguitato dai maccartisti –  visto che l’attore e produttore, Kirk Douglas, non sopportava Anthony Mann, il regista inizialmente designato, e chiese aiuto all’amico che, ovviamente, non poté rifiutare.
Intanto, va segnalato che Spartacus è già il terzo “genere” – quello storico-avventuroso – che Kubrick si trova ad affrontare e a “domare”, cioè a far proprio, sia pure con tutte le riserve del caso.
Però è un vero film che, di nuovo, mette a confronto grandezza e miseria degli esseri umani – anche di quelli eroici e libertari come Spartacus – con la macchina distruttrice della storia.
La guerra di Spartacus, in fondo, anticipa storicamente quella di Orizzonti di gloria, con le stesse contrapposizioni di ordine (quello romano) e caos.

Dopo un progetto abortito di western, I due volti della vendetta (1961) – quarto genere sul quale inciampa il regista (e che genere!), e che fu, alla fine, prodotto, diretto e interpretato da Marlon Brando – il film successivo, Lolita (1962), benché non sia considerato tra i “top” della sua filmografia, è certamente tra le opere più importanti di Kubrick: una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo o, per dirla diversamente, il suo primo film d’autore in senso classico.
La delicatezza dell’affaire Lolita – romanzo scritto, in inglese, a Parigi nel 1955 – sta nel fatto che il rapporto sentimentale del protagonista, Humbert Humbert, con la figliastra è di natura apertamente pedofila.
Nel romanzo, la ragazzina, figlia della proprietaria della pensione in cui alloggia il protagonista, poi marito della donna, ha appena dodici anni. Ad Humbert ricorda una sua avventura da adolescente in Costa Azzurra: un’ossessione che sembra ri-materializzarsi nel nuovo mondo, ultima tappa delle avventure dello scrittore russo.
Non volendo affrontare le polemiche relative alla trasposizione del romanzo di Nabokov – anch’esso quasi messo al bando negli Usa, nonostante lo straordinario successo – decise di trasferire la produzione in Gran Bretagna, che poi divenne  la sua seconda patria, fino alla morte.

''Lolita''Ma certo quei dodici anni avrebbero costituito un ostacolo insuperabile in ogni parte del mondo. Così Kubrick scelse di aumentare notevolmente l’età anagrafica di Lolita, portandola a sedici anni. Minorenne ma già edotta ai misteri del sesso.
Questa eversione nei confronti del romanzo fu preceduta da un lungo lavoro di scrittura nel quale fu coinvolto lo stesso Nabokov, autore di una bella sceneggiatura che Kubrick rifiutò perché eccessivamente autobiografica. Fu ripescata nel 2001 da Luca Ronconi che la mise in scena al Piccolo Teatro di Milano, caratterizzandola non già per la “ricostituzione” della trama cancellata da Kubrick, quanto per un folgorante ripasso e estremizzazione dei ruggenti anni Cinquanta americana, borghesi, libertari (ma non contestativi), coloratissimi. Una sorta di “American Graffiti” nei cui confini si aggira il Nabokov professore e  malato d’amore, alla ricerca della sua Lolita, ninfetta ormai normalizzata.
E, d’altronde, il senso del film di Kubrick, con quella cornice entro i cui confini diegetici si consuma la vendetta del povero Humbert nei confronti di chi gli aveva “strappato” la sua, apparentemente ingenua, Lolita, racconta appunto, lo spaesamento di un europeo – magari ossessionato dalle ninfette ma tradizionalista e pronto a trasformarsi in un perfetto marito e padre di famiglia – nella giungla della modernità americana.

Ampliando a dismisura il ruolo di Guilty – che il grande Peter Sellers trasforma nel simbolo della beffarda libertà assoluta che Humbert non potrebbe mai concepire – il senso del film si concentra interamente nello spaesamento del protagonista. Uomo di lettere, non può sospettare che il suo peccato non venga riconosciuto come tale in una società moralista ma paradossalmente ultra libertaria, come quella dell’America post-bellica.
Il successivo film, Il dottor Stranamore (1964), girato di nuovo negli Usa, non è mai stato ai vertici della popolarità critica, pur avendo avuto uno straordinario successo di pubblico.
La ragione di questa accoglienza ondivaga riguardava e riguarda tuttora, come per gli altri film di Kubrick, l’appartenenza di genere, cioè la sicurezza critica: che tipo di film è? Questa potrebbe essere anche la perplessità di uno spettatore contemporaneo che pure è abituato alla trasversalità dei generi.
Per farla breve, il film appartiene ad un sottogenere che, a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ebbe una certa importanza nel cinema americano: la possibile guerra nucleare con relativa distruzione del mondo. Si può ricordare che, nel 1962, ci fu un vero e proprio confronto navale, al largo di Cuba, tra gli USA e l’URSS. Un improvviso “riscaldamento” della Guerra Fredda, dovuto al tentativo sovietico di dislocare dei missili nucleari nell’isola governata da Fidel Castro.

''Il dottor Stranamore''Qualche anno prima, nel 1959, era stato prodotto e diretto da Stanley Kramer un film piuttosto bello, L’ultima spiaggia, il cui scenario era una terra ormai quasi totalmente deserta, con tante metropoli i cui grattacieli svettavano senza più alcun abitante in vita e con la sola Australia che attendeva l’arrivo dell’epidemia post nucleare che avrebbe avvelenato acqua e aria, uccidendo gli ultimi esemplari della specie umana. Scientificamente discutibile, fu comunque un titolo piuttosto eclatante, proprio per la sua posizione quasi terroristica.
Il film di Kubrick è invece una commedia, al limite dello “slapstick” – soprattutto per quel finale nel quale Slim Pickens cavalca entusiasticamente la bomba atomica che deve distruggere una città sovietica – ma il suo motivo scatenante è appunto in sintonia con la grande paura della Bomba, risvegliatasi dopo l’affare di Cuba.
Non a caso, nello stesso anno, arrivò nelle sale un bel film di Sidney Lumet, A prova di errore, nel quale un presidente USA che ha il volto di Henry Fonda, dopo aver appreso che una informazione equivoca ha provocato un bombardamento preventivo su una città sovietica, dopo continue consultazioni con il presidente dell’URSS, decide che, per evitare una guerra totale, offrirà come risarcimento all’URSS l’auto distruzione della città di New York.

Com’era prevedibile, il film non ebbe alcun successo, e, nel 2000, quando fu rifatto da Stephens Frears per la tv, incontrò – pur essendo finita da tempo la guerra fredda e l’URSS – la stessa reazione negativa, originata dalla paura.
La schermaglia politico-militare tra USA e URSS è anche alla base di Il dottor Stranamore, quasi completamente racchiuso, scenicamente, nella sala strategica di Washington, sovrastata da grandi schermi che illustrano agli scienziati e ai militari il probabile confronto militare. Solo che, progressivamente, anche lo scenario apocalittico-distopico, assume i contorni della comica, per concludersi con la cavalcata western – tra le nuvole – del maggiore che, per primo, ha avuto l’ordine di attaccare.
 Il successo del film si dovette, probabilmente, a questo disincanto: mostrare il volto “pagliaccesco” dei guardiani dell’ordine mondiale non era certo rassicurante ma tuttavia meno terrorizzante delle distopie tragiche delle altre pellicole dell’epoca.

''Arancia meccanica''E siamo al 1972, ovvero ad Arancia Meccanica. Come per 2001 cercherò di ricordare le mie memorie di  spettatore, soprattutto considerando che il film ebbe, a dispetto del successo di pubblico, una vita travagliata non solo da censure esplicite ma da accoglienze sospettose quando non ostili, che finirono per far ritirare il film, su decisione del regista, dall’intera Gran Bretagna.
Ma, prescindendo da questa provocatoria decisione di Kubrick, anche in Italia, dopo il divieto ai minori di 18 anni e persino dopo il declassamento a 14 del 1998, non fu trasmesso in televisione se non nel 2007 e in seconda serata, sulla La7, un’emittente coraggiosa ma senza grandi ascolti. Fu poi raramente replicato, anche nelle tv a pagamento, come se ancora spaventasse non già i controllori dell’audience, che sarebbero stati soddisfatti di ulteriori successi, ma i controllori occulti del pensiero degli spettatori.
Dunque, nel 1972,  il film provocò, in Europa, un’ondata di entusiasmo e, contemporaneamente, di assoluta repulsione. Pochi intellettuali tentarono di riportare il film all’originale letterario di Antony Burgess, pubblicato nel 1962, nel quale il termine “orange” è, contemporaneamente, un vegetale esplosivo, metafora della violenza del protagonista, e, in traduzione dal malese – Burgess era stato a lungo in oriente, come agente dei servizi segreti – un uomo (“orang”) che, nel romanzo diventa meccanico: non ha libero arbitrio e si comporta o come un selvaggio primitivo che deve sopraffare chiunque incontri o sottomettersi passivamente a qualcuno più forte di lui.

Questi aspetti sono interamente dentro il film di Kubrick, però con numerose aggiunte, soprattutto nella terza parte nella quale Alex, il protagonista,  non può che mettersi al servizio del potere.
In ogni caso, ciò che principalmente colpì fu la deriva quasi terroristica, senza alcuna motivazione, dei giovani provenienti dalle periferie delle grandi metropoli. Probabilmente l’invenzione non era affatto fantastica – perlomeno in occidente – ma cozzava contro la stringente attualità della rivolta, politica, sociale e culturale, della medesima gioventù occidentale, teoricamente votata ad un cambiamento positivo del mondo.
Da ex estremista di sinistra posso testimoniare che il film fu fortemente attrattivo ma anche osservato con perplessità dai capi e capetti dei movimenti extra parlamentari, se non da tutta classe politica che si confrontava con la rivolta giovanile, spesso violenta ma anche motivata.
Il termine meno offensivo fu nichilista, e ad esso, si aggiungevano nietzschiano, anarchico, apocalittico: una sorta di fantascienza che si poteva persino collegare al monolite e al feto del precedente film del regista: ecco il mondo nuovo nato dal viaggio dell’astronauta di 2001.

''Full Metal Jacket''Poiché quegli anni di entusiasmo passarono in fretta, e purtroppo furono dominati da una violenza politica ben più feroce e pericolosa di quella messa in scena da Kubrick (insomma, le Brigate rosse e gli altri assassini di sinistra e di destra, in Italia e altrove, diventarono il vero nichilismo di fine secolo), progressivamente il film sembrò normalizzarsi.
Rimase, a livello critico, una delle poche affabulazioni “negative” sui giovani post bellici, assieme – e non a caso – ai motociclisti di Roma (1972) di Fellini, nuovi barbari pronti a diventare delle “arance meccaniche”, e ai giovanastri della borghesia/aristocrazia in disfacimento ritratti nel penultimo film di Visconti, Gruppo di famiglia in un interno (1974).
Passando all’oggi, e all’altro ieri (fine anni Novanta), quando il film fu di nuovo visibile in sala, ho di nuovo fatto i conti con l’effetto sorpresa. Come mi era già accaduto con un altro film di Kubrick, Full Metal Jacket – di cui scriverò più avanti – durante la prima mezz’ora fui affascinato dalla capacità di fare spettacolo, forzando le più classiche convenzioni cinematografiche.

In particolare, mi colpirono le costruzioni scenografiche che mescolano la pop-art e l’architettura criminale (la definizione è di Jacques Delors) delle periferie metropolitane. Più datata, ma non certo meno efficace, è l’irrisione beffarda, caricaturale, con cui il regista muove i suoi personaggi in una sorta di balletto allucinato, mostrando scarsa reverenza per i classici della musica ed anche per quelli del cinema: non solo Rossini e Beethoven ispirano al protagonisti immagini poco edificanti, ma, in uno dei pestaggi, Alex rifà Gene Kelly mentre canta e balla Singing in the rain. Pian piano – e l’effetto è calcolato – arriva la nausea, il disgusto, un senso di disagio e di turbamento. In pratica è quel che accade al protagonista, dapprima eroe dell’ultra violenza, poi curato dalla società fino al punto da diventare una larva umana, incapace di ogni difesa e non solo di offesa.
Come spesso accade per le provocazioni di Kubrick, la soluzione (cioè schierarsi per la pericolosa purezza di Alex o per i suoi severi medici sociali) non esiste: l’ordine e il caos  sono i due fattori ineliminabili di ogni contratto sociale.

''Barry Lindon''Anche Kubrick, comunque, pagò il suo prezzo alla perfezione filmica, viatico di tanti fallimenti commerciali. Accadde con il film successivo,  Barry Lindon.
Costato 13 milioni di dollari, suscitò da subito le perplessità dei dirigenti della Warner, che, pur avendo dato carta bianca al regista, dovettero confessare le loro ragionevoli perplessità sul bilancio economico finale dell’intera operazione.
La vicenda raccontata in Barry Lindon fu ricavata da una celebre opera letteraria dello scrittore vittoriano William Makepeace Thackeray, Le memorie di Barry Lindon scritte da lui stesso. Ha per protagonista un giovane rampollo della decaduta aristocrazia irlandese che fugge in Inghilterra, dopo una storia d’amore mancata e un duello con un ufficiale inglese, suo rivale. Costretto ad arruolarsi nelle truppe inglesi, partecipa alla guerra dei sette anni, diserta, diventa una spia prussiana, quindi un giocatore di carte, e infine impalma la vedova di un aristocratico e cerca in tutti i modi di diventare, attraverso i capitali della donna, un gentiluomo accettato a corte. Tutto inutile: Redmond Barry, questo il suo vero nome, alla fine dell’opera, ritornerà nella sua amata/odiata terra natale, e quindi riprenderà da capo le sue peregrinazioni in Europa.

Kubrick sfoltì e semplificò il racconto, o meglio lo  rivoltò. trasformandolo in un affresco storico: il Settecento che precede la frattura storica della rivoluzione francese. Il senso della pellicola sta infatti in una raffigurazione della Storia volutamente “sdoppiata”  tra i personaggi comuni e la memoria ufficiale, ovvero quella agiografico-documentaria rappresentata dalla cultura: le opere d’arte, i monumenti, le dimore nobiliari, la musica popolare e quella colta, ma soprattutto la pittura d’ambiente, in cui spiccano le celebri “conversation pieces” inglesi, citate, nella seconda parte del film, quasi testualmente.
In base a questa evidente progettualità, tutto, in Barry Lindon, diventa contrasto tra la meraviglia dell’immagine e del sonoro (musiche settecentesche, da Hendel a Mozart, passando per le marce militari, poi sovrastate dal magnifico e tristissimo  andante del trio op. 100 di Schubert, che annuncia il romanticismo, ovvero l’apparente trionfo dell’interiorità, contrapposta all’utilitarismo estremo della vita di Redmond) e la povertà umana dei personaggi.

''Barry Lindon''Luce naturale e candele (o torce e fuochi) erano le uniche fonti luminose  di ogni epoca che precede il Novecento. Kubrick si sottomette a questa esigenza realistica, grazie alla fotografia di John Alcolt, ad una pellicola sensibilissima e alle lenti che la Zeiss preparò qualche anno prima per l’esplorazione dello spazio da parte della Nasa. Così il film diventa una vivente galleria d’arte che rifà, non testualmente ma idealmente, il mondo settecentesco, citando spesso non solo i paesaggisti tedeschi romantici, ma soprattutto Hogart, Constable, Gainsborough, Zoffany (per le quadrerie nobiliari che acquista l’arrampicatore sociale Redmond Barry), Stubbs.
Una straordinaria sequenza, che riguarda Lady Lindon, distrutta dal dolore dopo la morte del figlio, è quasi un ricalco animato di un celebre quadro di Fussli, L’incubo. E non a caso il pittore tedesco è già pienamente romantico. Quella sequenza iper cinetica, seguita con la macchina a mano, e duplicata, più avanti, dalla rissa che si accende tra Redmond e il suo figliastro, Lord Bullingdon, è anche l’unico momento in cui i due personaggi principali si discostano dalla loro “fissità” rituale, appunto pittorica, per diventare essere umani dominati dai sentimenti.

Nel resto del film, la fissità, apparentemente illustrativa, si anima attraverso un unico movimento di macchina, che si potrebbe considerare come la forma filmica dominante: un lentissimo carrello all’indietro che, dai piani ravvicinati dei protagonisti – frammenti isolati di realtà illustrate – si allarga a mostrare l’intero spazio, ovvero a mettere in opposizione il quadro e il suo contesto reale.
Solo la celebre e lunga sequenza  della battaglia campestre tra le giubbe rosse inglesi e quelle blu dei francesi  rovescia il significato del movimento di macchina: la scena totale è basata su una ipnosi estetico-figurativa, mentre i dettagli mostrano i soldati mandati al massacro come bestie, ritualmente inquadrati in formazioni di “droni” umani.
Barry Lindon, nel suo grandioso “fallimento” commerciale, fu anche uno degli ultimi film storici, un genere consustanziale alla storia del cinema, fin da quel Nascita di una nazione che segnò l’inizio del racconto filmico articolato e divulgativo. Tutto sommato, la Warner non aveva sbagliato ad ipotizzarne l’eclissi.

''Shining''Cinque anni dopo, nel 1980, Kubrick avrà la sua rivincita commerciale con uno dei film più conosciuti, citati e amati dal pubblico, anche se non sempre dai critici.
Il titolo è Shining, tradotto in italiano come “luccicanza” o, per meglio dire, telepatia e qualcosa di più: capacità non solo di comunicare silenziosamente con i viventi di qualunque parte del mondo ma anche di vedere il passato degli ambienti in cui si trova.
È ciò che caratterizza il personaggio decisivo, se non principale, del film: il bambino Danny, figlio dello scrittore Jack Nicholson e della moglie Shelley Duvall, incaricati di fare i manutentori invernali di un Hotel di lusso, aperto solo in estate, situato sulle cime delle Montagne rocciose, nel Colorado.
Il nome dell’albergo, nella finzione, è Overlook, che come prima traduzione letterale significa “trascurare” o guardare sopra, cioè evitare lo sguardo diretto, forse pericoloso, come poi ci racconta il film, ispirato all’omonimo romanzo di Stephen King. Ma, in altre traduzioni più indirette o allegoriche, Overlook significa anche dominato, sorvegliato, controllato. Da chi?
Andando oltre il testo dello scrittore americano, le presenze oscure del film, poi anche visibili, stanno già in uno dei romanzi più belli e misteriosi di Henry James, Il giro di vite (1898). Come accade in quel capolavoro, difficilmente razionalizzabile, i fantasmi esistono o sono un frutto dell’immaginazione?

Di fatto, anche Shining è un film misterioso nel quale risalta facilmente la follia del protagonista, progressivamente “dominato” dalle oscure presenze che finiranno per trasformarlo da aspirante scrittore  a fantasma di un passato che viene a galla per frammenti, come se il blocco della creatività, ovvero la difficoltà a raccontare, fosse determinata dalla presenza di un mondo segreto che forse stava già nella testa del protagonista.
Sicché, come sempre in Kubrick, i top visivi e auditivi del film finiscono creare il vero “continuum” espressivo che domina anche la narrazione. Si comincia con la straordinaria panoramica aerea – resa inquietante dalla musica del fedele Ligeti –  che segue, come fosse un occhio divino, l’auto che percorre la tortuosa strada di montagna; si prosegue con  la prima apparizione delle gemelle “sommerse” dal sangue che inonda il corridoio nel quale Danny sta giocando con il suo triciclo, per arrivare, dopo un crescendo verso la follia, al riconoscimento di Nicholson nel bar animato dai fantasmi di epoche diverse: l’incubo del fallimento che si traduce in un abisso orrorifico.
Infine, nel finale, il labirinto,  ripreso in “plongée”, sottolinea di nuovo una sorta di sguardo alieno verso il mondo impazzito. L’ordine impossibile e, non a caso, ripetitivo e ammonitore, della scrittura del protagonista viene definitivamente distrutto dal caos della mente.

''Full Metal Jacket''Siamo quasi alla fine, con un ennesimo film di guerra, Full Metal Jacket (1987), genere in cui si esprime, evidentemente, tutto il potenziale intellettivo e distruttivo dell’uomo kubrickiano, “messo in scena” non a caso nell’esordio di 2001: il monolite, ovvero il Dio che ha permesso il salto della specie animale verso l’uomo, provoca l’immediata guerra tra le diverse tribù di primati, che hanno imparato ad uccidere con armi potenti: le ossa e le pietre.
In aggiunta, dopo i massacri della prima guerra mondiale, e, precedentemente, delle battaglie coreografiche dell’età dei lumi, e anche dopo la paura per un possibile olocausto nucleare, ecco la guerra che, sul piano dell’immaginario collettivo, ha coinvolto diverse generazioni di giovani americani: il Vietnam.
Ma Kubrick sembra disinteressato alla cornice storica e si concentra  da un lato, sulla formazione del  combattente perfetto, allo stesso modo vittima e assassino; dall’altro sul corpo a corpo con la morte e la regressione infantile dei combattenti che hanno salvato la pelle, almeno per quella missione: poi si vedrà.
La prima parte del film è quella più conosciuta, inevitabilmente surreale quando non comica per gli eccessi formativi del sergente Hartmann, l’addestratore dei marines, ovvero, come dice lui stesso, il formatore di coloro che hanno il compito di uccidere.

La risata si spegne, nel finale della prima parte, quando il soldato “palla di lardo” uccide il sergente, dimostrando di aver imparato il mestiere alla perfezione. Poi la guerra e il Vietnam ricalcano, in una drammaturgia essenziale, tutto ciò che già si sa e si è visto, attraverso la televisione, su quelle battaglie, solo che nella ricostruzione di Kubrick non ci sono censure: la brutalità e la morte dominano gli scenari bellici.
Infine, quel surreale inno agli eroi di Disney, dopo la battaglia, indica appunto la regressione: si torna bambini, benché preparati ad uccidere.
Penultimo film del regista americano, girato a Londra in una vecchia fabbrica che doveva essere demolita – e cominciò ad esserla con le riprese delle battaglie – Full Metal Jacket è probabilmente il testamento spirituale e filmico di Kubrick.
Lo si dice sempre, con molta ovvietà, dato che il regista è ormai scomparso, ma anche perché il suo ultimo film, Eyes wide shut, sembra, al contrario un film vecchio, a dispetto di tutto il virtuosismo dei movimenti di macchina e delle messe in scena ricchissime ed elaborate.
Tratto da Doppio sogno (1925) di Arthur Schnitzler, racconta di un reciproco tradimento tra coniugi borghesi e benestanti: l'uno (femminile) ristretto nell'ambito del desiderio; l'altro reale, ma immerso in una sorta di viaggio dantesco: un incubo ad occhi aperti, un percorso di iniziazione entro i cui confini “eros” e  “thanatos” corrono paralleli.

''Eyes wide shut''Kubrick pensò ad una trasposizione attualizzata del racconto alla fine degli anni Sessanta, un’epoca di credenze morali ancora forti. L’attualizzazione del 1999, anno dell’uscita nelle sale, non sembra però una  forzatura eversiva (sia pure in chiave psicanalitica) della sacralità della famiglia e della vita borghese.
È semmai un riepilogo, al limite della banalità e dell’ovvietà (mi dispiace usare questi termini) della principale ossessione presente nel cinema di Kubrick: la normalità, ovvero l’ordine delle cose, giudicato sempre innaturale anche se necessario.
In questo senso, anche, figurativamente, il titolo più vicino a Eyes wide shut è Shining: per i suoi colori allucinati e iperrealisti, le sue allusioni ad un Overlock Hotel diffuso, i suoi percorsi labirintici e mortuari che si aprono come trappole di fronte al protagonista.
Curiosamente il film è molto fedele al libro: ovvero gli accadimenti (e persino molti dialoghi) sono gli stessi e gli sceneggiatori – lo stesso Kubrick e Frederic Raphael – hanno aggiunto solo tre piccoli inserti diegetici: la sequenza in cui, durante il ballo, una ragazza ha una crisi da assunzione di droga; la secca chiusura con Nicole Kidman (bravissima) che propone il sesso come rimedio alla crisi coniugale; il colloquio nel pre-finale tra Cruise e Sidney Pollack.

Tutte aggiunte che, in qualche modo, offrono una spiegazione normalizzante a quel mondo di misteri che il protagonista non è stato in grado di decifrare.
In questo eccesso di didascalismo, oscillante tra l'impossibile fedeltà letteraria e la nota a pie’ di pagina, sta anche il limite del film. Perché infatti né la letterarietà romanzesca, né la sua forzatura didascalica sono in grado di stare al passo di un testo legato ad una società molto più chiusa, permeata di un diverso concetto di decadenza morale.
Oggi, o l’altro ieri, il neopaganesimo messo in scena da Kubrick non sorprende più: fa parte di un nuovo ordine sociale che ha assorbito anche il caos.

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