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Percorso

Polonia: "Guerra fredda" tra storia e sentimenti

Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla
Cold War (2018), Ida (2014) di Pawel Pawlikowski, Mani in alto (1968), Quattro notti con Anna (2008) di Jerzy Skolimowski, Il decalogo 8 (1988) di Krzysztof Kieślowski

''Cold War''Cinema e storia. E politica, che dopotutto è inclusa nella storia, e viceversa.
Sugli schermi è apparso, non fugacemente, dopo il premio per la regia a Cannes 2018, Cold War di Pawel Pawlikowski.  Regista cosmopolita di 60 anni, figlio di genitori polacchi fuggiti dal loro paese nel 1954, attivo  soprattutto in Gran Bretagna e negli Usa, aveva presentato nel 2013, Ida, prodotto e girato in quello che, attualmente, è il suo paese “ritrovato”: la Polonia.

La sua filmografia precedente è assolutamente sconosciuta in Italia e anche la critica non ha confidenza con questo autore che ha  girato Ida – e parzialmente anche Cold War – in un bianco e nero quasi “scolpito”, soprattutto negli interni, con un formato anni Cinquanta (1.66, che corrisponde al “quattro/terzii” televisivo) e con una narrazione fatta di continue ellissi e di vere e proprie cancellazioni della centralità del visivo umano, messo in angolo da panorami, strade, campagne.

Pawel PawlikowskiCon questo bagaglio estetico estremo, da cineasta d’avanguardia, la precedente pellicola aveva preso quota lentamente, fino ad affermarsi come miglior film straniero agli oscar 2014. Con questo riconoscimento Pawlikowski ha potuto essere finalmente considerato un autore di rango e soprattutto pensare ad un nuovo capitolo della rilettura, anche storica, della sua terra e della sua famiglia.
Lasciamo, per ora, Ida, di cui ho scritto, su questa stessa rubrica, nel 2014. Cold War (ovvero “Guerra fredda”: il titolo non potrebbe essere più storico e politico) è pieno di personaggi, fin dall’esordio, con quella lunga sfilata di suonatori, cantanti di strada, danzatrici e quant’altro, che un musicista, Wiktor (Tomasz Kot) e una dirigente del nuovo stato post bellico, Agata Kulesza, dovrebbero selezionare affinchè rappresentino ufficialmente l’identità culturale della Polonia.

''Cold War''Qualche funzionario della nuova burocrazia obietta che non è il caso di mettere assieme una compagnia di giro fatta di artisti per caso, spesso vagabondi per vocazione, ma l’esperimento riesce, e, nella selezione dei migliori, spicca la figura di Zula, giovane e bella (era l’interprete anche di Ida, Joanna Kulig) che canta benissimo e ha un repertorio che può benissimo fare a meno anche della tradizione popolare.
Si dice che sia finita in prigione per aver ucciso il padre, ma lei risponde che il genitore l’aveva scambiata per la madre e che lei l’aveva messo a posto. Non tutto è trasparente e puro nelle tradizioni, sembra dirci Pawlikowski.
Questo primo tassello tematico, apparentemente banale, dovrebbe servire o almeno aiutare la riconquista di una identità ad una nazione che, dopo la sua gloria passata come Granducato di Polonia e Lituania, grande potenza europea che durò quasi due secoli, tra il ‘500 e il ‘700, è stata sempre invasa e dominata dai suoi bellicosi vicini: la Prussia/Germania e la Russia/Unione Sovietica.
I fulminei 21 anni (1918-1939) di indipendenza – a Varsavia si è festeggiato, nel novembre del 2018, il centenario dello stato polacco – dovuta alla Prima guerra mondiale e alla vittoria sugli eserciti sovietici, furono seguiti da una seconda guerra devastante la cui principale conseguenza fu la cancellazione più o meno totale di una specifica identità nazionale, accettata o rimossa che fosse: l’ebraismo. Dei sei milioni di morti, calcolati per difetto o per eccesso, all’interno nei campi di sterminio nazisti, almeno tre erano ebrei polacchi.

''Cold War''Questo era il tema dominante di Ida: la sepoltura tombale e mai ufficialmente dichiarata del passato ebraico.
La traccia di questa cancellazione sta anche in Cold War, quando i dirigenti della compagnia di ballo e canto, soddisfatti  dei risultati artistici raggiunti e del successo popolare, ironizzano sul fatto che nel quadro di una ritrovata identità stona una bella ragazza bruna e con qualche tratto fisiognomico che ricorda evidentemente l’ebraismo (ma la parola non viene mai pronunciata). Qualcuno propone, sempre ironicamente, di farla almeno diventare bionda.
Dunque, questo ritorno alla purezza di una tradizione che si presume autentica – mai termine è stato più ambiguo, ieri come oggi – è il primo segno di un utopistico ritrovamento identitario. Ma subito dopo, arriva il secondo: i nuovi dirigenti della nazione, legata al comunismo sovietico, suggeriscono che con quell’apparato spettacolare si potrebbe esaltare non solo la tradizione ma anche il presente socialista e dunque portare il messaggio estetico-politico negli stati “fratelli”.
Detto fatto. A Berlino Est, durante una prima “tournè”, ad un tavolo di ristorante, si confrontano gli ex nemici, apparentemente pacificati dal socialismo.

''Cold War''Fino a questo punto, nonostante la bella cantante e il direttore musicale abbiano la loro storia amorosa, quasi ovvia, il film procede con una sovrapposizione del contesto pubblico su quello privato. Ma a Berlino, non ancora chiusa dal Muro, edificato nel 1961, Wiktor e Zula decidono di passare il confine e arrivare a Parigi, per dare un senso alla loro carriera di artisti e alla loro storia d’amore. Wiktor arriva a destinazione, Zula decide invece di tornare in patria.
Da questo momento in poi, l’impostazione narrativa e drammaturgica si ribalta: brevi sequenze, collocate geograficamente tra Parigi e la Polonia – separate drasticamente da qualche lungo secondo di nero – con un “breve incontro”, in Jugoslavia, quasi un “paese terzo” rispetto al dominio sovietico.
 Queste sequenze, sono ad un tempo intermezzi sentimentali e ambientazioni esistenziali e culturali che danno la misura del tempo storico. A Parigi Viktor suona il rock e poi, con il suo piano, sembra già in sintonia con il free-jazz o almeno con il “cold jazz” e il “be-bop” degli anni cinquanta. A suo fianco o al suo letto – anche in contemporanea con un nuovo “breve incontro”  con Zula – un amante ricca che probabilmente lo mantiene.

''Cold War''Infine, con una strizzata d’occhio ambigua e provocatoria, compone musica per il cinema. Qualche critico, esperto in “bmovies” italiani, ha riconosciuto il titolo, I vampiri di Freda (1959), che fu molto apprezzato in Francia. Si può dedurne  o che Pawlikowski abbia trovato il modo di inserire una sua preferenza filmica oscura, o che il povero Wiktor non se la cavasse bene, accettando di fare qualsiasi lavoro legato alle sue capacità artistiche. Propendo per la seconda ipotesi, e per due motivi: la prima è che quel lavoro non sembra entusiasmare Viktor: troppo oscuro per le sue ambizioni. La seconda è che Cold War è costruito, soprattutto nella frammentazione narrativa, sul richiamo-citazione del miglior cinema europeo dell’epoca, specchio, appunto di una società che cambiava, fuori e dentro la sua Polonia.
Tra i maggiori debiti d’autore europei, c’è, curiosamente, François Truffaut, maestro delle incertezze sentimentali. In uno dei suoi ultimi, grandi titoli, La signora della porta accanto, il tragico motto finale dopo un lungo girotondo di tentazioni, tradimenti e passioni, era “né con me né senza di me”.

''Cold War''Questo potrebbe essere anche il motto del finale rituale di Cold War, dopo l’ultimo tempestoso rientro di Viktor in Polonia (gli costa diversi anni di prigionia, alleviata dalle protezioni di Zula, nel frattempo sposata a un funzionario del partito), è un matrimonio/suicidio – un pezzo di cinema straordinario, ironico e tragico ad un tempo – in quel che resta di una chiesa di campagna, diroccata e sfondata nella sua cupola, ma alle cui pareti campeggiano due occhi divini: quel che resta di un grande affresco.
La sequenza è anche l’ultima delle citazioni, in realtà già apparsa nell’esordio del film, cioè tra le macerie di una Polonia da ricostruire: un richiamo al Dio imprevedibile ma pietoso di Kieswsloski, quasi un incrocio tra l’ebraismo e il cattolicesimo.

''Ida''Ed ora si può tornare sinteticamente a Ida, che si apre anch’esso con un richiamo religioso: la protagonista, Ida, appunto (l’attrice è già Joanna Kulig), è una giovane e bella ragazza che, nelle prime immagini, in abiti da novizia, vediamo pulire una statua di Cristo e poi collocarla, assieme alle compagne, anch’esse novizie, al centro di un cortile innevato. Il Cristo trionfante è già il simbolo di una presenza divina che tornerà spesso a sottolineare, anche attraverso la  sinfonia Jupiter di Mozart,  una sorta di effimera sorveglianza sui destini e sulle opere concrete dell’uomo.
In procinto di lasciare il noviziato per diventare monaca, la ragazza è quasi obbligata dalla superiora a concedersi un breve intervallo di libertà. Deve conoscere la zia, unica parente in vita, che nulla sa delle sue scelte religiose. Ida lascia il convento.

''Ida''Nell’inquadratura successiva appare, innevata, la prima delle lunghe strade, ripresa in campo totale, che dovrà percorrere in cerca della propria storia. La zia, Wanda, è un giudice che confessa alla nipote di essere nota come Wanda la sanguinaria, per aver condannato a morte molti oppositori del comunismo. In maniera quasi scostante, pur affezionandosi alla nipote, la donna chiama Ida la “suora ebrea” e le spiega che lei è l’unica sopravvissuta della sua famiglia, affidata ad un convento, togliendole però ogni speranza di rintracciare le tombe o i corpi dei genitori, che abitavano in campagna, salvo poi decidersi a ripercorrere, assieme alla nipote, l’itinerario della memoria e del dolore.
Per Ida il percorso è totalmente formativo, in senso storico, memoriale, e persino “mondano”: diventerà donna in una fulminea e intensa storia d’amore con un giovane musicista che esegue al sax Parker e Coltrane. Per Wanda, al contrario, il viaggio, sempre segnalato dalla simbologia delle strade senza fine attraverso l’immenso vuoto della campagna, è l’inizio di un tragico sprofondamento in una memoria totalmente rimossa e sostituita dalla “vendetta” verso i propri compatriotti che non hanno voluto adeguarsi al presunto buon governo comunista.

Krzysztof Kieslowski ''Decalogo''Per affinità tematica, ma soprattutto per la narrazione sfuggente e “aggrappata” quasi ai resti memoriali – in questo caso anche materiali, visto che una delle sequenze più  marcate è il disseppellimento delle poche ossa degli uccisi – il film può ricordare uno dei migliori episodi del Decalogo di Kiewslowski (1988), l’ottavo (Non dire falsa testimonianza), in cui una ricercatrice americana di origini ebreo-polacche, scampata al massacro, cerca di penetrare il muro apparentemente solidissimo di un’anziana insegnante cattolica che, trent’anni prima, avrebbe dovuto adottarla e spacciarla come sua parente. Anche in quel film il peso della memoria è, da un lato, soffocante e ambiguo per la donna anziana (e assolutamente invalicabile per il vero autore del salvataggio, un anziano sarto che, pur riconoscendo la ragazza, si rifiuta di parlare di quegli eventi), liberatorio per la giovane studentessa. Per inciso, le due vicende raccontate da e Pawlikowski – quasi parallele, almeno a livello narrativo – sembrano estratte dall’immensa raccolta (11 ore di film) di testimonianze e “novellizzazioni” raccolte nel 1985 da Claude Lanzmann in Shoah, tuttora l’indiscusso “breviario” dell’orrore nazista in Polonia, raccontato da protagonisti e testimoni.

''Ida''In realtà, Ida, pur rendendo omaggio – volontariamente o meno – a quei titoli non troppo distanti dal presente, ha una forma filmica che tende piuttosto a collegarsi con il passato quasi remoto del cinema polacco post bellico.
Ambientato nel 1961/62 – il segno inequivocabile è la canzone Ventiquattromila baci, già presente in un altro film simbolo dell’est Europa comunista degli anni Sessanta, Ti ricordi di Dolly Bell di Kusturica, girato nel 1981 – il contesto cittadino offre un riferimento esplicito a una sorta di positiva “gioventù bruciata” in perfetta sintonia con ciò che si vede, ad esempio, in Ingenui perversi (1960) di Wajda e Skolimowski.
La seduzione di Ida da parte del jazzista non può che ricordare quel film, magari facendo slittare il tono grottesco dei due autori citati verso il “pathos” del ritrovamento di una vita vera da parte della “suora ebrea”.

In realtà, anche quest’esplicita citazione da autentico “cinephile” serve non solo a contrapporre una nuova generazione “ribelle” alle tristi figure dell’immensa campagna polacca, in cui gli ebrei sono scomparsi per sempre, ma anche a sottolineare che in quella gloriosa “tranche” cinematografica si parlava poco o nulla della Shoah. L’unico cineasta che la evocò, sia pure allegoricamente fu Skolimowski che in Mani in alto mette in scena una sorta di teatralizzazione che anticipa La classe morta di Kantor. I vivi/morti di quello straordinario film sono dei medici trentenni, privilegiati che hanno rinunciato ai loro ideali per fare carriera. Si ritrovano per una rimpatriata e fingono (ma questo lo spettatore lo saprà solo alla fine) di fare un viaggio per andare a trovare un loro amico, in campagna, che ha scelto di fare il veterinario pur di sfuggire al conformismo. Il vagone nel quale s’imbarcano sarà il teatro di un happening surreale, quasi orgiastico, in cui quegli ex ragazzi rivoluzionari mimano il passato.

''Cold War''Ma, alla fine, il treno sarà comunque sempre fermo alla stazione di partenza e il vagone, di fatto, è uno di quelli – ormai un reperto storico – che servirono a portare i loro padri, fratelli maggiori, amici o vicini di casa, nei campi di concentramento e di sterminio. Mani in alto sarà l’ultimo film polacco di Skolimowski che sarà espulso dal suo paese.
La causa principale della sua espulsione fu la presenza, durante una cerimonia ufficiale organizzata all’Università, di un grande telone di omaggio a Stalin, disegnato e stampato dai futuri medici: il dittatore sovietico, aveva però quattro occhi. Anche se, negli anni Sessanta, Stalin era non solo morto ma anche, memorialmente, messo in soffitta da Krushev, la sua immagine severa e paterna faceva parte della storia della Polonia, rivista da governanti post bellici. E dunque era inaccettabile un simile oltraggio alla nuova identità polacca.
Un telone simile ricompare in Cold War, durante una cerimonia ufficiale, ma gli occhi sono solo due: il male è stato cancellato.

''Ida''Ida dunque, nei suoi percorsi attraverso paesaggi e strade vuote, certifica la scomparsa di un’identità polacca, quella ebraica, sterminata dal nazismo. Resta da recuperare quella autentica, secondo i funzionari culturali di Cold War. Ma, subito dopo, ecco apparire una nuova identità imposta: il comunismo e i legami con gli ex nemici, i russo-sovietici.
Dando retta non già e non solo a Pawlikowski e al suo film, ma anche alla storia – quest’anno si celebrano appunto i trent’anni della caduta del Muro di Berlino, prologo all’implosione totale del mondo comunista europeo e sovietico – ci si potrebbe agganciare persino alle ultime ed estreme polemiche sul ruolo dei nazionalismi – o dei neo nazionalismi – che, nell’Europa attuale, soprattutto nella sua parte orientale, sono, rinati quasi in opposizione all’idea di un’Europa dominata da quei paesi che, in fondo, lasciarono morire sotto il giogo nazista non solo la Polonia ma anche le altre nazioni nate nel 1918.

''Cold War''E ovviamente, si può e si deve avere paura di questi ritorni al passato – che non torna mai, fortunatamente – ma pure cercare di capirlo, di penetrare criticamente e senza preclusioni nello spirito nazionale di quei paesi che hanno vissuto come stati sovrani non più di una ventina d’anni.
Il sottotesto di Cold War racconta proprio questo: il disperdersi di una identità nazionale la cui purezza e autenticità è scomparsa da tempo e mai potrebbe essere resuscitata: l’identità ebraica non c’è più e certo a nessuno verrebbe in mente, dopo quello che è successo, di ricominciare da capo. Paradossalmente, Berlino è diventata la terza città ebraica, dopo Tel Aviv e New York, ma Varsavia non  sarà mai più una città con una forte presenza ebraica.

''Quattro notti con Anna''Il resto dell’identità plurima di questa nazione è come il vagare di Viktor tra il suo paese e il resto d’Europa: il disadattamento totale. La storia d’amore, fatta di brevi incontri, cela l’impossibilità di un legame definito, e questo, a sua volta, è un’allegoria di un impossibile legame con il proprio paese.
Resta la nostalgia, che si applica anche ad un passato mai esistito e mai vissuto. Forse è questo sentimento ambiguo ad aver persuaso un artista di sessant’anni, esule dal proprio paese, a ricominciare da capo, come d’altronde è capitato proprio all’ottantenne Skolimowski, che, nel 2008, dopo quarant’anni di esilio, ha girato un nuovo e bellissimo film nel proprio paese: Quattro notti con Anna. Un film estremo, ad un tempo contemporaneo – cioè ambientato nella Polonia di oggi – e antico, immerso nell’umanissima e tristissima campagna polacca, dove si aggirano ancora “i dannati della terra”, coloro che non si aspettano nulla dal presente e dal futuro. Non un bel messaggio per l’orgoglio nazionalista, ma pure questo è il mondo con il quale, al di là del cinematografo – ancora specchio dei tempi, nonostante tutto – si dovrà fare i conti nel prossimo futuro.

8 febbraio 2019

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