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Il neorealismo puro che resiste alle avanguardie degli anni sessanta

Memorie d’oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla.
Il brigante (1960), un film dimenicato firmato da Renato Castellani e Giuseppe Berto. E poi La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti, Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi, La sfida (1958) di Francesco Rosi, Il grido (1958) di Michelangelo Antonioni

''Il brigante''Tullio Kezich, in apertura del suo celebre saggio  Noi che abbiamo fatto la Dolce vita – pubblicato da Sellerio nel 2010 – raccontò di aver seguito la nascita e la produzione del film di Fellini, quasi per caso.
Era il 1958. Il critico e giornalista fu inviato a Roma per confezionare  ''un’inchiesta sul giovane cinema, dato per morto dagli orfani del neorealismo.''

Questa è appunto la motivazione iniziale che, attraverso diverse tappe, lo portò all’amicizia con Fellini e alla scrittura del diario di lavorazione di La dolce vita. Ma la frase citata, ovvero la motivazione del viaggio a Roma, per certi versi enigmatica – e vedremo perché – mi è tornata in mente vedendo (per la prima volta), e ovviamente, in tv, Il brigante di Renato Castellani, datato 1960 o 1961, anno in cui fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia  ottenendo il premio della critica internazionale, per poi essere dimenticato fino al 2016,  quando la Cineteca di Bologna lo restaurò e lo rimise nei circuiti culturali con l’apporto di Mediaset.

Potendo fare un esperimento, difficilissimo in era Internet, sarebbe interessante proiettare il film in un corso di storia del cinema – a qualunque livello – e chiedere ai partecipanti, dopo averlo visto, di datarlo (ovviamente per decennio) e di darne una definizione storico-critica.

''Non c'è pace tra gli ulivi''Io stesso, associando il titolo e l’argomento (la lotta dei contadini calabresi contro il latifondo a cavallo tra la fine del fascismo e le occupazioni delle terre nel primissimo dopoguerra) alla figura del regista, l’avrei definito neorealismo melodrammatico e datato attorno agli anni Cinquanta.
È lo stesso decennio che vide la parabola finale di un altro neorealista “spurio”, Giuseppe De Santis, campano laziale, autore, nel 1950, di Non c’è pace tra gli ulivi, film che riprende la tematica degli “ultimi”, cioè contadini e pastori meridionali in lotta contro i latifondisti. Castellani, che si formò alla scuola del “calligrafismo” paraletterario degli anni Trenta, nel dopoguerra fu però considerato un neorealista minore, anche se i suoi film ottennero sempre dei premi ai maggiori festival internazionali ed ebbero un successo di critica e di pubblico.  Questa successo arrise sia a quelli drammatici, ambientati durante il fascismo (nel 1946 Mio figlio professore; nel 1948 Sotto il sole di Roma) , sia quelli collocati frettolosamente  e inevitabilmente  nell’ambito del “neorealismo rosa”; ovvero delle commedie ambientante in luoghi nei quali si poteva comunque riconoscere un Italia “periferica”, quasi totalmente sconosciuta e ignorata dagli abitanti della città.

Questo neorealismo “minore”, calligrafico o rosa, esplose poi con la serie inaugurata da Pane, amore e fantasia (1953) di Comencini, e proseguita con altre pellicole dello stesso filone e, per certi versi, chiusa con il bellissimo Il medico e lo stregone (1958) di Monicelli, che pare un voluto alleggerimento del romanzo/memoriale di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1945). Era impossibile filmare l’originale: ci riuscì Rosi, ma solo nel 1979.

''Umberto D''Poiché le datazioni postume dei fenomeni culturali, ed un eccessivo rigore intellettuale e politico, ha messo la parola fine al neorealismo con Umberto D di De Sica e Zavattini, datato 1952, i cosiddetti “orfani del neorealismo”, e cioè buona parte della generazione post-bellica, cresciuta e formatasi però negli anni del fascismo e della guerra, si sarebbe trovata, già nel 1958, in contrasto o quanto meno scettica rispetto all’emersione di una “nuova ondata” di cineasti – la parola autore non era ancora stata coniata, perlomeno in Italia – tra i quali, appunto, Fellini.
In effetti, proprio il regista riminese era stato sceneggiatore e aiuto di Rossellini, il cui magistero principale – decisamente neorealista –  fu il considerare irrilevante la presenza di un racconto strutturato in maniera romanzesca, rispetto alla forza scenica e drammaturgica delle immagini del reale.  

Fellini ne fu certamente influenzato e, peraltro, anche la sua carriera, prima di La Dolce vita – diciamo con  La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, tutti girati nella seconda metà degli anni Cinquanta – può essere letta come un percorso a tappe, anche geografiche e ancora parzialmente neorealiste, cioè legate ad un Italia periferica – di avvicinamento alla modernità squassante della Capitale. Ecco trovato un primo e importantissimo giovane cineasta che, in realtà aveva già 38 anni.  

''La grande strada azzurra'''Insomma, se rifiutiamo le classificazioni rigide, per tutti gli anni Cinquanta, il neorealismo, declinato in maniera meno rigida rispetto alle teorizzazioni antispettacolari di un Zavattini o, diversamente, di un Rossellini, continua ad essere un punto di riferimento per molti registi, che magari non furono mai legati a quella corrente in maniera organica.
Ecco, dunque, una breve lista di neorealismi “spuri” dei tardi anni Cinquanta che, peraltro, certificano che la vera rivoluzione filmica del dopoguerra fu quella italiana, come hanno sempre riconosciuta  tutti i grandi cineasti del mondo, dagli statunitensi ai giapponesi. Cominciamo con La grande strada azzurra (1957), primo lungometraggio di Gillo Pontecorvo, scritto da Franco Solinas, ambientato tra i pescatori di frodo di La Maddalena, ma girato in Jugoslavia. Dello stesso anno è anche il già citato Il medico e lo stregone, che, a suo merito, fu girato in Ciociaria, e fa un buon uso di quello che si può definire il colore locale.

''La sfida''Quindi La legge, una coproduzione italo-francese diretta da Jules Dassin, quasi un melodramma-giallo, girato però nel Gargano, in Puglia, e anche questa volta è decisivo non solo il colore locale, ma proprio l’ambientazione dal vero.
Ma, del 1958 è anche il grande esordio di Francesco Rosi che, a Napoli e nelle campagne della provincia, gira La sfida, cronaca di camorra, tratta da una storia vera, che non solo è ambientata e interpretata da attori presi dalla strada – a parte Rosanna Schiaffino e lo spagnolo Josè Suarez  – ma il cui maggior merito “realista” è l’inserire l’antropologia camorristica,  oggi di gran moda nelle serie televisive, nel corpo del racconto. Infine, nel 1958 esce uno dei film più belli di Antonioni, Il grido, sorta di addio al neorealismo.  Il regista ferrarese aveva infatti iniziato la sua carriera con Il documentario Gente del Po (1943), che non riuscì mai a finire, a causa della guerra.

''Il deserto rosso''Il grido, che è contemporaneamente un “gelido” melodramma amoroso e un road movie, vive sostanzialmente delle peregrinazioni del protagonisti proprio nel delta del Po, tra Ferrara e Venezia, mostrando  contadini, pescatori, ma anche operai di uno zuccherificio: un mondo che scompare e  un altro, più moderno, che si avvicina minacciosamente, come poi si vedrà nell’ultimo film della sua tetralogia dell’alienazione: Il deserto rosso (1964). Anche Il grido, dunque, è un film antropologicamente neorealista, ma inseribile pienamente nella poetica dell’orrore della modernità, tipica del regista, e già in sintonia con le avanguardie del decennio successivo. Sono invece “neorealisti rosa” Un ettaro di cielo (1958) di Aglauco Casadio e il più noto Cerasella di Matarazzo, che, nei suoi anni migliori, era stato un neorealista melodrammatico osannato dal pubblico popolare.

Con il 1959, cioè superando la data indicata da Kezich, troviamo i primi soggetti cinematografici di Pasolini sulle periferie romane (Morte di un amico di Franco Rossi; La notte brava di Bolognini) che preludono alle sue straordinarie regie degli anni Sessanta: spoglie, pittoriche e sacrali. Questo potrebbe essere un altro addio al neorealismo, se non fosse che l’ambientazione ha un tale risalto da rimandare, anch’essa, al concetto di “verità” delle immagini, o degli sfondi nonché delle figure filmiche dei “reietti”, poi sacralizzati.

''Banditi a Orgosolo''Ma con Pasolini siamo già alle avanguardie, cioè ai giovani e meno giovani registi di cui non si fidavano i cosiddetti “orfani del neorealismo”.
Eppure, nonostante i Bellocchio – I pugni in tasca (1963) non fu un film di successo ma ebbe un riscontro critico non inferiore  a quella di La dolce vita – i Bertolucci, i Taviani, non si possono cancellare dagli anni Sessanta né il De Seta di Banditi a Orgosolo (1962) né il Rosi di Salvatore Giuliano (1962) e, in misura minore, né il semisconosciuto Pelle viva di Giuseppe Fina (1962), né Il posto di Olmi, neorealista esistenziale come e più dell’Antonioni di Il Grido.
Ma non escluderei da questa lista neanche il dittico caricaturale di Germi, Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964), nella quale la Sicilia insanguinata di Rosi era pur sempre legata ad un’antropologia anti moderna.

Se poi ci ricordiamo che la fine della stagione neorealista più “pura” portò all’estinzione dei progetti filmici aventi come argomento centrale il fascismo, la guerra, la resistenza, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta riappaiono questi temi, e uno dei film più premiati dal pubblico sarà  La ciociara (1960), scritto da Zavattini, diretto da De Sica e ispirato ad un romanzo di Moravia che avrebbe dovuto vedere la luce proprio all’indomani della fine della guerra, segnato appunto dal “neorealismo” che, però, allo scrittore non piaceva.

''Rocco e i suoi fratelli''E ancora, un film spartiacque tra “residui” neorealisti – soprattutto in ambito meridionale o comunque periferico – e centralità della metropoli moderna, è Rocco e i suoi fratelli,  uno dei capolavori di Luchino Visconti, che venne proiettato lo stesso anno del film di Fellini e fu boicottato e censurato al festival di Venezia, ma che pure, nelle sale di periferia e nei paesi, tenne testa proprio al film totalmente metropolitano del regista riminese.
Anche in Rocco e i suoi fratelli il residuo neorealista è costruito sulla fine del mondo contadino: un addio al Verga dei Malavoglia ed un racconto sui meridionali che si perdono o si integrano nel mondo moderno. Insomma, sono le città e non più le campagne a dominare l’immaginario cinematografico degli anni Sessanta e, non a caso, è in questo decennio che si assesterà, con grandi risultati, anche il genere popolare più noto del cinema nazionale: la commedia.

''Il brigante''Ed ora torniamo a Il brigante, un film che non assomiglia a nessuno dei titoli citati dello stesso periodo.
È, irritualmente, ispirato ad un romanzo di Giuseppe Berto, scrittore veneto, sceneggiato dalla romana Suso Cecchi D’Amico  e diretto da un regista ligure-argentino-milanese che, come si è già sottolineato, non aveva avuto alcuna esperienza neorealista “pura”.
Il neorealismo ritardato, nel suo caso, assomiglia a ciò che scriveva Calvino negli anni realmente dominati o comunque permeati da quella corrente culturale che attraversava letteratura, cinema e arte: si trattava di esplorare un’Italia poco vista e poco raccontata.
Forse nel 1960, anno di transizione, come si è già detto, questa non era più l’urgenza: letteratura, cinema, e soprattutto arte visiva erano profondamente cambiate.

Ma Castellani va controcorrente: racconta, come farà più tardi Rosi, in Sicilia, con alcune magnifiche  sequenze che preludono al massacro di Portella della Ginestra, l’occupazione delle terre in Calabria, o meglio la lunga transizione di una comunità contadina, dagli ultimi anni del fascismo alla breve amministrazione americana, dopo il 1943 e fino al 1946. Fa fede, per la data, il ritratto di Umberto II nell’ufficio del sindaco: la repubblica non è ancora nata.

''Il brigante''Dunque, la prima immagine importante è una sorta di icona che, purtroppo, con altri accorgimenti narrativi e visivi, potrebbe essere di nuovo attuale: accostati al muro del palazzo municipale, i braccianti agricoli attendono pazienti un ingaggio a giornata. Nessuno di loro possiede campi, sono quasi tutti in mano al latifondista Aprici.
Solo un piccolo proprietario resiste al monopolio, ma nessuno vuole lavorare per lui, e quando, disperato, finirà per andare volontario a lavorare in Germania – dove morirà – per l’enorme somma di 5.000 lire, che lascerà alla famiglia, il suo posto sarà preso dal figlio Nino, anche narratore della vicenda, e dall’amico Michele Rende, il ribelle per antonomasia, vero protagonista del film.
Costretto a fuggire dopo un complotto del podestà che lo ha coinvolto in un omicidio, finisce in carcere, evade durante la guerra, si unisce alle truppe alleate, e ritorna in paese, libero, con tanto di decreto firmato dalla nuova autorità militare.

Assieme ad altre famiglie contadine, organizza l’occupazione delle terre incolte, viene aiutato dai soldati americani di colore: un brano folclorico-politico non proprio perfetto, anzi ridicolo, ma anche questo era il neorealismo “politico” e utopistico, al limite della caricatura.
Il primo raccolto di grano viene però  “brucato” dalle pecore “liberate” dal latifondista, ovvero il vecchio podestà che ha organizzato il complotto e che, ben presto, diverrà il sindaco della nuova amministrazione post bellica.

''Il brigante''Quando gli alleati lasceranno il paese e l’intera Calabria, Michele verrà nuovamente arrestato per l’omicidio dal quale era stato scagionato. Fugge e si dà alla latitanza, portando con se la sorella di Nino da sempre innamorata dell’amico di famiglia.
Diventerà un vero e proprio “brigante”, benché solitario, alla maniera dei vecchi oppositori armati dell’Unità Italiana dopo il 1861.
Verrà ucciso da un ex carabiniere, suo amico – espulso dall’arma proprio a causa del mancato arresto di Michele – durante un’irruzione nel suo paese natale, al termine di una brutale sparatoria, in stile western. Altro personaggio straordinario del film e, prepotentemente, “sovversivo” anche nella sua vita privata, è Pataro, primo a occupare terre “per un seme di libertà”, con le sue tante mogli e i tanti figli.
Benché girato nei luoghi veri e interpretato da attori o meglio “figure” locali, il film, riportato, con il restauro, alla durata iniziale delle tre ore – nelle sale uscì solo la versione di 2 ore e mezza – si espone a diverse contraddizioni che potrebbero essere desunte dalla mia lunga introduzione “contestuale”.

Se Lino Micciche, infatti, all’epoca della prima presentazione lo elogiò come “primo apprezzabile film contadino fatto in Italia”, 55 anni dopo, un critico, Marco Romagna, nel 2016, all’indomani della presentazione, a Bologna, della copia restaurata, scrisse che l’epica contadina/brigantesca avrebbe potuto essere titolata: “C’era una volta in Calabria”.
Il che sembra certificare che  la nostra percezione del “realismo” – rosa o melodrammatico che sia – è stata  modificata proprio dall’apparizione delle avanguardie, ovvero di quei registi sui quali coloro che spedirono Kezich a Roma, avevano molti dubbi.

''Il brigante''Si potrebbe infatti mettere a confronto il film di Castellani con la Sicilia (Salvatore Giuliano), o anche la Napoli (La sfida) di Rosi, così attento non solo all’antropologia ma anche ad una messa in scena che interrogasse continuamente il pubblico sulla verità delle immagini.
Ma, è pur vero, che i fatti raccontati da Rosi, anche questi storicamente accertati, erano pieni di misteri e dunque il coinvolgimento “interrogativo” del pubblico serviva proprio a mettere in dubbio la verità ufficiale, e persino quella processuale.
Invece, Il brigante è un film diretto, con un’epica coinvolgente – l’occupazione delle terre è un pezzo di cinema che potrebbe stare in qualsiasi repertorio filmico dedicato a ciò che accadde nel Mezzogiorno dopo la fine della guerra – ed un tessuto drammaturgico che, obbligatoriamente, mescola il melodramma al cinema avventuroso, il realismo ambientale alla condanna morale e politica di un’arretratezza non naturale, ma frutto di soprusi.

Ecco, quello era appunto uno dei possibili filoni filmici del neorealismo popolare degli anni Cinquanta. Se non si realizzò non è perché i registi non ci pensarono – basta appunto l’esempio di La terra trema di Visconti a chiarire l’interesse dei suoi maggiori esponenti – ma perché quel “neorealismo” anche politico e sociale fu soffocato dalla censura.

''In nome della legge''Se vogliamo trovare un esempio di possibile compromesso, dobbiamo citare In nome della legge di Germi (1949), primo film nel quale si racconta non solo l’arretratezza della Sicilia e il potere mafioso (magari recuperabile alla legalità o comunque alla buona causa contro i veri banditi!!), ma anche un ambiente che si muove tra il realismo e l’eccesso caricaturale, che più di dieci anni dopo, servirà allo stesso regista per il suo dittico sull’onore di cui si è già scritto.
Il brigante, se fosse stato prodotto nei primi anni Cinquanta, sarebbe diventato come il film di Germi: spettacolare ma falso, a prescindere dalla bella ambientazione. Per sintetizzare ulteriormente, potremmo usare un termine che Flaiano usò per descrivere questo tipo di film: southern, ovvero il western nostrano, mai nato ma certamente vagheggiato non solo in Germi ma anche nel Monicelli di Proibito (1954) e negli altri film “sardi” degli anni Quaranta e Cinquanta più o meno ispirati ai romanzi di Grazia Deledda: Le vie del peccato di Pastina, L’Edera di Genina, Amore Rosso di Aldo Vergano.
E dunque, non è poi così strano accostare questo film “fuori contesto” alla nuova Italia cinematografica che si stava formando, con obbiettivi e percorsi formali diversi, in quello stesso decennio.

30 aprile 2019