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Il lavoro nel mare come riscatto sociale

Proiettato a Cagliari  il documentario "Il clan dei ricciai" di Pietro Mereu. di Elisabetta Randaccio

''Il clan dei ricciai''Grazie a una serata evento particolarmente affollata al cinema "Greenwich" di Cagliari, gli spettatori hanno potuto recuperare il documentario "Il clan dei ricciai" di Pietro Mereu, che, dal 2018, ha percorso con successo di critica e di pubblico le strade festivaliere ottenendo anche importanti riconoscimenti.

A introdurre il film era presente il regista Pietro Mereu, di cui ricordiamo almeno "Disoccupato in affitto" (2010), l'autore delle musiche  nonchè interprete Joe Perrino, uno dei protagonisti Gesuino Banchero. "Il clan dei ricciai" - "il titolo è una provocazione" ha sottolineato il regista - affronta con un approccio originale una vicenda che, in maniera generica, si potrebbe definire di riscatto sociale. Infatti, Andrea, Simone, Massimo, Bruno e anche Gesuino ci raccontano un'infanzia e una giovinezza difficile condizionate da nuclei familiari complicati, scelte esistenziali sbagliate, ma anche sfortunate destinate a condurli alla durissima esperienza carceraria. Ognuno rievoca episodi e personaggi che hanno segnato percorsi di vita assai problematici.

Si veda, per esempio, come vengono ricordate le figure genitoriali; nelle narrazioni dei protagonisti, esse sono fantasmi incapaci di porsi come riferimento positivo ai figli. C'è chi ricorda la madre come una "carogna" mentre lo picchia e lo "consegna" alle punizioni violente di un padre "armato" di "zirogna" ("Non piangevo, ma per giorni poi non potevo togliermi la maglietta").

''Il clan dei ricciai''Invece, Massimo ci spiega come abbia perso il lavoro per causa dei reati compiuti dai genitori ("Mi hanno rovinato la vita"), per cui, licenziato dalla fabbrica, abbandonato dalla compagna, sia finito a fare lo scafista in Adriatico traghettando carichi d'armi. Però, troviamo anche Simone, il cui affetto e l'aiuto economico dei nonni lo hanno indirizzato a un'occupazione "pulita" e salvato dalla dipendenza dall'alcool. Il senso della genitorialità ritorna nei racconti dei protagonisti pure per mostrare come chi, per quanto penalizzato in questo rapporto da bambino, abbia acquistato, in questo senso, una importante consapevolezza. Così, Gesuino ci dice come abbia dato un unico schiaffo al figlio, ormai grande, e ne abbia sofferto profondamente, mentre Andrea si sofferma spesso a parlare dei figli con dolorosa melanconia: per i suoi problemi gli hanno tolto la patria potestà segnandolo con una sofferenza estrema.

''Il clan dei ricciai''L'uomo ricorda, infatti, come il "giorno più bello della mia vita è stato quando sono nati i miei bambini". Anche Massimo non vede da tempo la figlia, per cui spera un futuro felice anche se con un altro "padre".  Cosa accomuna questi personaggi che fanno parte, come recita il premio vinto dal documentario al "Biografilm" 2018, dell'"Italia che non si vede" o meglio che nessuno vuol vedere? Li unisce la professione di ricciai, un lavoro sicuramente duro, ma capace di ridare a tutti una dignità non solo economica. A creare il "clan" è stato Gesuino, sempre attento, ricordando la propria esperienza esistenziale, agli ultimi, a chi ha bisogno di una seconda possibilità attraverso l'impegno nel lavoro proposto senza giudicare, senza pietismo, senza pregiudizi.

''Il clan dei ricciai''Mereu filma i suoi personaggi e li lascia parlare mentre lavorano, sullo sfondo di una Cagliari trascurata dalle immagini convenzionali, ma sempre estremamente accattivante. Si serve di Joe Perrino, le cui belle canzoni "di malavita" attraversano tutto il film, come di una sorta di commentatore onniscente. Con la sua fisicità espressiva e le sue parole dirette, ci racconta come il quartiere "chiuso" di Castello si sia trasformato, dal secondo dopoguerra, da residenza degli aristocratici cagliaritani a luogo in cui si è sviluppata una criminalità in continua mutazione. Perrino, in questa veste, lo vediamo parlare con i ricciai, con cui ha una sintonia umana speciale e anche evocare aneddoti persino divertenti, come la beffa riuscita a un "infame" in carcere, a cui inconsapevolmente viene tatuato sulla schiena un fallo enorme! In ogni caso, nonostante la apparente leggerezza delle immagini, montate con abilità da Giacomo Di Biase e Andrea Lotta, e la sicura empatia con i personaggi, il film deborda di dolore, sofferenza e rabbia.

''Il clan dei ricciai''Soprattutto l'esperienza carceraria descritta con realismo e con qualche elemento ironico dai protagonisti, fa riflettere sulla inadeguatezza di quel tipo di punizione sociale. Se è vero che, forse, i tempi del sadismo di certa polizia penitenziaria, le celle di segregazione, il totale abbandono dei detenuti appartengono a un passato prossimo, la carcerazione sembra non portare a nessun tipo di riflessione, rieducazione, riappropriazione della dignità e del concetto di civile cittadinanza. In questo senso,

"Il clan dei ricciai" ha un valore in più rispetto ad altri documentari sul tema: senza voler essere minimamente didattico ti impone, mostrando esperienze prive di qualsiasi stereotipo sentimentale, ragionamenti e riflessioni urgenti sulle nostre istituzioni.

14 maggio 2019