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Percorso

''Dersu Uzala'' (1975) di Akira Kurosawa

Memorie d’oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla.Nostalgia di un cinema popolare, avventuroso, segnato dalla grande firma di un autore tra i più grandi dell’intera storia della settima arte.

''Dersu Uzala''“Capitanooo!!  Presto notte viene … se notte viene noi perduti”.
Il primo ricordo di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, film russo di Akira Kurosawa, è puramente ludico.  Uscito nelle sale italiane tra la fine del 1976 e i primi mesi dell’anno seguente, ebbe un buon successo di pubblico e, successivamente, una lunga vita nei cineforum dell’epoca, ancora numerosi e frequentatissimi.

La mia partecipazione emotiva trovò la solidarietà di alcuni amici con i quali, in tempi ormai remoti, ho visto e rivisto il film che, nei prossimi giorni verrà presentato, dopo decenni di assenze anche televisive, in versione originale sottotitolata, all’interno di una bella rassegna dedicata alle produzioni della Mosfilm, la società di produzione sovietica nata ai tempi di Eisenstein, bloccata temporaneamente dalla fine dell’Urss, rinata poi come principale casa di produzione russa.
Oggi che ha aperto i suoi archivi, ricchi di oltre tremila film, e con tantissime grandi firme come Tarkovskij, Michalkov,  Konchalowskij, una prima selezione di questo archivio verrà presentata a Cagliari a cura della Federazione Italiana Circoli del cinema e del Centro Russia-Sardegna, e della Società Umanitaria-Cineteca sarda.
Tra queste pellicole, per una ragione che spiegherò più avanti, c’è anche il film di Kurosawa, che verrà presentato da Alessandro Macis, martedì 11 giugno.

Dunque, per tornare al “piccolo uomo delle grandi pianure”, tutti noi, amici di gite, più che di cinefilia, ci ricordavamo non solo la trama e le principali sequenze spettacolari – ad esempio quella ambientata nella taiga spazzata dal vento, al tramonto – ma anche e soprattutto quelle frasi in “italiano porcellino” (così si diceva a Cagliari di coloro che mischiavano l’italiano con il sardo), per noi assolutamente poetiche e bellissime.
Proprio quella più famosa, citata nella prima riga di questo scritto, veniva usata durante delle escursioni in montagna che, considerando la giovane età e la totale irresponsabilità degli  improvvisati esploratori, si trasformavano in pericolose avventure, con scarpe inadatte, nessuna protezione contro la pioggia, poco cibo e poca acqua.
Se poi il tramonto ci coglieva in mezzo ad un bosco la cui pista era poco visibile, ecco che, invece di preoccuparci, qualcuno tirava fuori la frase magica: “presto notte viene … se notte viene, noi perduti”. Per fortuna ci è andata sempre bene, ma ciò non ha impedito a coloro che non conoscevano quel linguaggio segreto, di prenderci per dei matti.

KurosawaQuasi nello stesso periodo, ebbe inizio la mia carriera di critico: dapprima recensì il film per Tuttoquotidiano, poi compilai la scheda per il Cineforum cagliaritano.
Sempre negli stessi anni, in uno spettacolo della compagnia bolognese Nuova Scena, che spesso rappresentava a Cagliari i suoi testi, scritti da Vittorio Franceschi, riconobbi la voce italiana di Dersu Uzala. Apparteneva ad un attore minuto, Antonio Piovanelli, per certi versi quasi somigliante al “piccolo uomo delle grandi pianure”  ma la cui voce, roca, sforzata, ad un tempo lirica e popolare, traduceva meravigliosamente quel suo essere un povero individuo, solitario, nostalgico, ma attaccato a tutto quanto gli sta attorno: la taiga siberiana, il bosco incantato, il fuoco e la neve. Piovanelli ritornò a Cagliari nel 1995, protagonista del monologo Il pratone del Casilino, tratto da Petrolio di Pasolini e diretto da Giuseppe Bertolucci. Quindi, nel 2012, sempre con la regia di Bertolucci, fu di nuovo protagonista di Casa d’altri, tratto da un racconto bellissimo  di Silvio D’Arzo.

In quell’occasione, mi presentai e, timidamente,  ricordai all’attore la sua straordinaria “interpretazione” italiana del personaggio di Kurosawa. Lui, sorridendo, racconto le traversie dell’adattamento, e il tentativo di rendere la difficoltà di una lingua arcaica, che contrasta con le parlate russe e che provoca le risate dei militari, con una sintassi ed una pronuncia italiana totalmente inventata. Un artificio teatrale, che nella copia restaurata e ripristinata anche nei suoi pochi tagli del 1975, svanirà, sostituito dalla versione originale sottotitolata in italiano. La filologia, però, non cancellerà il ricordo del mio Dersu Uzala e quello dei compagni di gite e di campeggi di un’altra epoca.

''Dersu Uzala''Ed ora il film. Nella carriera di Kurosawa, al di là del suo pur alto valore estetico, ebbe una importanza particolare. Nel 1970, il regista nipponico girò la sua ultima pellicola realista, Dodes’ka-den, ancora una volta corale e, in qualche mondo, influenzata dalla letteratura russa, già ispiratrice, nel 1957, di I bassifondi, tratto da romanzo omonimo di Gorkji.
Il nuovo film “realista” era ambientato in una baraccopoli, alla periferia di Tokjo, e i ritratti di questi rappresentanti di una società di esclusi, erano sostenuti dallo straordinario afflato umanitario del regista, che risaliva, appunto, all’immediato dopoguerra.
Ma il Giappone degli anni Settanta, un po’ come molte altre nazioni, soprattutto se toccate da un benessere materiale crescente, non si riconosceva più in quelle immagini di miseria e in quell’estetica del patetico. Il film fu un fallimento commerciale che impedì al pur celebre regista di realizzare altri progetti. L’anno dopo, in preda ad una depressione, Kurosawa, figlio di un samurai, cioè un aristocratico, tentò il suicidio, fortunatamente, non attraverso il “Seppuku”, ma semplicemente tagliandosi le vene in ospedale.

''Dersu Uzala''Si salvò, ma non ritrovò il lavoro, se non, quando Dodes’ka-den, nel 1971, ebbe un premio al festival di Mosca. In quell’occasione il regista Gerasimov, potente rappresentante della Mosfilm, lo invitò a girare un film in Unione Sovietica.
Gerasimov sapeva che Kurosawa aveva letto e apprezzato i diari dell’esploratore russo Arsenev che, ai primi del Novecento, percorse, in qualità di comandante militare e di scienziato, il corso del fiume Ussuri, al confine con la Cina e la Corea. Così gli propose  di ricavare una pellicola basata su quelle memorie.
Il progetto, nelle intenzioni dei mediatori sovietici, era anche legato al fatto che, proprio in quel periodo, quell’area geografica dell’estremo oriente, un tempo punto di partenza per le ambizioni imperiali della Russia zarista,  era di nuovo al centro di una contesa geopolitica.  Nel 1969, infatti, dopo aver rinnegato l’alleanza politico-militare con l’Unione Sovietica, la Cina contestò quello che era comunemente accettato come confine tra i due stati: il fiume Ussuri, considerato dai governanti e dai geografici cinesi come un fiume interno della loro nazione, indebitamente minacciato dai sovietici. Ne nacquero degli sconti di confine – presenti, sul piano documentario, anche nel film Lo specchio di Tarkovskij – che, fortunatamente, non ebbero seguito.

Se si accetta l’ipotesi, non infondata, che furono proprio i sovietici a suggerire la realizzazione di Dersu Uzala, quel film, girato da un regista “super partes”  e di grande autorevolezza, avrebbe giovato alla pacificazione, visto che intendeva semplicemente raccontare il diario di un’esplorazione geografica: i russi erano sostanzialmente degli scienziati e finanche amici delle popolazioni locali.
Infine, i committenti della pellicola erano anche  convinti, e giustamente, che l’attenzione del regista giapponese si sarebbe riversata sul personaggio del cacciatore Dersu Uzala, la cui foto, reperibile in Internet, non appare troppo diversa da quella “costruita” da Kurosawa attraverso il suo straordinario attore, Maksim Munzuk, un russo siberiano.

''Dersu Uzala''Il film ebbe un grande successo in ogni parte del mondo – vinse il primo premio al Festival di Mosca e l’oscar come miglior film straniero – e finanche nel Giappone che si era mostrato indifferente alla fama del suo più celebre regista.
Apre il racconto di Kurosawa un prologo, nel quale un ufficiale dell’esercito zarista cerca la tomba di un amico ucciso dai banditi ai margini di una foresta che non esiste più.
La vicenda vera e propria, ha inizio con il ricordo del primo incontro con quell’uomo di cui ancora nulla conosciamo.
Siamo in un bosco impervio e immenso, esplorato dai militari russi. Alla sera, durante il bivacco, un uomo, già anziano, si avvicina al fuoco e chiede di potersi scaldare e mangiare qualcosa.
È, evidentemente, un abitante di quei luoghi: di fronte al fuoco, racconta brevemente la sua vita passata, che l’ha portato a rimanere solo e a vivere di caccia e di commerci con i mercanti di pellicce.
I soldati, dal canto loro, incuriositi dal portamento di quello strano personaggio, apparentemente indifeso,  lo prendono in giro bonariamente, sia per il suo “russo-porcellino” (tradotto appunto in italiano da Piovanelli), sia per la sua immediata sintonia con la natura, della quale – seguendo l’idea panteista  – facciamo parte: “ siamo tutti uomini, comprese le bestie feroci, le erbe e gli alberi e finanche il sole, l’uomo più grande di tutti” – afferma il cacciatore.

''Dersu Uzala''Il seguito del film si può riassumere nei tre atti che “contengono” interamente il personaggio di Dersu Uzala. Nel primo, l’esploratore, diventato la guida del reparto militare, salva la vita al capitano Arsenev, e poi, dopo la partenza dei russi, che incrociano la ferrovia transiberiana, ritorna al proprio mestiere alla grande foresta. Nel secondo, sette anni dopo, una nuova esplorazione geografica, sempre guidata da Arsenev, s’imbatte nuovamente in Dersu Uzala.
L’uomo è invecchiato, ha paura di una tigre, reale e immaginaria, che minaccia la sua vita, ma è sempre in grado di guidare il reparto e di mostrare una saggezza “primitiva” legata ad una sopravvivenza basata sul senso di solidarietà. Non a caso, in questa seconda “trance” narrativa, vi è anche l’unica azione militare del film: i russi, aiutati da alcuni volontari cinesi, liberano alcuni prigionieri catturati dai briganti e quindi danno loro la caccia, senza alcuna preoccupazione nazionale o di confine. Ovviamente, anche questa sottolineatura è un dato politico che dovrebbe servire a stemperare la tensione crescente tra l’Unione sovietica e la Cina, ma s’iscrive facilmente in quell’universalismo anti sciovinista che è sempre stato il dato politico del cinema di Kurosawa, pur immerso nei disastri e nelle crudeltà delle guerre del passato remoto e prossimo.
Il terzo atto, che, strutturalmente, si salda alla vera e propria cornice del film, vede Dersu Uzala, in procinto di diventare cieco e, dunque, non più in grado di vivere nella sua foresta.

Viene così ospitato dal capitano Arsenev nella sua casa, in una cittadina russa ai margini della grande taiga e poi delle foreste siberiane. Ma l’uomo non sopporta di “vivere in una scatola” – parole sue – e dopo qualche mese, con il nuovo fucile automatico regalatogli dal capitano, ritorna al suo mondo. Verrà trovato morto ai margini della foresta: dei banditi lo hanno ucciso proprio per rubargli il prezioso fucile. Con lui scompare un mondo ancora autentico, in senso naturale e ecologico, e proprio il film rischia, oggi, di essere ancora più popolare di ieri, ovvero inseribile nella categoria del mitologico che racchiude ogni tipo di opposizione alla civiltà moderna. Ma forse questa lettura, legittima, rischia di cancellare la poetica di Kurosawa.

''Dersu Uzala''Per riportare il film alla propria epoca, si può cominciare ribaltando un concetto piuttosto solido, ma messo in dubbio dalla biografia del regista: Dersu Uzala è certo l’unico film diretto da Kurosawa in un paese diverso dal Giappone, ma non l’unico suo progetto che prevedeva ambientazioni e “location” non giapponesi e, ovviamente, produzioni internazionali che avrebbero dovuto supportare gli ingenti costi di alcuni film.
Pochi anni prima del grande fallimento commerciale del 1970 – peraltro Dodes’ka-den, come talvolta accade in ogni cinematografia nazionale, fu premiato dalla critica nipponica – il regista, molto amato negli Stati Uniti, aveva consegnato ad un produttore indipendente, Joseph Levine, la sceneggiatura di Runaway Train, storia di due evasi da un carcere di massima sicurezza che, rifugiatosi su un carro merci, finiscono per correre, a velocità altissima, verso il disastro, vanamente inseguiti dalla polizia: il treno infatti, dopo la morte improvvisa del conducente, è rimasto senza alcuna guida. A Levine piacque la storia e la sceneggiatura di Kurosawa, ma non acconsentì alle pretese del regista che voleva girare il film con i suoi tecnici di fiducia. Il progetto saltò ma noi spettatori, fortunatamente, possiamo vedere quella vicenda, portata magnificamente sullo schermo dal russo Andrej Konchalowski, anch’egli immigrato, per qualche tempo, negli Stati Uniti, con il titolo A trenta secondi dalla fine (1985).

Il secondo progetto sarà un altro grande film passato di mano: Tora, Tora, Tora (1970), ricostruzione dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, osservata dai due fronti contrapposti. Il produttore è il celebre Zanuck, che offre la regia e il copione della parte giapponese a Kurosawa, per poi esautorarlo dopo pochi giorni, affidando l’intero film a Richard Fleischer.
Dersu Uzala, dunque, sembra voler contrastare un concetto abbastanza diffuso sia in Europa che in Giappone: il cinema d’autore è quasi sempre legato a specificità nazionali difficilmente esportabili in altri contesti, vuoi per ragioni produttive, vuoi per problemi di adattamento culturale, linguistico, stilistico.
C’è un primo paradigma di questo “possesso” kurosawiano di un mondo diverso dal suo: il bosco e la taiga, ovvero la natura opposta alla cultura. La presenza di un aperto panteismo, rivendicato più volte, e senza alcuna teoria filosofica, dal protagonista del film, è proprio legato al modo in cui il regista giapponese ha sempre filmato la natura: un organismo vivente, in cui l’uomo si muove a fatica, spesso oppresso dalla paura dell’ignoto, dei fantasmi, veri o falsi, ovvero immaginati, che gli stanno addosso nelle sue brevi o lunghe esplorazioni.

''I sette samurai''Federico Fellini confessò che, durante la lavorazione di Lo sceicco bianco (1952), sua prima regia autonoma, pensava spesso, mentre preparava qualche sequenza complessa, che solo  Kurosawa avrebbe potuto risolvere le difficoltà che gli si presentavano. Aveva in mente un film straordinario, Rashomon (1950), primo successo internazionale del regista nipponico, nel quale il bosco è un vero e proprio personaggio in cui si muovono i protagonisti della vicenda, stregati dalla quella foresta incantata. Molti anni più tardi, Bernardo Bertolucci, autore di Il conformista (1970) giustificò la complessa sequenza dell’uccisione del professor Quadri e della moglie, ambientata in un bosco nevoso, citando di nuovo Kurosawa, la cui evocazione è facilmente rilevabile in quelle figurine, quasi danzanti, come dei folletti, che avanzano di corsa nel bosco, sovrastati dai grandi alberi. La citazione si riferisce a quasi tutti i film in costume del regista giapponese,  dal già citato Rashomon (1950) a I sette samurai (1954), passando per La sfida del samurai (1961) e Yojmbo (1962), ma soprattutto Il trono di sangue.

E proprio a questa versione del Macbeth, realizzata nel 1957, che sembra far riferimento la prima sequenza turbativa del film, durante il bivacco dei militari russi. Il fuoco accende di riflessi coloratissimi il bosco, immergendo la scena in una sorta di magia espressionista che annuncia possibili presenze minacciose. Ma, immediatamente dopo, sarà proprio la presenza di Dersu Uzala a creare un senso di addomesticamento delle forze della natura.

''Il trono di sangue''D’altro canto, poiché il film ha un titolo che rimanda direttamente al personaggio, non è affatto difficile intravvedere nei rapporti tra il reparto scientifico-militare e il piccolo e quasi insignificante cacciatore,   il senso di una pacifica contrapposizione tra le grandi imprese, scientifiche o militari che siano, e la semplicità dell’umano. Questo è appunto il filo rosso che lega insieme molte opere di Kurosawa, comprese quelle storico-cavalleresche (almeno da I sette samurai in poi) e che condanna la tragica ambizione dei potenti.
Non sarà un caso se tra gli ultimi grandi titoli del regista, ci saranno un Re Lear (Ran, capolavoro assoluto del 1985) e il pirandelliano Kagemusha (1980).
In mezzo alla straordinarie battaglie e cerimonie rituale, la verità dei due film emerge dalla scarnificazione regale dei personaggi principali: Lear deve vivere da mendicante e da esiliato per ridiventare uomo; il sosia di Kagemusha dovrà tornare ad essere un semplice contadino e non un finto samurai che guida un potente esercito.

In Dersu Uzala, i due estremi di questa fusione e di successivo disfacimento dell’umano e del naturale, sacro o divino, sono anche le parti più belle e più trascinanti del film. Nella prima, il cacciatore, perdutosi nella taiga al tramonto, assieme ad Arsenev, inventa un riparo per la notte che salva la vita a entrambi; nella seconda, prima del finale, Dersu è ossessionato dalla visione di una tigre che ritiene inviata dai demoni per ucciderlo. Sarà il primo avvertimento della sua discesa verso la vecchiaia e la cecità che lo condurranno, ingloriosamente, alla morte. Insomma, Dersu Uzala, dietro il grande scenario naturale e selvaggio, dietro le avventure del reparto militare e del cacciatore, è anche un grande racconto filosofico.

7 giugno 2019

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