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Anniversari. La dolce vita versus Rocco e i suoi fratelli.

''La dolce vita''

Il confronto infinito tra due maestri e due visioni del cinema e del mondo. Memorie d’oltrecinema, la cineteca di Gianni Olla

Il 5 febbraio del 1960, cioè più o meno sessant’anni fa, esordiva a Milano La dolce vita di Federico Fellini, di certo il film più noto del regista riminese che, tuttora, in buona parte del mondo occidentale, identifica in quel titolo una sorta di carta d’identità sia del suo autore, sia di una certa Italia, immersa, dopo i disastri del fascismo e le povertà neorealiste del dopoguerra, in una sorta di ritrovata grandezza, se non altro mondana e spettacolare.

Le ricorrenze celebrative di quel film sono state frequenti e molto popolari in questi sessant’anni ma il 2020 è anche il centesimo anniversario della nascita del regista e dunque gli omaggi saranno sicuramente lunghi e spettacolari come è giusto che siano, visto che saranno guidati dalla Fondazione riminese intitolata a Fellini.
Inoltre quell’anno, il 1960, fu importante anche per altri motivi che potrebbero, di nuovo, essere definiti come punti di arrivo e di svolta per il paese. Difatti, a fine agosto, le Olimpiadi di Roma certificheranno una sorta di attestato di riconciliazione definitiva con quei paesi contro i quali l’Italia era stata in guerra fino a 17 anni prima. Nel 1964 toccherà al Giappone e nel 1972, nonostante i tragici omicidi dei palestinesi nei confronti della delegazione israeliana, sarà la volta della Germania occidentale.

''La dolce vita''E ancora, appena un mese prima, la politica e la società, con i moti di luglio contro il governo Tambroni, sostenuto dal Movimento Sociale – vale a dire i fascisti dichiarati – avrebbero riaperto le ferite storiche che lo sport tentava di cancellare. E magari qualche protagonista si trovò ad affrontare entrambi gli avvenimenti: Raimondo d’Inzeo, vincitore della medaglia d’oro nel salto ad ostacoli, era anche il comandante dello squadrone di carabinieri a cavallo che diresse la carica contro i manifestanti di Porta S. Paolo, provocando decine di feriti. Tipiche contraddizioni di un decennio che, di lì a poco,  con la crisi di Cuba del 1962, avrebbe minacciato di far saltare il mondo ma che in Italia, vide la nascita del Centro sinistra, ovvero dei socialisti che, come disse Nenni (sic!), entravano finalmente nella “stanza dei bottoni” per cambiare, in meglio, il paese.

È anche curioso che uno dei simboli dell’epoca sia stato appunto un film dal titolo accattivante – chi mai non avrebbe voglia di una “vita dolce”? – e di contenuti/significati ambigui.
Dopotutto Marcello è uno scrittore fallito e il suo migliore amico, Steiner (Alan Cuny), che cerca di spronarlo a riprendere la sua prima vocazione, inneggiando continuamente alla bellezza della natura e all’arte pura (un quadro di Morandi è il simbolo di questa purezza), uccide i suoi due figli avuti da una moglie giovane e devota per poi suicidarsi.
Il mezzo busto di Steiner, con la testa abbassata e un piccolo foro nella tempia – quasi un’inquadratura fotografica – segna apertamente il confine tra le apparenze festose e la realtà: una costante di tutto il film e dell’intera opera di Fellini.

''La dolce vita''Italo Calvino, che pure amava il cinema del regista romagnolo Fellini e gli dedicò alcuni saggi, fu tra coloro che, pur apprezzando il film, trovarono quella sequenza incongrua. Scrisse polemicamente che risultava «Un episodio talmente privo di qualsiasi verità e sensibilità (tale da restare un punto nero per il regista e gli sceneggiatori che ne sono responsabili) che ci prova a quali risultati di non-verità può portare una costruzione a freddo di film a ossatura ideologica». Forse anche lo scrittore pensava che quella scena fosse stata ideata da Ennio Flaiano, allora lo sceneggiatore di punta di Fellini, ma poco amato da Calvino. Questa era anche l’opinione di Angelo Rizzoli, il produttore, che cercò inutilmente di persuadere il regista a tagliarla, in nome del suo celebre motto che “un raggio di sole” sarebbe stato indispensabile nel cinema del suo “protetto”.

Invece, la sequenza è fin troppo esplicita e fin troppo leggibile all’interno della poetica del regista: l’alone della morte – e dirla con Freud la coscienza della morte e l’impulso di morte – misteriosa, invisibile e minacciosa, che ci fa sempre compagnia e che compare quasi in ogni opera felliniana, per dispiegarsi apertamente nel suo film mai fatto, Il viaggio di G. Mastorna (1966) e soprattutto nel bellissimo e misconosciuto medio metraggio tratto da un racconto di Poe: Toby Dammit (1968).
E ancora, è già possibile vedere nella sequenza finale, con Marcello separato dalla purezza della fanciulla che gli sta di fronte a causa di un fiumiciattolo ingrossato e rumoroso che non gli consente neanche di sentirne la voce, sembra proprio l’anticipo della visione di un’altra fanciulla, quella di Toby Dammit, che lo invita ad attraversare il ponte crollato con un salto della sua Ferrari, per poi prendersi la sua testa mozzata da un filo d’acciaio.

''La dolce vita''Dunque, nelle disavventure e nel girovagare del protagonista,  un giornalista di cronaca mondana che ha il suo baricentro in via Veneto – come nella realtà autentica di quegli anni – interpretato da Marcello Mastroianni, l’alternarsi di Paradiso e Inferno, anche in senso cattolico, è il vero leit-motiv del film,
 come affermarono sia i numerosi padri gesuiti che difesero il film dagli attacchi della Curia romana, sia da Pasolini – collaboratore non accreditato della sceneggiatura – e persino da Vittorini, al quale si deve la definizione più secca e, oggi, più spendibile del film: “un’epica degli stronzi”.

Nonostante queste certificazioni – postume quelle degli intellettuali, preventive quelle dei gesuiti che già intuivano il malessere delle gerarchie cattoliche – il film non ebbe vita facile. I rotocalchi diffusero alcune indiscrezioni “piccanti”,  soprattutto la lunga sequenza dell’orgia che, secondo molti osservatori, si  rifaceva allo scandalo di Capocotta di qualche anno prima (un caso di cronaca rosa e nera, che finì sui banchi del Parlamento e stroncò la carriera al già designato successore di De Gasperi, l’on. Piccioni, padre del celebre musicista) e al celebre strip-tease della ballerina turca al night “Il Rugantino”, finito nelle prime pagine dei rotocalchi.

Grazie a due circostanze, non casuali, fu inaspettatamente salvato dagli annunciati sequestri di magistrati zelanti e obbedienti alle “regole del gioco” vaticane e governative, da sempre operanti in Italia,.
La prima fu la decisione di programmare in esclusiva, per i primi giorni, il film a Milano, e non a Roma. Nel capoluogo lombardo si respirava un’aria più libera rispetto a quella romana. La seconda l’inaspettato successo del film – che pure ha una durata di oltre tre ore e non ha, come del resto la maggior parte dei film del regista riminese, una trama narrativamente forte – che sembrava evocare una sorta di rispecchiamento critico di una società del benessere, attratta e respinta da quel carnevale in bilico tra santità e blasfemia.

''La dolce vita''Così  anche le scomuniche dell’Osservatore romano che, secondo Tullio Kezich, biografo di Fellini, avevano come mandante il Papa in persona, cioè il modernizzatore Giovanni XXIII, e come esecutore il futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, finirono per infrangersi contro il favore degli spettatori che in qualche modo avevano letto il film secondo gli auspici del regista: un diario della modernità italiana, della sua desacralizzazione, della solitudine intellettuale, della società dello spettacolo che nessuno ancora vedeva, a parte i veri artisti.
A maggio, infine, grazie anche all’impegno del presidente della giuria, George Simenon,  il film vinse il festival di Cannes, affiancato da L’avventura di Antonioni che ebbe il premio speciale della giuria, confermando una supremazia italiana nell’ambito del cinema d’autore.

Giusto per dare corpo alla mitologia felliniana, il progetto di La dolce vita, che ancora non si chiamava così, anzi non aveva alcun titolo, ebbe una lunghissima gestazione.
Difatti, la sequenza finale de I vitelloni mostra uno dei protagonisti, Moraldo – in qualche modo il “puro” del gruppo di perdigiorno che affollano la città di provincia descritta da Fellini – alla stazione ferroviaria.
È in partenza per Roma, e Fellini, che aveva “introiettato” il soggetto iniziale di Flaiano, ambientato nella città natale dello scrittore, Pescara – da lì viene il termine “vitellone”, che più o meno equivale al cagliaritano “oreri” – doppierà personalmente la voce di Franco Interlenghi per rafforzare il senso para-biografico del film.
Siamo nel 1953; fuggito dalla sua Rimini, il personaggio avrebbe dovuto ripercorrere un altro frammento della biografia del regista. Si sarebbe fermato alla stazione Termini, come poi si vedrà, nel 1972, in Roma.
Il copione, abbozzato dall’abituale collaboratore Tullio Pinelli, aveva anche un titolo: Moraldo in città.

Ma Fellini, che viveva a Roma dal 1939, e che, anche per I vitelloni, aveva trasformato i paesi laziali nella sua Rimini, preferì – o forse fu costretto da altre opportunità produttive – far decantare quella storia. Era infatti ancora legato ad una visione mitologica della capitale che aveva il suo ovvio punto di partenza nella noiosa vita di provincia.
Così nascono sia il viaggio di nozze dei due sposini in I vitelloni, con l’imitazione del boogie-woogie da parte da Fausto/Franco Fabrizi, sia soprattutto l’altro viaggio di nozze, più celebre, visto che occupa interamente Lo sceicco bianco (1952), sua prima regia, dopo il mezzo film, Luci del varietà, girato l’anno prima assieme a Lattuada.

''La dolce vita''La Roma – reale – di quel film è un rito necessario e forse fastidioso per il marito, Leopoldo Trieste, sconvolto dalla fuga della giovane moglie, Brunella Bovo, che si è prefissa – già prima della partenza – di incontrare l’eroe dei suoi sogni: un divo dei fotoromanzi, alias Alberto Sordi.
Orson Welles riteneva che Fellini fosse un regista provinciale che sognava e mitizzava la città, ma quando la conquistava – e La dolce vita è una vera e propria conquista – comincia a rimpiangere la provincia e a sognare una improbabile infanzia felice.
Magari Welles voleva svalutare la poetica di Fellini, ma quella frase la si può interpretare anche in maniera totalmente neutra, come una vera e propria esegesi del suo cinema ed anche come sintesi di un percorso che ha la sua conclusione proprio in La dolce vita.

Le tappe di avvicinamento alla città in cui Moraldo dovrebbe andare a vivere sono tre: La strada (1954), che, in qualche modo, trattiene il regista nei luoghi dell’infanzia, sempre magici e quasi fantastici, ma anche tristissimi; Il bidone (1955), che gira attorno alla Roma centrale e periferica ma sconfina spesso nei paesi del Lazio che ricordano la provincia riminese e le montagne appenniniche. Infine, nel 1957, l’altro grande film di confine, Le notti di Cabiria, i cui ambienti contemplano la Roma divistica di Amedeo Nazzari, che interpreta se stesso, e le periferie pasoliniane (lo scrittore, non ancora regista, collaborò a questa e ad altre pellicole di Fellini, compresa la Dolce vita) in cui esercita come prostituta l’eroina del film.
Nello stesso anno, conclusa l’avventura di Le notti di Cabiria, Fellini e i suoi collaboratori sono di nuovo alle prese con Moraldo in città, e finalmente il regista decide – secondo l’autorevole parere di Tullio Kezich – che quel film non si farà; considera superate, o meglio datate le disavventure di Moraldo.

''La dolce vita''Quella Roma legata alla sua timida discesa nella capitale, e poi ai primi anni del dopoguerra, fa ormai parte dei ricordi. Fellini la riciclerà in continuazione, ma ora ha in mente un’opera completamente diversa, appunto La dolce vita.
Per capire la differenza profonda tra il “prima”, ancora iperprovinciale, del mondo felliniano e il dopo, rappresentato da La dolce vita, basta rivedere un film di scarso successo ma piuttosto bello e importante del 1956: Il bidone. In questo film, così come in Le notti di Cabiria, la città c’è già e la casa di Nazzari  evoca una “dolce vita” dell’immediato dopoguerra: un oasi di ricchezza, bellezza e separatezza dalla vita di Cabiria, che, non a caso, alla fine rischia di essere uccisa da un falso fidanzato che vuole solo derubarle il suo piccolo capitale.

In Il Bidone, invece, accanto alle terribili truffe ai danni dei contadini delle montagne appenniniche, c’è già una vita romana che, accanto alle tristezze esistenziali del protagonista, Augusto – muore in solitudine, dopo aver rubato il bottino ai complici per aiutare la figlia a frequentare l’università – mette in scena night club abbastanza scalcinati e una festa di capodanno che mescola ambienti di ricchi, sempre al limite della vita malavitosa, e la banda di truffatori da quattro soldi.

Insomma, quella Roma, secondo Fellini, non esisteva più, e fu dunque sostituita da un “glamour” in cui la separazione tra coloro che vivevano la “dolce vita” e gli abitanti delle periferie urbane pasoliniane, mostrate nella sequenza della casa della prostituta, era netta e irreversibile.
Il “cursus honorum” si concluse con 5 candidature ai premi oscar del 1961. Il film vinse solo il premio per i migliori costumi, disegnati dal grande Piero Gherardi che firmò anche la scenografia, ma ovviamente ciò che contava era l’ennesima  e crescente pubblicità planetaria che poneva Fellini tra i grandi registi della storia del cinema.

''Rocco e i suoi fratelli''Ma prima di questo evento, nel settembre del 1960, alla Mostra del cinema di Venezia arrivo in concorso Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Si dava per scontato che avrebbe vinto il Leone d’oro ma il premio non arriverà e il produttore Goffredo Lombardo e lo stesso Visconti rifiuteranno il “risarcimento” del premio speciale della giuria, considerandolo un’offesa.
Si parlò di complotto, orchestrato dal Ministero dello spettacolo e dall’intero governo, entrambi dovuti, da un lato, alla fama del regista, apertamente sostenitore del Partito Comunista e amico personale di Togliatti, dall’altro alla necessità di creare una trincea difensiva efficiente, dopo lo smacco di La dolce vita.
Forse la levata di scudi dei “viscontiani” ma anche di un produttore come Lombardo che non poteva certo essere accusato di simpatie sinistrose, fu eccessiva ma d’altronde il film vincitore, “Il passaggio del Reno” di Cayatte, non se lo ricorda nessuno e certo non è un passato alla storia come pellicola di grande valore.

Il sospetto di un clima non proprio favorevole a Visconti, come non lo era stato a Fellini, fu confermato a novembre, quando il film uscì nelle sale. Un magistrato chiese e ottenne il sequestro della pellicola e impose diversi tagli, riguardanti le famose sequenze della violenza carnale, con le mutandine della ragazza sbattute in faccia a Alain Delon, e  del successivo omicidio di Annie Girardot da parte di Renato Salvatori, poi ripristinate nelle edizioni recentemente restaurate, reperibili in Dvd.
Un’altra sequenza certamente poco gradita ai benpensanti riguardava il rapporto ambiguo – diciamo sottilmente omosessuale, anche se puramente allusivo – tra Simone e il suo “scopritore” che lo indirizzerà verso la boxe per essere poi sfruttato dallo stesso protagonista.
Se Fellini e Antonioni – che al botteghino non ebbe il successo sperato – esprimevano apertamente una certa “repulsione” per la modernità – magari in toni carnevaleschi il primo, mentre il secondo raccontava la solitudine estrema dell’uomo moderno, monade impazzita – Visconti volle rappresentare una sorta di “addio al passato”, quello dell’Italia contadina che aveva già affrontato, nel 1948, con il verghiano  La terra trema.

''Rocco e i suoi fratelli''Rocco e i suoi fratelli è l’ideale proseguimento di quel titolo, visto che il progetto integrale post bellico prevedeva una trilogia della lotta e della sconfitta che già inseriva virtualmente la progressiva scomparsa del mondo contadino e, in generale, della vita comunitaria di quei luoghi disastrati dalla miseria.
In qualche modo, riprendendo, in tempi mutati (l’Italia del 1960 era diversa rispetto a quella del 1948) il tema della deriva meridionalista, Visconti sembrò volersi “cavare un dente”, cioè recuperare, per l’ultima volta, quel suo neorealismo estremo che, necessariamente, si sarebbe confrontato con una contraddittoria modernità, diciamo progressiva, nonostante il film sia segnato da una profonda tragicità.
Anche la famiglia Parondi, protagonista di Rocco e i suoi fratelli, vive del mare, sicché la sconfitta dei Valastro nel film del 1948 si tramuta nell’esodo verso il nord, comune a centinaia di migliaia di giovani che abbandonavano mare e terra per diventare operai nel triangolo industriale.

I Parondi, madre e cinque figli maschi, tra cui due adolescenti, vengono dalla Lucania di Carlo Levi, luogo dove Cristo non era mai arrivato.
Il padre, pescatore, è morto qualche mese prima. È dunque esplicito il richiamo a La terra trema (1948), tanto che Visconti pensava di aprire il film con i funerali in mare del patriarca, ma ci rinunciò.
I Parondi raggiungono a Milano il figlio maggiore, Vincenzo, già integrato e in procinto di sposarsi. Accampata in una cantina di un caseggiato popolare, la famiglia si immerge totalmente nella metropoli. Ma, non più guidata dall’energia e dal carisma naturale della madre mediterranea, fatalmente si disgrega. Simone, dopo un buon esordio nella boxe, diventa un piccolo criminale, e uccide l’amante, una prostituta di cui si è innamorato; Rocco, novello “idiota” dostoevskjiano, lo sostituisce sul ring, per amore della famiglia e per salvare il frtello. Odia la violenza e la metropoli e sogna di tornare in Lucania.  Ciro, nel finale, di fronte all’Alfa Romeo, in pausa dal lavoro di tecnico specializzato, si vede con Luca, ancora adolescente, che gli racconta dell’arresto di Simone.

''Rocco e i suoi fratelli''Un campo lungo sul paesaggio industriale e sempre più urbanizzato chiude il film, idealmente diviso in capitoli che hanno i nomi dei rispettivi protagonisti, dal maggiore, Simone, all’adolescente Luca, come se i cinque fratelli si passassero il testimone di una difficile e – per Simone – tragica integrazione nel mondo moderno delle metropoli.
Scritto assieme a a Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Vasco Pratolini Massimo Franciosa, il film trae la sua prima ispirazione drammaturgica forte da alcuni frammenti dei racconti di Giovanni Testori inseriti in Il ponte della Ghisolfa (e qui, e poi all’idroscalo, che accadono le due scene di violenza e di omicidio messe sotto accusa dalla magistratura) ma vive in realtà di altri innesti letterari. Il primo è Giuseppe e i suoi fratelli di Mann (1933-43), peraltro ispirato al racconto biblico Giuseppe venduto dai fratelli, con una variante importante: è Rocco, che, deliberatamente, “si vende” – diventerà malvolentieri un campione internazionale di boxe pur odiando quello sport violento – per cercare di salvare il fratello e tutta la sua famiglia.

Ma l’innesto più evidente, capace di trasformare l’epica della difficile “trasformazione” dei Parondi in una tragedia da toni cupi e, nel finale, apertamente e volutamente melodrammatici, è L’Idiota di Dostoevskij, con Rocco nella parte del principe Miskjn – e il volto quasi infantile di Delon è praticamente perfetto per quel ruolo – Simone in quello di Rogozin ed infine, come è ovvio, Nastassia Filipovna che s’incarna nella prostituta Nadia.
Tutti questi innesti, visibili o semplicemente legati ad una drammatizzazione che si muove tra tragedia greca e melodramma, servono infatti non solo a far deflagrare il naturalismo del tema, ma anche a creare una sorta di spettacolarizzazione estrema della grande tragedia dell’emigrazione, ovvero della perdita d’identità della popolazione meridionale.
Nell’eterna discussione sui film più riusciti dei grandi maestri, Rocco e i suoi fratelli ha avuto alterne fortune, ed è forse solo oggi che si può affermare che è stato il film di svolta del regista. Dopo ci saranno Tomasi di Lampedusa, Mann, Proust, D’Annunzio, Wagner, Ludwig, vale a dire l’autobiografia ideale dell’aristocratico che volle confrontarsi con il mondo contemporaneo e che, alla fine, si rifugia definitivamente nel proprio mondo di appartenenza.

''Rocco e i suoi fratelli''Il simbolo di quest’approdo e il suo penultimo e testamentario capolavoro, peraltro incompreso: Gruppo di famiglia in un interno (1974), all’epoca sbeffeggiato dalla maggior parte della critica e accusato di cripto fascismo dall’estrema sinistra.
Tornando a Rocco e i suoi fratelli, il film fu snobbato dagli spettatori delle prime visioni, già orientati verso pellicole – come appunto La dolce vita – che rispecchiavano il crescente benessere della classe media. Ma nei quattro anni successivi fece il pieno d’incassi nelle sale di seconda, terza e quarta visione, cioè in periferia e nei paesi.
Alla fine risultò tra i film più visti dell’intero decennio, vale a dire l’epoca della contestazione e delle rivolte “moderniste” verso il mondo dei padri. Evidentemente esisteva ancora un’altra Italia che s’identificava nella famiglia Parondi, magari proprio nel nord “invaso” dalle correnti migratorie dei due decenni precedenti.

Da subito i due film che abbiamo sinteticamente raccontato furono posti in competizione dal mondo della critica e dell’intellettualità italiana. Ovviamente, la solidarietà nei confronti delle censure e della manifesta ostilità governativa nei confronti di Rocco e i suoi fratelli e del suo autore – bollato come comunista fin dall’anteguerra, anche se non prese la mai la tessera del partito – furono obbligatorie per il mondo del cinema italiano e, a quest’obbligo, non si sottrasse, ovviamente, neanche Fellini.
Ma i due autori non si amavano e non avrebbero mai potuto essere non dico amici ma neanche sodali. Appartenevano a clan diversi e a culture diverse. Il primo, Fellini, cresciuto nel mondo delle riviste umoristiche e del cinema comico o quanto meno leggero, iniziò il suo apprendistato come sceneggiatore nelle commedie d’anteguerra. Fu poi assistente di Rossellini dal quale ricavò l’idea che un film non dovesse necessariamente legato ad una idea narrativa, ma piuttosto ad una visività drammaturgica forte, come appunto accade in Paisà, nella sequenza del Delta del Po, girato, come testimoniò Fellini, d’istinto e senza alcuna preparazione, visto che il sole stava tramontando e non si poteva illuminare uno scenario così ampio.

Infine, pur avendo un’idea forte del proprio cinema, fin dalla sua prima regia in solitario, Lo sceicco bianco, aveva un disperato bisogno di una corte di collaboratori, cioè di sceneggiatori e persino di attori feticcio – il primo fu Sordi, poi la moglie, Giulietta Masina e quindi Mastroianni – che rappresentavano quasi dei modelli.
Visconti, aristocratico di nascita, formatosi in Francia alla scuola realista di Renoir, fu, a partire dal dopoguerra, il rappresentante di un neorealismo o di un realismo – come lo definiva il critico Guido Aristarco – legato all’Ottocento e al Novecento letterario.
Il suo primo film, Ossessione (1943) che anticipò il neorealismo post bellico, era tratto da Il postino suona sempre due volte di Cain che, in Italia, nessuno conosceva. La terra trema, come già si è detto,  aveva un’ispirazione verghiana, e quindi, dopo una parentesi realista e popolare ma segnata dalla critica ai film girati nelle strade con la gente comune, Bellissima (1952), girò altri due titoli letterari, Senso (1954) da Boito e Le notti bianche (1958) da Dostoevskij.

''Rocco e i suoi fratelli''Intanto, però, Visconti, divenne anche un grande regista teatrale e di opere liriche e proprio la lirica fu la sua attività artistica principale, con un numero di regie imponente, che durò fino agli anni Settanta.
Insomma un artista/intellettuale che ebbe una sua corte, egualmente colta e intellettuale e schierata a sinistra, senza se e senza ma.
Dunque non potevano piacersi e non potevano farsi piacere i film dell’altro, anche se, ovviamente non lo dichiaravano pubblicamente.
Gli unici punti in comune erano l’apprezzamento per Mastroianni che lavorò spesso in teatro per Visconti prima di diventare l’alter ego di Fellini, e Nino Rota, musicista ispiratore del regista riminese (che mai trovò un sostituto, dopo la sua morte) i cui ritmi di ballata sono presenti anche in Rocco e i suoi fratelli, alternati ai frammenti di partitura melodrammatica.

Va infine detto che forse Fellini soffriva per il carisma intellettuale del rivale. L’ipotesi si avvale di una constatazione oggettiva che riguarda un altro celebre personaggio, Ingmar Bergman, per il quale aveva una grande ammirazione. Non a caso il primo spunto di Otto e mezzo (1962) scaturì dalla visione di Il posto delle fragole (1959), che giudicò un capolavoro. Accanto all’ammirazione c’era però anche l’invidia: Bergman era un’artista totale, che scriveva da solo i suoi copioni, e dirigeva opere liriche e testi teatrali, oltre che scrivere delle memorie di grande portata letteraria.
Dunque non è difficile pensare che anche di fronte a Visconti, Fellini si sentisse come un regista che doveva ancora conquistare la vetta e certo il successo di La dolce vita e poi di Otto e mezzo furono un toccasana.
Restava la rivalità di clan, diciamo intellettuali, e ciò pesò proprio sui giudizi critici dei film usciti nel 1960.
In generale, il clima non poteva che essere favorevole a Fellini, reduce da un successo di pubblico e dal premio maggiore a Cannes, e soprattutto cantore di una Roma amata/odiata, carnevalesca e modernissima, al punto che anche quell’ingannevole “dolce vita” suonava, anche se attraverso interpretazioni superficiali, come un trionfo di un’Italia allegra e spensierata, diciamo pure “cinematografica”.

Non è un caso che Scola, amico  e sodale di Fellini negli anni Cinquanta, omaggiasse il film come un punto di passaggio proprio dal neorealismo alla commedia moderna in C’eravamo tanto amati, mettendo in scena, con il vero Fellini, proprio la sequenza della Fontana di Trevi.
Il film di Visconti venne letto invece quasi come un residuo meridionalista che si scontrava con l’evidenza del boom economico e che, soprattutto, sul piano filmico rimetteva in corsa i residui del “neorealismo” estremizzandone le tragedie e le miserie.
Questo scontro senza clamori rimase sottotraccia per tutto il decennio che vide l’emergere delle “vagues” italiane e dei giovani autori della contestazione ma anche della progressiva mutazione del pubblico che premiava nuovi generi popolari, dalla commedia di Risi, Monicelli, Comencini, Scola e altri meno famosi fino al western spaghetti, un sottogenere che mutò in profondità i gusti delle giovani generazioni.

Ma La dolce vita rimase comunque un caposaldo del cinema italiano e internazionale, testimoniato da un numero imponente di pubblicazioni che, ancora oggi, è sembra non avere fine.
Al contrario, Rocco e i suoi fratelli finì per essere considerato un film “testimoniale” di un percorso ormai concluso, visto che anche il regista, pur non abbandonando né la sua visione politica legata alla sinistra, né le sue forme estetiche tragico-melodrammatiche e, in qualche modo, volutamente nostalgiche e decadenti, batteva nuove piste cinematografiche.

Poiché questa è una rubrica che, fin dal titolo, mette in causa i ricordi di chi la scrive, posso testimoniare il mio incontro, ovviamente tardivo, con i due film, dovuto ad una circostanza storica oggi dimenticata: la crisi petrolifera del 1973, dovuta alla guerra del Kippur tra Israele e gli stati arabi  esportatori che diminuirono i flussi estrattivi e aumentarono i prezzi dell’oro nero.
La conseguenza “spicciola” per noi cagliaritani, come per tutti i cittadini italiani, fu che la domenica non era possibile l’uso delle auto private e che, grazie a queste circostanze, il Centro Universitario Cinematografico, organizzò le mattinate d’essai, riproponendo grandi classici del cinema italiano. Tra questi, appunto, La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, che furono proiettati ad una settimana di distanza l’uno dall’altro.
Io, appunto, che nel 1960 avevo solo nove anni, li vidi per la prima volta in quella circostanza, seduto per terra, al cinema Alfieri accanto a quasi cinquecento spettatori che affollavano la sala. Confesso che mi piacque enormemente, forse anche a causa del mio impegno politico nella sinistra extra parlamentare, Rocco e i suoi fratelli, mentre fui abbastanza tiepido nei confronti di Fellini.

''Rocco e i suoi fratelli''Più a tardi, a casa, ebbi una bella discussione con mia sorella, che aveva ben nove più di me, e che dunque aveva fatto a tempo a vedere e gustare la piccolissima “dolce vita” cagliaritana, rinchiusa tra le quattro mura dello stabilimento balneare Il Lido, nonché a vivere e lavorare per ben quattro anni a Londra.
Per lei, il film di Visconti era tutto ciò da cui scappavano non solo i lucani ma anche i sardi, mentre La dolce vita era la modernità, a prescindere da quell’aria di tristezza esistenziale che probabilmente anche lei provava, specchiandosi nei personaggi.
Da allora l’alternarsi delle preferenze, che cominciavano a diventare anche tecnico-linguistiche, oltre che storico-politiche ed emotive, mi hanno fatto oscillare tra i due film, ma la bilancia pendeva sempre di più verso Fellini.
Però, quando ho insegnato storia del cinema ho usato, come film emblematici di storia e linguaggi, La terra trema di Visconti – il più estremo e il più estetizzante film neorealista – e Otto e mezzo di Fellini, l’opera più all’avanguardia di tutta la storia del cinema, accanto a La corazzata Potemkin e Quarto Potere.

Oggi, con l’avanzante vecchiaia, che dovrebbe rappresentare la saggezza (ma io ci credo poco), dopo averli ripassati, senza alcun obbligo professionale, penso che La dolce vita sia, in larga misura, datato.
Intendiamoci, non c’è opera creativa che non sia datata, riconosciuta come capolavoro e poi svalutata, oppure misconosciuta o considerata poco riuscita se non brutta, e poi, decenni o secoli dopo, considerata un capolavoro.
Forse l’unico esempio di stabilità creativa di altissimo livello che travalica ogni riconoscimento storico e ambientale,  è presente nei racconti e nei romanzi di Kafka, così strettamente legati ad una condizione umana universale e senza alcuna temporalità. Ma la datazione, tematica e linguistica, non indica necessariamente l’obbligo di archiviare ciò che si era definito un capolavoro, ma solo una precisa collocazione storica che comunque ci permette di leggere o di vedere, con passione, curiosità o interesse quell’opera, proprio perché ci fa viaggiare nel tempo e nello spazio.

Altre volte l’inevitabile datazione ribalta certe sicurezze critiche. Per esempio, oggi, i primi due celebri film di Bergman che ebbero un certo successo in Italia, cioè Il settimo sigillo e il già citato Il posto delle fragole, sono paradossalmente leggibili  attraverso una lente che ne ingrandisce pregi e difetti.
Il posto delle fragole, pur rimanendo un pietra miliare che, non a caso, come ho già scritto, ha fatto da modello per Otto e mezzo, sconta l’eccesso di spiegazioni nel costruire una memoria involontaria di tipo proustiano. Bergman, in seguito, sarà sempre più parco, misterioso e puramente allusivo.
Al contrario, poiché non è affatto mutata la percezione di una distanza siderale dalle cronache medievali di Il settimo sigillo, oggi, quelle immagini fantastiche e misteriose, assomigliano ad una pittura antica che testimonia la paura dell’apocalisse e dunque valgono quasi come cronaca storica indiretta.

Nel caso di La dolce vita, invece, la mitologia scaturita dal film  si è  imposta all’immaginario collettivo in maniera talmente forte da cancellare quello che un tempo si sarebbe chiamato “lo specifico filmico” e cioè la forma cronachistica di un’epoca che sembra lontanissima e non lo è affatto.
Oggi, proprio la sua struttura episodica consente di scegliere ciò che rimane di quel vero o presunto capolavoro.
Cominciamo dal prologo, con la grande statua del Cristo che viene trasportata in elicottero verso il Vaticano e che, a fianco, in un altro elicottero, presenta il protagonista, Marcello e il suo fotografo Paparazzo. La sequenza segna inequivocabilmente il senso del film: purezza e volgarità, santità e blasfemia.
È il primo segno della contraddizione del regista e della sua nostalgia di un cattolicesimo, magari non frequentato, ma parte di una memoria incancellabile e soprattutto affettiva. Insomma anche Fellini, come diceva Welles di Pasolini, era un “cristiano andato a male”.

''Rocco e i suoi fratelli''Va anche sottolineato che, sia pure in termini tragico/caricaturali, quella sequenza riappare alla fine di Loro2 di Sorrentino come un marchio della decadenza di Silvio Berlusconi, contemporaneamente Cristo in croce e centurione romano che lo crocefigge.
Il seguito, con la prima scorribanda di Marcello nel night club, a caccia di gossip, è oggi pura cronaca mondana da documentario “datato”, mentre il seguito con la notte d’amore tra il protagonista e l’annoiata e ricca Maddalena (Anouk Aime), nella camera da letto di una prostituta, in periferia, è segnata dall’estraneità del regista nei confronti di quell’ambiente, tale da creare una sorta di insopportabile artificiosità. Com’è noto, la sequenza fu scritta da Pasolini e, per dirla tutta, con il senno di poi, manca proprio la sacralità e l’autenticità del primo Pasolini per farne un brano convincente.
E ancora, sulla lunghissima e, per me, oggi, noiosissima sequenza del corteggiamento, della serata al ristorante/locale notturno – memorabile è comunque l’apparizione di Celentano – e del successivo bagno nella Fontana di Trevi assieme a Silvia/Anita Ekberg, è lo stesso Fellini che, otto anni dopo, nel 1968, in Toby Dammit, la rilegge con i toni definitivamente funerei che aleggiavano, a dispetto di coloro che non vedevano il lato mortuario di La dolce vita, anche nel film del 1960.

Non è un caso che Tullio Kezich scrivesse, a proposito di Toby Dammit che la serata al night con le premiazioni e la presentazione dell’attore inglese in stato alcolico avanzatissimo, era ciò che mancava in La dolce vita per sottolinearne le contraddizioni esistenziali, ovvero la compresenza dei due poli esistenziali del regista: vita e morte saldati assieme.
La coscienza di un effettiva falsità di quel mondo, respinto dalla fidanzata Emma – anche questi scontri sono abbastanza datati – si rivela in una lunga e bella sequenza che ci riporta al Fellini delle  esplorazioni periferiche degli anni Cinquanta: i due bambini che affermano di avere visto la Madonna in uno squallido luogo di baracche in periferia. Attorno a loro una folla brulicante attende il nuovo miracolo. Ecco il Fellini che, di nuovo, svela tutto il suo disgusto per la società dello spettacolo a cui appartiene a pieno titolo.
E non caso, dopo questa straordinaria sequenza, conclusa da un pioggia torrenziale che lascia sul terreno solo le macerie di una fede spettacolare e falsa, ha inizio la lunga e decisiva presenza di Steiner, vera architrave del film che appiattisce quella falsa “dolce vita”, ma non sa dare altre risposte se non la morte per se e per le giovani generazioni (i due figli) che non dovranno vivere in un mondo brutto e selvaggio.

''Rocco e i suoi fratelli''Altra sequenza memorabile e parabiografica, nonché quasi “leopardiana” nella sua tristezza, è la visita del padre, arrivato a Roma per affari, trascinato al night club dove ha inizio l’avventura con una ballerina, che sta per finire tragicamente a causa del malore del genitore per troppo alcol.
Anche questo è un pezzo memorabile di “non dolce vita”, ma di avvicinamento inevitabile alla morte.
La successiva e lunga sequenza, ovvero la festa al castello dei nobili, ha un tono decadente che riprende il contrasto tra la vera e la falsa “dolce vita”.
Anche per questa sequenza vale la pena citare il ricalco/citazione che ne fa, di nuovo, in La grande bellezza, Paolo Sorrentino. I nobili sono ormai pezzi di museo viventi e vengono noleggiati per dare lustro ad una cena importante. Al posto loro, forse nella sequenza più bella del film – autenticamente felliniana, cioè allusiva e metonimica – un misterioso “uomo delle chiavi” apre ad alcuni visitatori le porte dei tesori d’arte custoditi negli antichi palazzi. “La dolce vita” è definitivamente scomparsa per fare posto alla volgarità totale. Solo l’arte, fortunatamente, resiste al degrado.

E ancora il party orgiastico del pre finale è di nuovo “cronaca mondana” che si vede abbastanza stanchi e annoiati se non fosse per quel finale, sulla spiaggia, in cui dei pescatori tirano a secco una grande Manta che pare un mostro marino, nuova profezia dell’apocalisse che sembra stemperarsi nel vero finale. Marcello vede dall’altra parte di un corso d’acqua che finisce in mare e che non si può attraversare, Paola ovvero la giovanissima Valeria Ciangottini, simbolo di purezza che non si può avvicinare e neanche sentire, visto il rumore del mare. Come già scritto ecco un altro simbolo ambiguo: purezza uguale morte.
Per quanto riguarda Rocco e i suoi fratelli, invece, la mitologia non può essere evocata in alcun modo a sostegno della sua maggiore tenuta storica ed anzi è proprio la lontananza a creare una sorta di obbligatorio “viaggio nel tempo” – nonostante i visibili sessant’anni del film non siano poi così lontani – che ci permette di ritrovare un momento fondamentale della storia italiana.
Si può anche aggiungere che quel momento storico, ovvero l’esodo di diversi  milioni di meridionali da sud al nord e spesso anche all’estero, tra Germania e Belgio, è stato rimosso ma non “digerito”, né economicamente, né culturalmente.

Sicché il film di Luchino Visconti è anch’esso un film sulla modernità, basato però sull’epica tragica del mondo contadino in disfacimento e sulla nascita di una classe operaia nel nord del paese, segnata dal sacrificio familiare, dalla tragedia dello spaesamento, dalla maledizione del successo e del denaro.
E dunque, a parte il messaggio politico culturale che emerge dall’immersione del giovane Ciro nel mondo operaio, cioè nel proletariato, il nodo drammaturgico del film è proprio legato all’esplosione tragica e melodrammatica che ha il proprio acme nell’arrivo di Simone a casa dopo aver ucciso la sua ex amante. Volutamente, Visconti, in quella lunga sequenza che procede per accumulo – come appunto avviene nei romanzi di Dostoevskij – e che molti spettatori di oggi, probabilmente, rifiuterebbero come “residuo” di un certo folclorismo meridionale, attinge alla sceneggiata napoletana, tragicizzandone i contorni.

E qui vale la pena di citare un film uscito appena due anni prima, La sfida di Francesco Rosi, esordiente, dopo essere stato l’aiuto regista proprio di Visconti in La terra trema. La sfida è una storia di camorra basata su fatti di cronaca reale – il delitto  di Pascalone e’ Nola, che aveva osato sfidare i boss del mercato ortofrutticolo di Napoli – che non si perita di usare proprio i materiali popolari con i quali, anche oggi, con le varie Gomorre contemporanee , vengono esposte le storie criminali vere o verosimili.
La datazione, dunque, in questi casi, è la forza del film o dei film, cioè l’opportunità di “viaggiare nel tempo” per incontrare un’Italia che non esiste più e che non si vuole ricordare.

20 novembre 2019