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“Gli anni più belli” il capolavoro di Gabriele Muccino

di Valentina Neri

''Gli anni più belli''“Gli anni più belli”, l’ultimo film di Gabriele Muccino, rispetto alla sua produzione finora compiuta, si può considerare il suo primo vero capolavoro. La grande Storia entra nel montaggio del film in punta di piedi, senza invadere il campo ma facendo valere la sua forza all’interno della piccola storia senza pretese di ricostruzioni azzardate.

Si accenna agli eventi che hanno sconvolto l’Italia e il mondo negli ultimi quarant’anni come gli Anni di Piombo, la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, il crollo delle Torri Gemelle e l’incombenza del Terrorismo, la rivolta contro la classe dirigente italiana che ha portato il Movimento 5 Stelle al Governo. Sullo sfondo, una Roma ai limiti di un nuovo neorealismo degno di “Ladri di biciclette”, dove il particolare graffia il cuore poiché tanto è cambiato ma in fondo nulla è cambiato: il degrado è degrado tanto sulla strada, quanto sui social. La piccola storia è il frutto della grande storia che sta sullo sfondo e ha creato una generazione, troppo spesso, negandole un avvenire dignitoso, dove le famiglie si sfasciano con facilità, l’amore e l’amicizia non si appagano in sé stessi e tutto diventa lecito.

''Gli anni più belli''Gli anni più belli” è la storia di una grande amicizia tra tre giovani ed è anche la storia di un “piccolo grande amore” che corrono sulle note immortali di uno dei gran Signori della Canzone Italiana, Claudio Baglioni, cantautore di valore e uomo di ancor più grande valore; scelta che non ha nulla di casuale ma che rappresenta l’etica che il lungometraggio vuole trasmettere. Si corre, si corre: gli anni, pur difficili, nella pellicola scorrono in fretta, ma il treno che trasporta i suoi personaggi è senza autista e deraglierà più volte. Tutti i protagonisti commettono dei grossi errori; nessuno di loro è solo cosa è in quanto “essere”, ma è anche che lavoro ha scelto di fare, quello che ha studiato, le disgrazie che lo hanno segnato; è come se ciascuno di essi conoscesse il senso delle proprie colpe e, in fondo, guardasse con indulgenza a se stesso in quanto tutti seriamente capaci di una feroce autocritica interiore: sanno da dove vengono e anche  dove vogliono andare, è questo li porterà  a capire e a perdonarsi, l’un l’altro, perché l’errore è un traguardo dell’anima; chi non sbaglia, non conosce umiltà: questo è il vero peccato che imbruttisce e rallenta il nostro cammino verso l’adultità, messaggio che il regista fa passare nel profondo sottotesto della sua pellicola. 

''Gli anni più belli''L’unica finzione, infatti, che poi finzione non  è, la troviamo  nell’ambiente stucchevole, frequentato da Giuseppe (Pier Francesco Favinio), diventato un grande avvocato; il suo mondo è falso ma così come è falso è anche, paradossalmente, vero; la falsità esiste e di solita si annida negli ambienti che hanno la pretesa di sentirsi in una dimensione “altra” ma che in fondo sono piccoli e spregevoli; il  regista non manca di denunciare questo classismo imperante che riguarda quasi sempre chi non ha conosciuto dolori o miserie o se anche le ha conosciute ha trovato il modo sbagliato per fuggirne. Lo spettatore non può che emozionarsi ripetutamente, non può porsi in maniera giudicante, perché non ha davanti degli stereotipi, dei personaggi cinematograficamente intesi, ha davanti essere umani della sua dimensione, pertanto, li può trasfigurare nei propri amici, nei propri amori, capirne le ferite e, da spettatore, sai che se giudichi loro giudichi te stesso ed è questa l’abilità del regista, far si che il pubblico si esenti dal giudicare, cosa assai rara.

''Gli anni più belli''Questa è la grandezza de “Gli anni più belli”, la capacità di comprendere, di accettare, di superare, di non giudicare.  Le interpretazioni hanno un naturalismo dolce, sfumato tra luci ed ombre dalle ansie contenute, quasi rassegnate. Quando esci dal cinema sei molto stanco, come se davvero fossero passati molti anni, per l’intensità con cui il film ti fa partecipe sin dal primo istante; ti sembra di aver vissuto non di aver guardato. Lodevoli sia la colonna sonora di Nicola Piovani, in cui la nota tocca sempre la vibrazione giusta dei sensi; le canzoni scelte in modo opportuno e in linea con gli accadimenti, senza mai arrecare dissonanze; lo spettatore, o meglio, in questo l’ascoltatore, non resta indifferente ma viene scavato dentro anche attraverso i suoi ricordi come solo la musica sa fare. Nei film di Muccino, sempre corali, la vita scorre a 360 gradi con autenticità; non è il morso di una mela, non è uno spicchio d’arancia quello che vedi; fosse un pittore sarebbe un incrocio tra la capacità di segmetare picassiana e di tirar fuori quella quarta parete sbattendola in faccia agli occhi del mondo come gli orrori di “Guernica”, e quello di uno Scapigliato Lombardo che, da buon Bohemien, mentre nega il Romanticismo gli chiede soccorso.

''Gli anni più belli''La fotografia è curata nei dettagli e, man mano che gli anni volano, il nitore si fa più pregnante e, in un ben dosato gradiente, si staglia da quell’eco di lontananza pastellato, a tratti dorato, che accompagna le prime scene. Un inchino agli attori. La bravura di Favinio è un’ ascesa continua, una sorpresa ogni volta, è pronto per essere consacrato nell’Olimpo dei grandi attori Italiani che hanno fatto e faranno la Storia del nostro miglior Cinema:  un volto dalle mille maschere, non un caratterista ma una figura rotonda e multiforme come dimostra anche in quest’ulteriore ruolo;  Kim Rossi Stuart, che conosciamo così bene nei panni del gangster, mette da parte le sue pistole per citare Plinio, e si abbandona,  senza paracadute, tra le braccia di un personaggio che ti culla con la sua tenerezza dando anch’egli una grandissima prova di duttilità; Claudio Santamaria incarna uno tra i tanti che, oggi come oggi, deve sfangarsi una vita che lo ha privato di tante ambizioni che gli costeranno il tentativo di alienazione parentale nei confronti del figlio, causato dalla sua disoccupazione, ed è forse il ruolo più difficile per il continuo sforzo che il protagonista  tenta di fare per essere felice, almeno ogni tanto, o nonostante tutto;  ma la vera  rivelazione è “Gemma”, Micaela Ramazzotti che si affaccia al cinema, nella sua bellezza incandescente, spregiudicata ma fragile, insicura eppure mai vinta.

''Gli anni più belli''Non sa quello che vuole eppure cammina unendo in maniera miracolosa una grazia alla Fanny Ardant alla malconcia surrealtà sudicia di una nuova Fantine che sembra uscita dalla penna di Hugo. Il montaggio è anch’esso esemplerare nel suo essere diacronico; non ha bisogno di salterellare se non nel rimembrare il già visto. Gli anni passano giusto grazie a qualche capello bianco, le già citate tonalità della fotografia, i bambini che crescono. Niente di didascalico niente di artificioso, gli anni sono passati, semplicemente. Lo vedi nello sguardo degli attori che hanno perso spensieratezza e sono velati di una malcelata malinconia, quella malinconia che il tempo trascorso ti stampa sulle pupille in modo indelebile. Ma forse alla fine “Gli anni più belli”, ancora ci aspettano, con le loro impreviste sorprese così, proprio come questo film, il “più bello” che Gabriele Muccino ha confezionato sinora, ma forse non più bello di quanto ancora ci deve donare.

A lui il merito, e lo dico, senza retorica, di essere l’unico regista italiano attuale, a mettere in primo piano il gioco di emozioni autentiche che deve turbare lo spettatore, come è giusto che sia, perché è questo ciò che si chiede ad un film, quando si va al cinema.

20 febbraio 2020