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Percorso

I migliori film della storia del cinema e della vita dei critici e degli spettatori

Riflessioni sul cambiamento dei gusti e delle estetiche dal dopoguerra ad oggi attraverso i referendum della rivista inglese Sight and sound. Memorie d’oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

''La donna che visse due volte''In un precedente articolo ho segnalato il restauro e la distribuzione nelle sale di un film piuttosto noto e discusso di Alfred Hitchcock: La donna che visse due volte (1959). È obbligatorio, prima di proseguire, citare La Cineteca di Bologna, responsabile di questo e altri preziosi restauri che, negli ultimi dieci anni, hanno permesso la circolazione di importanti pellicole del passato nelle sale  di tutt’Italia.

Nel mio scritto mi soffermavo sul fatto che, nel 2012, La donna che visse due volte fosse stato indicato come il migliore film della storia del cinema  da una giuria di critici selezionata dalla rivista “Sight and Sound” che fa capo al British Film Institut.
Ora si può essere scettici su ogni tipo di classifica basata, banalmente, su opinioni, nel cinema come nel calcio o nel tennis, giusto per limitare la portata di questi fenomeni che, appunto, ricordano le discussioni da “bar dello sport”. E giusto per limitarne ulteriormente l’importanza, da almeno vent’anni, smanettando su Internet, è possibile trovare ogni tipo di classifiche filmiche, basate spesso su percorsi temporali che hanno inizio, quando va bene, nel secondo dopoguerra e che si limitano a proporre titoli o anche registi molto conosciuti, dai classici di Hitchcock al Il Padrino, da Scorsese a Tarantino – quest’ultimo, appunto dominatore delle classifiche degli ultimi vent’anni – da Bertolucci al Titanic o Blade Runner, senza omettere ovviamente due classici come Casablanca e Via col vento.

Ma le classifiche che mi accingo a esaminare vantano un prestigio indiscutibile, derivante dall’istituzione pubblica (il British film Institut, come ho già scritto) alla quale fa capo la rivista “Sight and Sound”.
Il sondaggio è riservato ad una vasta area di critici e studiosi di cinema di ogni parte del mondo, rigorosamente anonimi, e si rinnova ogni dieci anni, un tempo perfetto sia per “sondare” le novità apparse sugli schermi, sia per aggiornare i giudizi di un tempo, legati a personalità critiche diverse e, soprattutto,  ai continui studi filmici legati anche alle università.
Sicché, questa classifica è un po’ il faro di un’opinione critica prestigiosa che, ovviamente, può essere discussa e contestata (come ho fatto io nell’articolo su La donna che visse due volte) o messa a confronto con le altre classifiche che ho citato in apertura. Dunque proviamo a cercarne o magari a trovarne il senso. Il 1952, primo anno del sondaggio, si apre con un film la cui forma e la cui estetica sono consustanziali ad un’intera epoca, ovvero l’immediato dopoguerra: Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini.

''Ladri di biciclette''La scelta dei critici fu infatti sicuramente motivata dal fatto che il capolavoro del neorealismo italiano, girato nel 1948 e premiato con l’oscar per il miglior film straniero (il secondo oscar a De Sica dopo quello del 1946 per Sciuscià), ebbe un riconoscimento critico in gran paese del mondo e fu in qualche modo “adottato” dalle nuove generazioni di cineasti, in Europa come negli Usa.
Pur di girare il film secondo la loro visione estetica, De Sica e Zavattini rifiutarono le proposte hollywoodiane. Difatti, i produttori statunitensi, sorpresi dal successo di Sciuscià, avevano proposto di produrre negli Stati Uniti Ladri di biciclette, utilizzando come attori  Cary Grant o Henry Fonda (sic!).
Tornando al successo del film, la novità dell’opera o dell’intera corrente cinematografica neorealista era direttamente legata alla percezione e alla registrazione della realtà post bellica senza eccessi drammaturgici o narrativi, senza attori famosi (come appunto Grant o Fonda) ma piuttosto con personaggi presi dalla strada e dalla vita reale che potessero riproporre il loro vissuto.
Neanche il realismo francese dell’anteguerra (quello di Renoir e Carnè, per intenderci) oso proporre una tale ed estrema “spoliazione” dello spettacolo filmico. Sicché quelle immagini del padre e del figlio, protagonisti di un’odissea contemporanea che ha come obbiettivo la bicicletta, senza la quale non ci sarà alcun lavoro, innescarono una vera e propria deflagrazione. Colpirono il grande studioso Andrè Bazin, che parlò di “cinema puro”, e persino il surrealista Bunuel, lontano anni luce dal realismo filmico di ogni tempo,  che vide nella bicicletta rubata una sorta di vero e proprio personaggio attorno al quale ruota l’intera narrazione.

Il primo posto a Ladri di biciclette, infine, è rafforzato in termini di importanza storica, dal  fatto che gli altri titoli in classifica appartengono tutti all’anteguerra e persino al cinema muto.
I nove film rimasti, infatti, comprendono Luci della città (1931) e La febbre dell’oro (1925) di Chaplin, La corazzata Potemkin (1925) di Ejzenztejn, Intollerance (1916) di Griffith, Lousiana Story (1948) – unico film post bellico, assieme a Ladri di biciclette, anche se Flaherty era comunque un regista già piuttosto celebre prima della guerra – Rapacità (1924) di Stroheim, Alba tragica (1939) di Carnè, La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer (1929), Breve incontro  (1945) di Lean e La regola del gioco (1939) di Renoir.
Di nuovo, anche Breve incontro (certamente un film sovrastimato e oggi più o meno dimenticato o rubricato come il primo titolo di Lean che mostra una maturità artistica notevole) appartiene all’immediato dopoguerra e ad un cinema minimalista nella sua drammaturgia. Al contrario, un film oggi ingiustamente dimenticato, benché quasi sempre presente nelle classifiche successive è La regola del gioco di Renoir, straordinaria e virtuosistica rappresentazione – quasi teatrale ma girata con un uso continuo di piano sequenze – del mondo “incantato” che festeggiava la propria chiusura ad ogni influenza estranea all’ultima forma di aristocrazia, inconsapevole della tragedia che si stava per abbattere in Europa. Il film di Renoir era, ed è tuttora, non a caso, quasi un ritratto proustiano dell’ultima aristocrazia francese.
Si può ricordare, infine, che Truffaut lo indicò come il film che, assieme a Quarto Potere, determinò il maggior numero di vocazioni alla regia cinematografica.

''Quarto potere''E, appunto, un’obbligatoria notazione  che anticipa l’elencazione delle successive classifiche, di decennio in decennio, è l’assenza di Quarto Potere. Il film di Orson Welles, apparso nel 1941, alla vigilia della guerra, era già visibile nel 1942 in Gran Bretagna e dal 1946 in Francia e in altri paesi del continente europeo ma non in Italia.  Fu dopo l’intervento di Andrè Bazin, negli anni Cinquanta, che, addirittura, trovò il film “realista” al massimo grado proprio per le sue invenzioni tecniche (dal piano sequenza alla profondità di campo) che il film cominciò ad essere valutato positivamente.
Però, già nel 1946 uno studioso di letteratura, Jean Bourges, pubblicò un saggio nel quale analizzava il film di Welles sulla base di un confronto linguistico con la letteratura novecentesca, in particolare la Recherche proustiana, indicando nella forma filmica di Quarto Potere una sorta di sperimentazione di nuovi orizzonti formali per il cinema del presente.
Ma al di là degli interventi specialistici che mettono le basi per il futuro successo del film,  tornando alla classifica del 1952, è certo che il film di Welles si pone, proprio per le sue invenzioni linguistiche, al capo opposto di Ladri di biciclette che, come la maggior parte dei film neorealisti, teorizza e pratica una sorta di naturalezza scenica, di sguardo neutrale dello spettatore nei confronti del visibile comune e quotidiano.

I tempi cambiano e, nella classifica del 1962, Quarto Potere sarà  al primo posto e Ladri di biciclette si dovrà accontentare del settimo, preceduto da L'avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, La regola del gioco (1939) di Jean Renoir, Rapacità (1924) di Eric von Stroheim, I racconti della luna pallida d'agosto (1953) di Kenji Mizoguchi, La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
Chiudono la classifica i due Ivan di Ejzenstejn (Ivan il terribile e La congiura dei boiardi), visibili in occidente dopo le aperture post staliniane di Krushev, La terra trema (1948) di Visconti e L’Atalante (1934) di Jean Vigo.
Vale la pena, ovviamente, di commentare o meglio di interpretare questa classifica. Di Quarto potere si può sottolineare semplicemente che starà in classifica al primo posto fino al 2012, quando verrà sostituito da La donna che visse due volte (1959). Il terzo posto di Renoir (La regola del gioco) conferma la lunga durata dei classici, così come la conferma e il rafforzamento del mito di Ejzenzstein, visto che alla Corazzata Potemkin aggiunge i suoi due ultimi film.
L’omaggio alla classicità e allo sperimentalismo del grande cinema muto viene confermata anche da Rapacità di Stroheim. Invece L’Atalante di Jean Vigo – per chi non lo conosce, la sequenza più bella e più sperimentale è diventata da quarant’anni la sigla del programma “Fuori Orario” – è un ripescaggio quasi doveroso di un residuo straordinario dell’avanguardia francese prebellica.
In qualche modo questa considerazione vale anche per La regola del gioco anche se la presenza della pellicola nelle classifiche dei decenni successivi, e sempre tra i primi posti, sembra decretare una sorta di classicità di quel film che purtroppo continuano ad essere quasi sconosciuti alle nuove generazioni.

''La dolce vita''Invece l’apparizione di La terra trema, film neorealista “estremo” di Luchino Visconti, vale quasi come alternativa estetica a Ladri di Biciclette: il film di De Sica è costruito sull’assenza di drammatizzazione forzata, se non nel finale melodrammatico; Visconti, al contrario estremizza la componente tragica della vita dei pescatori verghiani, costruendo un realismo esteticamente corposo fin quasi all’esplosione dei contrasti tra i protagonisti.
In qualche modo la scelta di collocare in una stessa classifica De Sica/Zavattini e Visconti sembra di nuovo una presa di posizione in favore della rivoluzione neorealista ancora capace di condizionare i registi di ogni parte del mondo.
Ma la novità vera di questa classifica, che porta a tre i film italiani segnalati, è il secondo posto a L’avventura di Michelangelo Antonioni. È obbligatorio ricordare che, nel 1960, il film vinse il gran premio della giuria al Festival di Cannes, accolto però da fischi e urla di proteste da parte del pubblico.
La Palma d’oro, lo stesso anno, fu assegnata a La dolce vita di Fellini, film che curiosamente non compare affatto nel classifica del decennio e neanche nei decenni successivi.
Ma è meglio soffermarci sul significato di questo riconoscimento: il secondo posto nella classifica della rivista inglese è infatti il primo segno dell’avanzata di quel fenomeno che può essere rubricato con il nome improprio di “vague”, cioè “ondata” nato in Francia (il nome esatto del movimento fu “nouvelle vague”) come vero e proprio emblema riconoscibile di un movimento di rivolta, capeggiato da François Truffaut e Jean Luc Godard, contro il cinema dei padri.

Nel 1962, entrambi i registi, formatosi come critici, avevano già girato, rispettivamente quattro film Godard e due Truffaut. Godard aveva esordito con uno delle opere più emblematiche di questa rivoluzione formale, Fino all’ultimo respiro (1960), sceneggiato da Truffaut, che dal canto suo l’anno prima aveva firmato I 400 colpi, altro film segnato da una fortissima impronta formale innovativa ma anche fortemente autobiografico.
Accanto ai fondatori della “nouvelle vague” erano già attivi altri registi piuttosto noti, come Rohmer, Resnais, Malle, ma dei loro film non c’è nessuna traccia neanche nelle classifiche dei decenni successivi. Così come mancherà il grande cinema d’autore dei paesi dell’est comunista: Polanski, Wajda, Skolinowski, Forman, Jancso, Szabo.
Invece, un’altra grande novità fu l’inserimento in classifica di uno dei capolavori del cinema giapponese, I racconti della luna pallida d’agosto di Kenji Mizoguchi, che si vide in Europa alla fine degli anni Cinquanta. Con tutto il rispetto per la scelta dei critici, occorre sottolineare che, anche in questo caso, un altro maestro di questo grande continente cinematografico, Kurosawa, attivo come Mizoguchi fin dagli anni Quaranta, aveva vinto il leone d’oro a Venezia con Rashomon (1953) e l’anno successivo quello d’argento per I sette samurai. I due film verranno inseriti in classifica solo nei referendum successivi Insomma, la critica arriva quasi sempre in ritardo.

''La corazzata Potemkin''E siamo al 1972, con la conferma di Quarto Potere e, in qualche modo, l’omaggio retrospettivo all’intera sua carriera, con il settimo posto assegnato ad un altro film del regista, L’orgoglio degli Amberson, girato nel 1942 e arrivato in Europa dopo il 1945. Ovviamente si potrebbe segnalare che, nel 1972, Welles non solo aveva girato altri cinque capolavori (dall’Otello a Il processo, da L’infernale Quinlan a Falstaff e Storia immortale) ma era considerato il maggior autore dell’intera storia del cinema. Forse, in quanto a fama e carisma, diciamo retrospettiva (Welles morì nel 1985 ma  già nel 1972 la sua carriera era giunta al capolinea), il regista era considerato l’ Ejzenstejn del cinema sonoro. Tornando alla classifica va segnalato il secondo posto a La regola del gioco (anche Renoir che morì nel 1979 era ormai un cineasta del passato),  e l’avanzata di La corazzata Potemkin, nonché la discesa al quinto di posto di L’avventura e, di nuovo, la presenza del film di Mizoguchi già citato, nonché del Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco.
Un altro film del passato ripescato dalla critica fu Come vinsi la guerra di Buster Keaton, che, seguendo le mode “critiche” che vanno e vengono, fu preferito a Chaplin.
Ma le grandi novità di questa classifica sono le presenze di Federico Fellini (terzo per Otto e mezzo) e di Ingmar Bergman (Persona al quinto posto e Il posto delle fragole al decimo) che, evidentemente vengono considerati, assieme ad Antonioni, i veri maestri del cinema contemporaneo, capaci di “immergersi” in un contesto memoriale e, talvolta, inconscio: un terreno creativo che veniva considerato appannaggio quasi esclusivo della letteratura e della poesia. In questo senso proprio Otto e mezzo può essere considerato il Quarto potere del cinema memoriale e quasi autobiografico, mentre i due capolavori di Bergman aprono le porte all’universo poetico del regista svedese, dove la memoria e l’inconscio sono presenze stabile, capaci di rivoluzionare il mondo del cinema d’autore.

''I 7 samurai''Curiosamente la classifica del decennio successivo, il 1982, oltre ad eliminare Mizoguchi in favore di Kurosawa, più popolare (ma il film scelto I sette samurai, uscito nel 1954, non è affatto la sua opera migliore) sostituisce i due film di Bergman, Persona e Il posto delle fragole, nonché La passione di Giovanna d’Arco, con tre pellicole hollywoodiane indiscutibilmente belle ma che mai i critici dell’immediato dopoguerra – e di certo neanche Orson Welles, ancora al primo posto con Quarto Potere – avrebbero proposto come “i migliori” dell’intera storia del cinema.
I titoli sono Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen e Gene Kelly, un musical che rievoca la nascita del cinema sonoro, inserito al terzo posto; La donna che visse due volte (1959) di Alfred Hitchcock, all’ottavo posto e, infine, al decimo posto, Sentieri selvaggi, film che nobilita il western e il suo maggior autore/maestro, John Ford, offrendo una sponda mitologica e psicologica alle avventure e alle tragedie della colonizzazione dell’ovest e all’estinzione dei pellerossa.
Evidentemente è di nuovo cambiato il clima culturale e soprattutto la teoria del cinema d’autore postulata dalla “nouvelle vague” negli Cinquanta e Sessanta, si è estesa retrospettivamente all’intera storia del cinema. Il che è certamente un atto di giustizia nei confronti di tanti capolavori, soprattutto hollywoodiani, ma rischia di estromettere molti autori europei o statunitensi, giapponesi o indiani, solo perché la loro circolazione è scarsa e riservata solamente alla critica. Queste riserve rimarranno tali anche con l’avvento delle emittenti televisive multicanali e persino le piattaforme “on-line”. Si spera che le cineteche possano mettere in rete i loro archivi per poter espandere la conoscenza della storia del cinema.
Infine, va detto che la classifica del 1982 appare quando in tutto il mondo comincia a prospettarsi la paura della concorrenza televisiva e il disamore antropologico per  “l’andare al cinema” che provoca la chiusura di migliaia di sale in tutto il mondo e che continuerà la sua corsa fino ai nostri giorni.

Di nuovo contradditorio sarà il risultato del sondaggio del 1992, un anno sempre più  segnato dal distacco tra la “storia del cinema” analizzata dai critici che collaborano con “Sight and Sound” e ciò che vedono gli spettatori delle sale e delle televisioni, anche se è vero che, in quegli anni ci sono ancora, nelle emittenti pubbliche (ovvero, per l’Italia, la Rai), delle serie filmiche di altissima qualità (Buñuel, Ozu, Zanussi, Wajda, Tarkowskij, Bresson, giusto per fare degli esempi) che hanno come obbiettivo una diffusione del cinema d’autore di ieri e di oggi ed anche di cicli storici di grande importanza sul piano della divulgazione.
Tornando alla classifica, si confermano Quarto Potere e La regola del gioco (film ancora orfano sul piano della popolarità anche di tipo “cinefilo”) al primo e secondo posto. Ma il terzo è occupato da Viaggio a Tokyo di Yasyjiro Ozu, ultima scoperta della critica e della cinefilia internazionale.
Ozu è considerato il più giapponese dei registi giapponesi. Il bisticcio linguistico è voluto e serve a spiegare il paradosso delle letture critiche di superficie che, purtroppo, sono consustanziali agli studi cinematografici che si addentrano nelle culture non occidentali. Ma certo, uno spettatore attento e curioso non può non approvare questa scelta che sembra polarizzare la critica tra due estremi.
Difatti al quarto posto troviamo La donna che visse due volte, ovvero il cinema spettacolo, caratteristico di Hitchcock, mentre al quinto ritroviamo Sentieri selvaggi che sembra voler scalare la classifica in nome della rivalutazione del western.
La presenza di L’Atalante, La passione di Giovanna d’Arco, La corazzata Potemkin conferma il legame obbligatorio con la storia del cinema muto, mentre il decimo posto a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick – che uscì nelle sale nel 1968 – è certo un riconoscimento tardivo ad un capolavoro e ad un maestro del cinema che nel 1992 poteva vantare una filmografia scarna ma ricca di altri capolavori.

''Otto e mezzo''Infine, il nono posto a Il lamento sul sentiero (1955) di Satyajit Ray è un altro riconoscimento culturale nei confronti di una cinematografia sconosciuta, quella indiana, e di un maestro del cinema indiscutibile.
A partire dal 1992, la rivista inglese affiancherà le preferenze critiche ad una classifica stilata attraverso un altro referendum tra i maggiori registi di ogni parte del mondo.
Per certi versi l’ossatura di questa classifica – che si potrebbe definire tecnica, se non fosse che anche i registi sono esseri umani con preferenze affettive  non diverse da quelle dei comuni spettatori – ricalca quella dei critici ma con diverse e fondamentali differenze.
A primo posto, infatti, c’è il solito Quarto Potere, seguito da Otto e mezzo di Fellini (ecco l’importanza della valutazione tecnica) che raddoppia la sua presenza con uno dei suoi primi film, La strada (1954), al quarto posto.
Ma al terzo troviamo Toro scatenato (1980) di Martin Scorsese e al sesto e  all’ottavo i due Padrini di Francis Ford Coppola, usciti delle sale nella prima metà degli anni Settanta. Un orientamento verso la contemporaneità che sembra un rimprovero ai critici che si occupano solo della storia “passata” del cinema.
Ma anche questa classifica paga il suo pegno alla storia con l’inserimento di L’Atalante di Vigo, di Tempi moderni di Chaplin e di La passione di Giovanna d’Arco.
Al nono e decimo posto invece ritroviamo Kuroswa con Rashomon (finalmente!!) e il solito I sette samurai. E ancora, anche i registi sono sensibili al potere fascinatorio dell’Hitchcock di La donna che visse due volte ma, nello stesso tempo, ritengono Bergman e Kubrick – probabilmente i più grandi creatori di cinema mai esistiti – dei cineasti minori. Un segno di provincialismo culturale, come quello che trascura da sempre un regista come Tarkowskij, nel frattempo scomparso e tuttora poco conosciuto.

''Il dottor Stranamore''E siamo al nuovo secolo con l’inossidabile Quarto potere al primo posto, incalzato però da La donna che visse due volte che scavalca un altro film inossidabile, La regola del gioco che scivola al terzo posto.
Al cinema muto sono rimasti in carico un altro film inossidabile, La corazzata Potemkin, affiancato da un nuovo titolo, Aurora (1927) di Murnau.
Al quarto posto entrano i due Padrini (I e II) Francis Ford Coppola, annunciati dalla classifica dei registi del decennio scorso. Il quinto ripesca fortunatamente Viaggio a Tokyo di Ozu e il sesto fa avanzare 2001 di Kubrick.  Altri due classici del muto, La corazzata Potemkin e Aurora resistono al settimo e ottavo posto, mentre il nono è appannaggio di Fellini (Otto e mezzo) che, dunque, diventa giustamente il regista italiano più votato a livello internazionale. Chiude Cantando sotto la pioggia.
Insomma, sembra una classifica abbastanza stabile, contrariamente a quella dei registi che, confermando Quarto Potere, fanno salire al secondo posto i due Padrini e al terzo Otto e mezzo. Seguono Lawrence D’Arabia di Lean (1969) e Il dottor Stranamore (1963), certo il meno bello tra i film di Kubrick.

E ancora, i registi ripescano giustamente Ladri di biciclette, confermano Toro Scatenato nonché l’intramontabile e assolutamente poco visibile La regola del gioco e stabilizzano al sesto posto La donna che visse due volte. Infine omaggiano Kurosawa  con il capolavoro Rashomon e con il più celebre I sette samurai.
E siamo giunti al 2012, con il sorpasso di La donna che visse due volte nei confronti di Quarto Potere.
Poiché ho dedicato a questo “sorpasso” il mio precedente articolo su Cinemecum, non farò ulteriori commenti, se non per quanto riguarda il resto della classifica che conferma Viaggio a Tokjo, La regola del gioco (il film più stabile fin dalla classifica del 1952), Aurora di Murnau, 2001 di Kubrick, Sentieri Selvaggi di Ford, La passione di Giovanna D’Arco, Otto e mezzo di Fellini.
L’unico film “nuovo” che appare in classifica è L’uomo con la macchina da presa che sembra voler sostituire l’inossidabile La corazzata Potemkin.
La classifica dei registi, pur mettendo al primo posto Viaggio a Tokjo di Ozu e lasciando all’ottavo il “miracolato” La donna che visse due volte, conferma molte scelte dei critici, ad esempio 2001, Quarto Potere, Otto e mezzo.
Ma ci sono anche novità importanti: la prima è la conferma di Ladri di Biciclette, che risulta anche il film sonoro più “anziano” dell’elenco. Il secondo è l’entrata in classifica, accanto a Il padrino, di un altro celebre film di Coppola, Apocalypse now. E ancora il quinto posto a Taxi Driver conferma l’importanza di Martin Scorsese come grande autore contemporaneo. Ma la grande novità è senza dubbio il nono posto a Lo specchio di Tarkowskij, vero e proprio capolavoro mai preso in considerazione dalla critica.

''Il ladro di orchidee''In attesa del referendum del 2022, si può chiudere questa noiosa catalogazione con un’ultima classifica – gli autori sono i critici – che sceglie trenta titoli rappresentativi  del primo decennio del nuovo secolo.
Ecco la lista completa: Il ladro di orchidee (2002) di Spike Jonze, Battaglia nel cielo (2005) di Carlos Reygadas, Tutti i battiti del mio cuore (2005) di Jacques Audiard, The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo (2007) di Paul Greengrass, Juventude em marcha (2006) di Pedro Costa, Moartea domnului Lazarescu (2005) di Cristi Puiu, Éloge de l'amour (2001) di Jean-Luc Godard, Le cinque variazioni (2003) di Jørgen Leth e Lars von Trier, Les glaneurs et la glaneuse (2000) di Agnès Varda, Niente da nascondere (2005) di Michael Haneke, Inland Empire - L'impero della mente (2006) di David Lynch, In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai, Memories of Murder (2003) di Bong Joon-ho, La niña santa (2004) di Lucrecia Martel, Yi Yi - e uno... e due... (2000) di Edward Yang, Platform (2000) di Jia Zhangke, Arca russa (2002) di Aleksandr Sokurov, Il figlio (2002) di Jean-Pierre e Luc Dardenne, La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki, Parla con lei (2002) di Pedro Almodóvar, Dieci (2002) di Abbas Kiarostami, Il petroliere (2007) di Paul Thomas Anderson, 35 rhums (2008) di Claire Denis, La morte sospesa (2003) di Kevin Macdonald, Tropical Malady (2004) di Apichatpong Weerasethakul, United Red Army (2008) di Kōji Wakamatsu, Uzak (2003) di Nuri Bilge Ceylan, Aspettando la felicità (2002) di Abderrahmane Sissako, Le armonie di Werckmeister (2000) di Béla Tarr, Workingman's Death (2005) di Michael Glawogger.

''Il petroliere''Sono costretto ad ammettere di non aver visto più o meno la metà dei titoli citati e non per mia colpa. Non sono mai passati nelle sale cagliaritane ed io, nel nuovo secolo, non ho più frequentato i festival del cinema.
Quanto ai film da me visti, l’unica riserva è per The Bourne Ultimatum (2007) di Paul Greengrass che mi sembra un avvincente e ripetitivo film di “serie” che non merita l’onore di una tale classifica.
Pesco volentieri, invece, Tutti i battiti del mio cuore di Jacques Audiard, regista francese che risulterà poi tra i migliori del decennio successivo. E ancora, Niente da nascondere di Michael Haneke (ma avrei scelto Il nastro bianco: un capolavoro); In the mood for love di Won Kar Way, Memorie di un assassino di Bon Joon-ho, in Italia visibile solo recentemente. E ancora, Il petroliere di Paul Thomas Anderson, Arca russa, straordinario film in un unico piano sequenza di Aleksandr Sokurov, Il figlio dei fratelli Dardenne (anche in questo caso, altri titoli degli stessi registi, sarebbero stati degni di apparire in classifica), Parla con lei, capolavoro assoluto di Almodovar; Dieci di Abbas Kiarostami (ma dov’era la critica internazionale quando il regista iraniano sfornava i suoi maggiori capolavori, tra cui Sotto gli ulivi?), Uzak di Nuri Bilge Ceylan e Le armonie di Werckmeister di Bela Tarr.
Chiudo questo capitolo inneggiando comunque ai giurati che hanno avuto il coraggio di non inserire alcun film del “magliaro” Tarantino nell’elenco. È un buon segno che depone a favore della critica internazionale.

Ed ora è doveroso un commento ai criteri che, in maggioranza, emergono dalle classifiche decennali, soprattutto quelle successive agli anni Cinquanta.
Ciò che è discutibile non sono tanto le preferenze e i gusti individuali dei critici – anonimi, a quanto se ne può sapere – su cui c’è poco da commentare. È invece in causa una sorta di distacco olimpico e certo presuntuoso dal cinema che non appartiene all’occidente, se non in maniera occasionale, dovuta, almeno fino agli anni Ottanta, alla scarsa comunicazione e informazione su quei mondi lontani. Dunque scusabile, almeno per i primi decenni , ma non a partire dagli anni Settanta, quando in tutta Europa e persino in Italia si organizzarono delle retrospettive storiche sul cinema giapponese, indiano, cinese, latino americano e persino dell’est Europa comunista. Ci ritorneremo, anche perché nel decennio successivo si poteva vedere molto cinema “sommerso” grazie ai videoregistratori e, successivamente, ai DVD.
E, grazie alle grandi retrospettive organizzate dai festival, anche in Italia, si video i film di Mizoguchi, Kurosawa e Ozu, nonché il più giovane e non meno grande Nagisa Oshima. Ma persino il Buňuel messicano fu riscoperto e affiancato ai grandi film europei degli anni Sessanta e Settanta. Eppure, nelle classifiche successive agli Settanta, non viene mai citato il grande regista spagnolo attivo in Europa fino al 1977, quando diresse il suo ultimo film, Quell’oscuro oggetto del desiderio.

''I quattrocento colpi''E soprattutto non è scusabile, se non con il disinteresse e l’ignoranza, l’assenza più o meno generale di tutto che attiene alle cosiddette “vagues” europee, a partire dalla più importante, almeno sul piano comunicativo, quella francese. Stiamo infatti parlando dei film già citati di un Truffaut (I quattrocento colpi)  di un Godard (Fino all’ultimo respiro, manifesto linguistico del nuovo cinema di ogni parte del mondo), e, di sponda, pur senza appartenere al movimenti dei giovani cineasti francese, di un Resnais (Hiroshima mon amour, L’anno scorso a Marienbad) o di un Malle (Ascensore per il patibolo, Zazie nel metro, Fuoco fatuo), Rohmer, Rivette, Chabrol nonché il grande Bresson.
Ma il fenomeno delle “vagues”, cioè delle ondate di cineasti e di film che cercavano di emergere e che immettevano nel cinema internazionale nuovi temi e nuovi linguaggi, si estendeva ben oltre l’occidente. Furono innovativi e contestativi nei confronti dei regimi dittatoriali dell’est Europa,  Wajda, Skolimowski, Polanski (Polonia), Milos Forman (Cecoslovacchia), Jancso, Szabo, Kadar (Ungheria), nonché il vastissimo e importante cinema sovietico, esteso alle repubbliche che ebbero dei centri di produzione autonomi e che, a dispetto del regime dittatoriale, vantò appunto non solo Tarkowski, ma anche Ioseliani, Konchalowski, Mikhalvov, Suskin, Paradjanov.
Di tutte queste novità restano nelle classifiche di Sight and sound solo L’avventura e Otto e mezzo, film certo straordinari ma diretti da registi ancora legati sul piano generazionale all’immediato dopoguerra e non alla “vague” italiana di Bellocchio Bertolucci, Taviani, e soprattutto di Pasolini, altro grande escluso dalle classifiche.
Allo stesso modo la presenza di due capolavori di Bergman, Il posto delle fragole e Persona, nella classifica del 1972, sembra solo un piccolo omaggio, quasi casuale, al più grande creatore di cinema del Novecento.

''2001: odissea nello spazio''Il mondo cinematografico espresso dalle classifiche della rivista inglese appare dunque ristretto e poco esteso geograficamente ed esteticamente. Quasi un elenco fatto da critici pigri e provinciali che hanno avuto paura di confrontarsi con il nuovo.
Ma a questo punto, dopo aver criticato i critici (sic!), mi devo ricordare obbligatoriamente che anch’io sono stato un critico militante, quotidianista, e un saggista che ha scritto molto e, dunque, ha valutato molto.
Precedo dunque tutte le obiezioni, scrivendo che la mia classifica dei dieci film che meritano la qualifica di migliori di ogni tempo, è segnata dalle stesse contraddizioni che ho attribuito alla critica di Sight and Sound.
Ecco una possibile classifica tecnica, cioè puramente professionale: un critico, teoricamente, non dovrebbe farsi condizionare dal “piacere del testo” come scriveva Roland Barthes.
La corazzata Potemkin, Luci della città,  Quarto Potere, Storia dell’ultimo crisantemo (Mizoguchi, 1939, un capolavoro assoluto ed una lezione di cinema). 2001 Odissea nello spazio, Sentieri selvaggi, Lo specchio, Sussurri e Grida, Sotto gli ulivi, Il decalogo.
Ed ecco i titoli che ho lasciato fuori, con molti rimpianti e molte indecisioni: gli uni e le altre appartengono non tanto e non solo all’universo della valutazione tecnica, ma anche a quella affettiva: sono cioè dei grandissimi film che, ogni volta che appaiono in tv o su altri schermi, provocano un’immediata adesione psicologica, al punto da non riuscire a staccarsi dalla visione, pur ricordandoli quasi a memoria.

Ovviamente la lista è certo più lunga rispetto a quelle dei critici di Sight and Sound: Destino (1921) e M, il mostro di Dusseldorf (1931) di Fritz Lang; L’ultima risata (1924) e Faust (1926)  di Murnau; La grande illusione (1936) di Renoir; Les enfants du Paradise (1945) di Carnè; Sfida infernale (1947) di Ford; Viale del tramonto (1954) di Wilder; L’idiota (1953), Rashomon (1950) e Ran (1985) di Kurosawa; Gli amanti crocifissi e (1953) L’intendente Sansho (1954) di Mizoguchi;  Tarda primavera (1949) e Viaggio a Tokio (1954) di Ozu; La finestra sul cortile (1954), Il ladro (1956) di Hitchcock; Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il vangelo secondo Matteo (1964) e Teorema (1966) di Pasolini; Il compromesso (1969) di Kazan; Mani in alto (1968) di Skolimowski; I quattrocento colpi (1959) di Truffaut;  Muriel (1963); Non riconciliati (1965) di Jean Marie Straub; Arancia meccanica (1971), Barry Lindon (1973) di Kubrick; Stavisky (1973), Mon Oncle d’amerique (1980) di Alain Resnais; Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle; Au Hasard Baltazar (1966) di Bresson; Andrej Rublev (1966) e Solaris (1967) di Tarkowski; Il Viburno rosso (1974) di Suksin; Chinatown (1975), Il pianista (2002), L’ufficiale e la spia (2019) di Roman Polanski; Il posto delle fragole (1959), Luci d’inverno (1963), Scene da un matrimonio (1973), Fanny e Alexander (1983), Sarabanda (2003) di Bergman; L’angelo sterminatore (1962), Tristana (1972) e Il fascino discreto della borghesia (1974) di Buňuel; La Grand Bouffe (1974) di Ferreri; Mr Klein (1977) di Losey; Salvatore Giuliano (1960) di Rosi; Toby Dammit (1974) e Il Casanova (1977) di Fellini; Ludwig (1972) di Visconti;  Blow Up (1966) e Professione Reporter (1975) di Antonioni; La cerimonia (1971) di Oshima; Nel nome del padre (1972), L’ora di religione (2002) e Buon giorno notte (2003) di Bellocchio; La recita (1975) di Anghelopulos; Nel corso del tempo (1975) di Wenders; Mamma Kuster se ne va in cielo (1975),  Un anno con 13 lune (1978), Berlin Alexanderplatz (1980) di Fassbinder; Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Forman; Taxi Driver (1977) di Scorsese; La conversazione (1974) di Coppola (1974); Francisca (1981), La valle del peccato (1991); Il ritorno a casa (2004) di Manoel De Oliveira;  The Dead- Gente di Dublino (1987) di John Huston; To the wonder (2012) di Malick; Heimat 1 e 2 (1988-2000) di Edgar Reitz; Un’altra donna (1988), Crimini e misfatti (1989), Harry a pezzi (1997) di Woody Allen; Arca russa (2000) di Sokurov; Rosetta (2000) dei fratelli Dardenne; Il profeta (2010), Un sapore di ruggine e ossa (2012) di Jacques Audiard; Parla con lei di Pedro Almodovar; Il cavaliere pallido (1980), I ponti di Madison county (1995), Flags of our fathers (2005), Gran Torino (2009); La donna che canta (2010) di Denis Villenueve; Ida (2014) di Pawel Pawlikowki.
Bastano o forse sono davvero troppi. In ogni caso se capita di incrociarli in tv o  in streaming, non perdeteli.

25 maggio 2020

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