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"Quarto potere"

Che cosa racconta il film, oltre che mostrare la straordinaria perizia tecnico-formale del giovanissimo Orson Welles? Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

''Quarto potere''Immaginiamo di essere appena usciti da un locale cinematografico dove è stato proiettato Quarto Potere di Orson Welles. Potremmo essere entusiasti o abbattuti, perplessi e direttamente fantozziani (è una c. pazzesca!!!) o anche indifferenti e persino sinceri nell’affermare di non averci capito assolutamente nulla.
Ovviamente, ciò che proponiamo è un viaggio nel tempo: il 1941, anno in cui il film fu presentato per la prima volta negli Stati Uniti, l’Italia era in guerra ma già da alcuni anni non s’importavano pellicole dagli Stati Uniti.

L’unico paese europeo dove fu programmato fu ovviamente l’Inghilterra e proprio nel 1941.
Nel resto dell’Europa arrivò, come si sa, nel 1945 ma in Italia, poiché quasi nessuno, anche tra gli intellettuali filo americani come Vittorini e Pavese, sapeva qualcosa sia di Orson Welles che del suo film – che oltretutto non ebbe alcun successo negli Stati Uniti – il nostro esperimento immaginario può essere “ambientato” anche in una sala cagliaritana degli anni Cinquanta. Dopotutto, nel nostro paese, il film fu proiettato per la prima volta nel 1948 e non ottenne affatto un grande successo di pubblico e tantomeno di critica.

Dunque, appena ritornati alla luce del sole o dell’illuminazione stradale, soli o in compagnia, incontriamo qualcuno con il quale abbiamo rapporti amichevoli e che ci ha visto uscire dalla sala o forse ha intuito che facciamo parte di quel gruppo, numeroso o meno, proveniente dal locale cinematografico.
Non posso precisare quale fosse il locale, anche perché all’epoca non ero ancora nato. È probabile che  fosse il cinema Astra o forse l’Olympia, entrambi in via Roma.
Passo quindi alle ipotetiche ma comunissime domande dell’amico immaginario che nulla sapeva della pellicola di Welles.
«E allora, com’era il film?»

''Quarto potere''Risposta con faccia che si contrae  come se lo spettatore non fosse convinto della bontà di Quarto Potere, ma certo incuriosito o magari frastornato e ipnotizzato dalla regia di Welles senza che queste sensazioni si dovessero obbligatoriamente trasformare in giudizi di valore o sensazioni di piacere.
L’amico però non si arrende. «Ma insomma, di che cosa parla?» La frase giusta dovrebbe essere: «Ma che cosa racconta?» O anche: «Ma che cosa si vede?», ma quest’ultima è troppo specifica e, nello stesso tempo, troppo generica. E soprattutto, poche persone l’avrebbero usata negli anni Cinquanta e, suppongo, anche oggi.

Dunque, proseguendo in questo dialogo immaginario, la risposta più semplice e più logica sarebbe questa: è la storia di un uomo molto ricco, Charles Foster Kane, proprietario di giornali e tentato dalla carriera politica. Ma, sconfitto dalla sua stessa volontà di onnipotenza, passerà il resto della vita in una dimora gigantesca e fiabesca (Xanadù) che dovrebbe assomigliare all’uomo che l’ha creata.
In realtà Kane è sempre più solo e triste e per di più abbandonato dalla seconda moglie, una cantante di non grande talento che avrebbe voluto trasformare, senza mai riuscirci, in una diva dell’opera lirica,
A questa sintetica ma non sbagliata diegesi – il termine era più o meno sconosciuto all’epoca di questo immaginario dialogo – aggiungiamo che, in realtà, non sempre si capisce tutto del film, perché ci sono molti personaggi che parlano di questo Kane, il protagonista, quando era un personaggio molto famoso e le loro dichiarazioni servono ad introdurre dei frammenti della vita del magnate che potrebbero “illuminare” lo spettatore ma anche confonderlo.

''Quarto potere''Fine del colloquio improvvisato, ipoteticamente ambientabile in qualunque città europea, che sintetizza le difficoltà di approcciarsi a questo film, rubricato nella storia del cinema come un “unicum” non raffrontabile con altre pellicole, anche dello stesso regista, e meno che mai “replicabile” in altri contesti tematici come accade per molte opere di genere o anche d’autore, la cui popolarità si basa anche sulla possibilità di ispirare altre pellicole magari strutturate in maniera diversa.
Passano molti anni. Lo scrivente, diventato critico cinematografico viene “assoldato” spesso – mi scuso per il termine che mi definisce un mercenario – come docente di storia del cinema in molti corsi per insegnanti o anche per studenti e, infine, come supplente alle Università di Cagliari e Sassari.

Tra i film che, secondo il mio piano didattico, dovevano essere visti obbligatoriamente dagli studenti e, successivamente, diventare oggetto di una intera lezione, con tanto di spezzoni della pellicola proiettati e discussi, non è mai mancato Quarto Potere.
Che fosse lunga o breve, la lezione aveva inizio con un’analisi sommaria della struttura narrativa del film, ovvero di come è raccontata la vita del protagonista.
Dunque il film  si apre con una scritta, “Vietato l’ingresso” o letteralmente No Trespassing. Il cancello che  espone il minaccioso avvertimento, ben più significativo di un banale divieto di accesso, conduce ad un grande parco ed  uno zoo; sullo sfondo svetta un castello e da una finestra di quell’immenso edificio filtra un po’ di luce.

''Quarto potere''Quel minaccioso cancello, in realtà, viene “violato” dalla macchina da presa in una successione di riprese in movimento e di dissolvenze incrociate.
Alla fine di questa prima elaboratissima sequenza, ecco il castello del protagonista. In una stanza, un vecchio è a letto e contempla una palla di vetro che, scossa, simula una nevicata sopra una casetta di campagna.
La palla cade dalle mani dell’uomo, presumibilmente malato, e si rompe mentre costui, prima di morire, pronuncia una parola misteriosa: Rosabella o, nell’originale, Rosebud, cioè bocciolo di rosa. Accorre l’infermiera che non può far altro che coprirgli il volto.

La seconda tranche della pellicola è un cinegiornale che racconta la vita “spettacolare” di questo importante uomo d’affari, direttore e padrone di giornali, candidato a governatore ma che, successivamente, si ritirò dalla vita pubblica dopo essersi risposato.
Alla fine di questo secondo prologo, il direttore del cinegiornale chiede al suo redattore, Thompson, qualcosa di più sul personaggio e cerca anche un escamotage narrativo: trovare un significato alla parola “Rosabella”.
Sembra una banalità – e in fondo lo è, anche in un capolavoro come questo – ma questa parola diventa il filo conduttore dell’inchiesta giornalistica che dovrà tentare di raccontare il vero e intimo Charles Foster Kane.

''Quarto potere''La lunga e tortuosa ricerca di Thompson, però, non sarà in grado di trovare alcun significato, almeno fino alla fine, alla parola magica (Rosabella) ma, attraverso le testimonianze di chi lo conobbe, ci racconterà comunque la vita del celebre ex magnate della stampa che avrebbe potuto diventare  presidente degli Stati Uniti.
La prima importante testimonianza sulle sue origini non è né una voce né un volto ma il memoriale del suo tutore, un uomo appartenente al mondo degli affari e dell’alta finanza al quale viene affidato il bambino Kane , figlio di una coppia di minatori entrati in possesso di una miniera d’oro, affinché cresca e diventi un vero uomo d’affari utilizzando i capitali dei genitori.
Successivamente il Kane giovane e ricco, interpretato da un Welles già riconoscibile, è  finalmente oggettivato  mentre il seguito del film sarà segnato, fino al finale che abbiamo giù descritto, da un’alternanza di “voci” testimoniali e di altre oggettivazioni sceniche.

A sua volta la vita di Kane raccontata dagli altri è divisa in due tranche: la prima è la sua scalata al mondo della carta stampata. Diventato un potentissimo magnate che orienta l’opinione pubblica americana, userà la sua influenza per intraprendere un carriera politica, poi stroncata da uno scandalo sentimentale.
A questa “debacle”, Kane risponde con un nuova ambizione: trasformare la sua amante, poi seconda moglie, in una cantante d’opera, costruendo per lei un teatro a Chicago, per inciso la città nella quale si formò il giovanissimo Welles.
Anche questa ambizione sarà segnata da un fallimento che porterà il magnate a ritirarsi nel suo castello: “inviolabile”, come ci ha avvertito la scritta iniziale.
Nel finale, dopo la sua morte, si fa pulizia di tutto ciò che è stato conservato inutilmente ed è quindi senza valore: tra i tanti reperti apparentente inutili c’è una slitta che viene bruciata in una grande stufa: uno spettatore attento riesce a leggere, incisa sul legno, prima che scompaia, una scritta: Rosebud, ovvero Rosabella.

''Quarto potere''Su un piano narrativo, dunque, Quarto Potere si presenta come un film testimoniale che esclude, in larga misura, una “oggettivazione” pura e semplice o magari sottomessa alla “voice over” di un narratore exra diegetico.
Le “voci” – e poi i volti o i veri e propri personaggi del racconto filmico –  sono  tante e ognuna di esse rappresentata un “pezzo” di Kane o un punto di vista, sempre soggettivo, che riferisce qualche episodio  della vita del magnate che, però, proprio a causa di questa forma narrativa dispersa in tanti rivoli diversi, non potrà mai essere ricomposta interamente.
Questa tecnica di racconto, nel 1941, è già abbastanza comune in letteratura e, se vogliamo, è lo stesso Welles a suggerirci una derivazione o quantomeno un’influenza piuttosto precisa: Joseph Conrad.
L’anno prima, infatti, il regista aveva tentato di portare sullo schermo il capolavoro dello scrittore anglo-polacco, Cuore di tenebra (1899). Aveva anche scritto una sceneggiatura nella quale interpretava sia il narratore e protagonista Marlow che il misterioso Kurtz, invisibile fino alla fine del racconto e, nel progetto di Welles, anch’egli interpretato dall’attore/regista che dunque si specchiava nel suo doppio: uno dei tanti compagni segreti della narrativa conradiana.

Altri grandi titoli di Conrad – ad esempio Lord Jim, Chance, Vittoria – sono ancora più radicali nel raccontare dei personaggi attraverso una “frantumazione narrativa”, come scrisse nel dopoguerra uno studioso francese, Jean Bourgeois, analizzando Quarto Potere.
Volendo essere ancora più radicali nel tracciare una mappa delle caratteristiche più evidenti del film di Welles, è obbligatorio ricordare che, appena due anni prima, Marcel Carné firmò uno dei suoi capolavori, Alba tragica (1939), scritto non a caso da un letterato, Jacques Prevert.
In questo film il protagonista era infatti un operaio, interpretato da Jean Gabin, che accusato di omicidio e barricatosi nella sua stanza, all’ultimo piano di un palazzo parigino, si difende dagli attacchi della polizia e intanto ripensa a tutti gli accadimenti che lo hanno portato in quella situazione, raccontandoli virtualmente anche agli spettatori.

''Quarto potere''Benché sia giustamente considerato uno dei capolavori del realismo poetico francese, al quale si ispirò Luchino Visconti, è anche un film di genere la cui complessità è ben lontana da quella esibita in Quarto Potere ma, in ogni caso, suggerisce che le idee paraletterarie di Welles non erano così straordinariamente inventive e soprattutto appartenenti unicamente al suo genio di sperimentatore, come sempre si è detto.
Piuttosto, dentro la struttura narrativa plurima di Welles c’è anche, come osserva di nuovo Jean Bourgeois, una forte componente memoriale che lo studioso francese non esita a definire di derivazione proustiana.
E, in effetti, considerando che Welles, pur rispondendo con fastidio alle accuse di essersi ispirato alla Recherche, ammise di aver letto il monumentale romanzo di Proust, si può  pensare che le osservazioni di Bourgeois non siano peregrine.

Per adesso, dunque, basta sintetizzarle brevemente: la slitta e la palla di vetro con la riproduzione della casetta con la neve sono il punto di partenza per la ricostruzione della vita di Kane, così come la lunga reminiscenza di Proust aveva origine da una tazza di te e da un biscotto.
 Altre due specifiche soggettività narrative, cioè racconti, o frammenti direttamente autobiografici, riportano il film alle tecniche letterarie proustiane. La prima,  nascosta dalla pluridimensionalità scenica, è attribuibile allo stesso Kane ed è l’unica in cui il protagonista si racconta, sia pure brevemente.
Avviene subito dopo la conoscenza casuale di Susan Alexander, la donna che  diventerà la sua seconda moglie. In quell’occasione, Kane, ospite della donna, le dice di essere diretto al deposito della stazione dove sono conservati  gli arredi e gli oggetti della casa materna. Aggiunge poi che sta andando a ritrovare “il tempo perduto”, cioè i ricordi della sua infanzia. Come si sa, la visita, interrotta dalla sosta di Kane in casa di Susan – dove compare la palla di vetro, un “ninnolo” poco visibile accanto allo specchio – verrà comunque fatta: l’apparizione della slitta, nel finale, ne è la prova.

''Quarto potere''Il secondo, citato anche da Bourgeois, è ben più articolato. La testimonianza al giornalista Thompson di Susan Alexander – che riguarda il momento in cui la cantante, delusa dall’insuccesso, vorrebbe interrompere la sua carriera e tenta anche il suicidio – è, dal punto di vista narrativo, uno dei tanti tasselli memoriali del film. Ma assomiglia ad un incubo costruito come un implicito “flash forward”: il passaggio dal volto intristito di Susan alle serie di inquadrature che mostrano la carriera e il tragico finale, ricorda davvero certi monologhi interiori del Narratore in Albertine scomparsa o certe prefigurazioni prolettiche di Swann alle prese con le proprie sofferenze amorose.

Infine, in Quarto Potere, c’è un curioso aggancio teorico all’idea di cinema, totalmente negativa, che Proust esplicita in Il Tempo ritrovato: la prima informazione su Charles Foster Kane è infatti una superficiale e banale “sfilata cinematografica” – questo il termine usato dallo scrittore – cioè il documentario sulla sua vita.
Viene non a caso rifiutato dal direttore e produttore del cinegiornale, che invita il giornalista Thompson ad indagare sulla vera personalità dell’uomo.
Il punto di partenza dell’indagine è appunto una “madeleine” – la parola “Rosebud” – che dovrebbe celare  l’interiorità nascosta del personaggio.

''Quarto potere''A questo punto, però, siamo solo a metà, o forse solo ad un terzo delle innovazioni tecnico-linguistiche del film di Welles.
Riprendendo le osservazioni di Bourgeois, ciò che più sorprese spettatori e critici fu la simultaneità delle azioni sceniche riprese  attraverso inquadrature in campo lungo  ottenute con  obbiettivi grandangolari e movimenti di macchina che esplorano lo spazio  nella sua totalità senza ricorrere al montaggio delle inquadrature, base di ogni racconto filmico precedente e successivo visto che dominerà  anche buona parte del dopoguerra, con rare eccezioni e mai comunque così radicali.
Naturalmente, anche le invenzioni che, a partire dal primo decennio del Novecento, soprattutto negli USA, permettono di “leggere” i racconti filmici attraverso un’organicità pianificata in ogni sua componente tecnica, non furono mai “naturali” ma frutto di ricerche e studi analizzati in un bellissimo e utilissimo saggio di Noël Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico.

Grammatica e sintassi di tipo romanzesco più o meno ottocentesco, ancora oggi largamente dominanti, soprattutto nelle serie televisive, nascono allora: dal tipo di inquadratura alle direzioni di entrata e uscita dei personaggi, dal “non guardare mai in macchina” all’alternanza di piani, dalla ripresa che segue il personaggio “senza staccare”, al montaggio in continuità narrativa, dal campo/controcampo alle ellissi temporali.
La regola prevalente prevedeva o obbligava a mostrare solo ciò che era fondamentale nella trama, avvertendo il pubblico, con scritte e simboli, delle variazioni temporali o spaziali. L’esempio più semplice è il calendario che viene sfogliato velocemente da un’entità invisibile fino ad una nuova data  (è passato del tempo) o le ruote del treno che indicano lo spostamento del personaggio fino ad un’altra città, visualizzata subito dopo.
Ovviamente anche allora erano visibili, in film non certo sperimentali, delle eccezioni, spesso dovute a registi formatisi in ambito europeo.

''Quarto potere''Una di queste  è la sequenza iniziale del primo titolo stevensoniano dell’epoca sonora, Dottor Jekyll, diretto nel 1931 (titolo originale Dott. Jekyll and Mr. Hyde) dal russo/armeno Rouben Mamoulian e interpretato da un giovane Fredric March.
Il film si apre infatti con una lunga soggettiva in piano sequenza. Dopo una prima inquadratura sulle mani di un uomo che suona all’organo un brano di Bach, la mdp si sposta sull’immagine di un maggiordomo che mette fretta al suo padrone, ricordandogli il suo impegno all’università.
Si ritorna all’immagine delle mani che concludono il brano musicale  e quindi il personaggio, sempre visibile esclusivamente di spalle, si prepara velocemente a uscire. Poco dopo, senza che sia avvenuto alcun visibile stacco di macchina, l’uomo sosta per qualche secondo di fronte ad un grande specchio. L’immagine riflessa  svela finalmente agli spettatori il volto del protagonista, non ancora identificato come Jekyll ma evocante, attraverso lo specchio, la duplicità del personaggio e le sue teorie sulla vacillante identità, tra bene e male, degli essere umani.

Si potrebbero fare molti altri esempi, soprattutto analizzando le opere dei registi tedeschi arrivati a Hollywood (da Lubitsch a Lang, da Wilder a Sirk) ma il nostro saggio finirebbe per allontanarsi troppo dall’argomento dichiarato: il linguaggio filmico di Quarto Potere.
Dunque, tornando a Welles, la prima sequenza, dopo l’esordio simbolico che ci informa dell’assoluta impossibilità di violare la vita di Kane,  è ancora molto segmentata ma senza alcuna dissolvenza.
In meno di un minuto si possono contare ben cinque inquadrature. Nella prima, c’è un esterno – così appare – con una nevicata. Ma, nella seconda, la neve è appunto racchiusa nella palla di vetro con la capanna. Nella terza ci sono le labbra di una persona che pronunciano la celebre parola “Rosabella” e quindi, nella quarta, una mano lascia andare la palla di vetro che scivola e si rompe saltando su un gradino. La penultima inquadratura mostra il protagonista a letto e, sullo sfondo, deformato dall’obbiettivo grandangolare, si apre una porta e appare un’infermiera. Nell’ultima inquadratura, come si è già scritto, il volto di Kane viene coperto con un lenzuolo.

''Quarto potere''In qualche modo, questa seconda “apertura” del film ci mette sull’avviso: non necessariamente tutte le sequenze o anche tutti i capitoli della vita di Kane sono basati sulla simultaneità delle azioni sceniche ma piuttosto Welles sceglie ogni volta una tecnica o una simbologia che sia facilmente decifrabile come “necessaria” alla comprensione del film. Come si vedrà più avanti, il significante è già un significato.
E dunque, dopo i tre prologhi, ecco che il giornalista incaricato di trovare la verità su questa misteriosa Rosabella, dapprima si rivolge inutilmente alla seconda moglie di Kane, che rifiuta di parlargli, quindi
ottiene il permesso di consultare le memorie del tutore del bambino Kane.
L’entrata nella biblioteca che custodisce tali memorie ha una simbologia, legata anche alla particolare illuminazione quasi espressionista, facilmente decifrabile: una sorta di tomba egizia “aperta” con un permesso speciale per ritrovare la vera identità del magnate/faraone.

In questa tomba/archivio il bianco della scrittura che ricorda l’incontro del tutore con il piccolo Kane si trasforma in una distesa nevosa sopra la quale gioca un bambino che lancia una palla di neve contro la facciata di un emporio che appartiene ai propri genitori. Dopo questo stacco di montaggio si ritorna al bambino ma, con un veloce movimento di macchina all’indietro, nella finestra dell’emporio si affaccia una donna, di lato, che sgrida il bambino, sempre in campo e bene a fuoco. Altro movimento di macchina all’indietro, con la finestra che ci fa sempre vedere i giochi del bambino ma che, soprattutto, “scopre” altri due personaggi: il padre del bambino e il futuro tutore che fa firmare delle carte alla donna, tra le proteste del marito.

''Quarto potere''Nella breve carrellata verso il tavolo – e il bambino è sempre sullo sfondo – la coreografia scenica presenta una precisa triangolazione nella quale la donna è il vertice. Ovvero, è lei che decide la sorte del figlio che, pure, non può scomparire dal campo visivo essendo lui il vero protagonista del film, come si vedrà nel seguito della storia. Dunque, ecco la prima e fondamentale opposizione/accettazione tra il potere della madre e l’obbligatoria sottomissione del bambino – che pure si ribella – che fanno parte entrambi di una sorta di mancata tragedia edipica.
Un terzo piano sequenza segue i tre personaggi che escono dall’emporio e danno la notizia della sua adozione al bambino che, per reazione, cerca di picchiare il suo futuro tutore con la slitta.
Dalla lettura del memoriale si passa, con uno stacco, alla maturità di Kane e al passaggio di consegne del suo tutore al giovane magnate.

Non ci sarebbe bisogno di riaffermare che anche in questo terzo capitolo il significante è già significato, sebbene con una complessità interpretativa che chiama in causa sia Freud che Proust.  
Difatti è facile leggere il futuro e continuo senso di vuoto di Kane attraverso la simbologia della slitta perduta che non può che ricordargli la madre che lo ha abbandonato. E non a caso, anche quel senso di familiarità che Kane trova nella sua amante di umili origini non è che un tentativo di ritrovare la propria famiglia originaria.
Per chiudere questa tranche si può solo mettere una piccola zeppa nell’esaltazione del grande sperimentalismo linguistico che abbiamo descritto fino ad ora.
Quarto potere  venne programmato nelle sale giapponesi solo a metà degli anni Sessanta, ma Akira Kurosawa, già nel  1951 e poi nel 1952, aveva usato le “cosiddette” sperimentazioni wellesiane – che non poteva conoscere – in due tra i suoi film più belli e innovativi: L’idiota, tratto da Dostoevskij e  Vivere.
Nel primo film c’è già la costruzione prospettiva triangolare che, anche quando i personaggi si spostano o si riuniscono, lasciano sempre al vertice la protagonista, Taeko, ovvero, la donna che tutti avrebbero voluto “comprare”, pur vergognandosene data la pessima fama di costei.

Nel secondo film, Vivere, in una lunga sequenza nella quale il protagonista, Watanabe, passa il tempo in un locale notturno c’è un doppio registro scenico, senza stacchi e con una messa a fuoco totale che non crea opposizioni tra primi piani e sfondi. Questa scena unifica la solitudine del personaggio – visualizzato in primo piano – con il teatrino nel quale si agitano, divertendosi, coloro che non devono preoccuparsi di un tumore terminale, come appunto accade a Watanabe, ma che pure fanno parte di una medesima umanità devastata dalla miseria del dopoguerra.
Insomma, a farla breve, e considerando che nei successivi film storico-mitologici di Kurosawa, nonché in quelli di Mizoguchi, la profondità di campo e il piano sequenza sono usati spessissimo, occorrerebbe riscrivere l’intera storia del cinema, confrontando oriente e occidente, ovvero i diversi linguaggi filmici, oggi sempre più mescolati e confusi. Ma questa è un'altra storia che riguarda non solo il rapporto tra significanti e significanti ma anche e soprattutto, come appunto in Quarto Potere e in tutto, o quasi, il cinema di Welles, un’estetica del cinema che sia riconducibile, come accade anche nelle altre arti, ad un autore/artista, come appunto teorizzavano i futuri registi della “nouvelle vague”.

''Quarto potere''Ovviamente, poiché questa non è un’analisi di tutte le “invenzioni” tecnico-formali (e ovviamente estetiche) di Quarto Potere – il film non ha certo bisogno di ulteriori esegesi che si sovrapporrebbero a quelle già pubblicate e piuttosto note – si possono proporre altre tre importanti sequenze dimostrative dei concetti sovrapponibili di significante/significato.
La prima è la vita matrimoniale di Kane, assolutamente mutuata dal linguaggio teatrale ma resa esplosiva da un montaggio di quattro brevi inquadrature che mostrano marito e moglie a tavola, durante la colazione. Nella prima i due, che quasi guardano in macchina, sono allegri e felici per la notte passata nei locali notturni con gli amici. Nella seconda, che mantiene lo stesso tipo di inquadratura frontale, lei si lamenta che il marito passa tutto il suo tempo al giornale. Nella terza la lamentela della moglie riguarda il fatto che i giornali del marito attacchino il presidente, ovvero lo zio. Nella quarta non c’è alcun dialogo: i due fanno colazione come fossero ormai degli estranei.

Ecco, appunto, un primo accenno di una sintesi narrativa estrema che innova il linguaggio filmico ricorrendo paradossalmente alla tradizione teatrale.
La seconda è l’ingresso in politica di Kane, la cui fama e soprattutto la sicurezza s’infrangono clamorosamente a causa di uno scandalo sentimentale divulgato proprio dal suo rivale per il governatorato dello stato di New York.
La sequenza del comizio elettorale, filmata dall’alto, mostra progressivamente Kane mentre tiene un’importante discorso elettorale, accusando il rivale in maniera pesante e minacciandolo di spedirlo in galera. Una carrellata all’indietro, mostra inizialmente la moglie e il figlio di Kane che, su un palco, osservano il comizio. In un'unica inquadratura, Kane, a causa della profondità di campo ottenuta con un obbiettivo grandangolare, viene mostrato in scala ridotta, come se la sua potenza tendesse fatalmente a diminuire. La prolessi viene acuita o meglio ribaltata di senso quando su un altro palco compare il rivale che osserva Kane ridotto di dimensioni. Ovvero l’anticipo della sconfitta del protagonista.

Il terzo esempio riguarda la seconda moglie di Kane, intervistata da Thompson a proposito di Rosabella.
La prima intervista, già citata, non ottiene risposta, la seconda mostra in successione la loro conoscenza, il loro rapporto clandestino e successivamente il rapporto di dipendenza, fino alla cieca obbedienza della donna, costretta a diventare suo malgrado, una cantante lirica che deluderà il suo Pigmalione, fallendo ogni traguardo.
In entrambi le sequenze delle interviste, quella mancata e quella realizzata, la macchina da presa, attraverso un dolly, “si arrampica” fino al tetto di un locale notturno, e, virtualmente, sfonda il lucernario per arrivare al personaggio di Susan.
Facile, anche in questo caso, la sottolineatura, ovvero il significante del dolly  che viola la vita privata della donna.

''Quarto potere''Da questa sequenza in poi, il ricordo della donna, disposta a collaborare con il giornalista, occupa l’ultimo terzo del film e, in qualche modo, alternandosi alle altre testimonianze dei suoi sodali – soprattutto coloro che stavano accanto a lui nella gestione dei giornali – oggettiva definitivamente la vita di Kane, volontariamente recluso nel  castello che la macchina da presa ha violato nella prima lunga sequenza.
Ho forse abusato della coppia significante/significato per rilevare una sorta di voluta prevalenza del primo termine che Welles, forse per sottolineare il proprio genio creativo, utilizza sempre – a parte il cinegiornale – per indicare allo spettatore quanto è stato bravo. Ovviamente, anche senza chiamare in causa la semiologia di Saussure, basterebbe utilizzare i vecchi termini scolastici di forma/contenuto per indicare il virtuosismo di Welles.

D’altronde in tutte le arti visive l’importanza o anche la priorità del significante, è qualcosa di scontato. Provate a raccontare qualche quadro di Caravaggio – ad esempio La vocazione di San Matteo, o anche le due Conversione di San Paolo – senza mettere in evidenza la composizione spaziale delle figure, i tagli di luce, i gesti dei personaggi, le ombre e i dettagli più difficili da osservare ad un primo sguardo.
O ancora, i dipinti di Tintoretto – che purtroppo non è conosciuto e ammirato come Caravaggio, ma, curiosamente, e prescindendo da questo scritto, potrebbe essere definito l’Orson Welles della pittura – hanno una spazialità figurativa che si apre a prospettive centrifughe, come se immaginasse di aver un obbiettivo grandangolare che lascia vuoto il centro, o centripete, per sottolineare una sorta di rincorsa verso il luogo degli eventi. O anche, nel bellissimo La presentazione di Maria al tempio, la prospettiva spaziale in altezza e non in lunghezza sembra coinvolgere lo spettatore in questa ascesa mistica.

E si potrebbe continuare pensando che, da Turner agli impressionisti, a nessuno verrebbe in mente di raccontarne i quadri senza “spiegare” o almeno illustrare le tecniche pittoriche, ovvero i significanti.
E giusto per non andare avanti troppo a lungo, si può chiudere questa parentesi ricordando che un grande filosofo come Michel Foucault ha dedicato uno dei suoi saggi all’analisi strutturale di un quadro, La Meninas di Velasquez, che anche ad un comune spettatore racconta di un soggetto mancato o meglio di un artificio compositivo che ci costringe a vedere il “coro” e non il vero soggetto del dipinto – ovvero i reali di Spagna – nascosto tra specchi e riflessi vari, in una sala dove convergono gli addetti alla corte di Filippo IV.
Ma nelle arti narrative e rappresentative i significanti sono sottoposti piuttosto a costruzioni retoriche che non a impostazioni visive, se non di secondo grado cioè obbedendo alla supremazia descrittiva  e dialogica, come avviene nei grandi romanzi dell’Ottocento, prima ispirazione del cinematografo narrativo che, ancora oggi, rappresenta gran parte dei film prodotti.

''La corazzata Potemkin''Ovviamente, proprio il cinematografo, giunto ad uno stadio di maturazione linguistica più o meno negli anni dieci del Novecento, ha dovuto costituirsi come una forma intermedia tra narrazione e rappresentazione, tra romanzo e teatro.
Le fuoriuscite da questo modello si devono alle avanguardie storiche, e dunque, volendo contestare la prevalenza del significante in Quarto Potere come primo segno di una rivoluzione estetica, si potrebbe citare la celebre e straordinaria sequenza della scalinata di Odessa in La corazzata Potemkin (1925).
La forma filmica è assolutamente opposta a quella di Quarto Potere e certamente, allora, il regista sovietico mai avrebbe potuto pensare, anche per ragioni tecniche, a sequenze simili a quelle che dominano il film di Welles.
In La corazzata Potemkin, invece, la dominante formale è la frammentazione estrema di un unico episodio narrativo che, nella realtà, avrebbe potuto durare non più di qualche minuto. Ma quest’atto  che mostra dapprima una folla plaudente nei confronti della flotta russa che si è ribellata ai soprusi dello zar – siamo nel 1905, con la prima rivoluzione, ancora borghese e democratica – quindi alla repressione da parte di un drappello di soldati che scende le scale e travolge la folla, uccidendo tutti coloro che fuggono.

I frammenti scenici sono montati in un alternanza di episodi accaduti nello stesso momento e dunque moltiplicano il tempo reale durante il quale la vera scena dovrebbe essere accaduta.
Ovviamente la ricostruzione della rivolta non rispetta la cronaca degli avvenimenti ma la reinventa in funzione dell’emozione spettatoriale, che Ejzenstejn definisce “montaggio delle attrazioni”.
La prevalenza del significante, cioè del montaggio di piccoli frammenti “tragico-cronachistici”, è però sottoposta ad un progetto non puramente scenico-compositivo – come ad esempio, avviene in un film sovietico coevo, L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, descrizione di una città frammentata e  ricomposta da una cinepresa guidata dal bisogno di esaltare la modernità della rivoluzione – ma storico-politico: una sorta di racconto rivoluzionario costruito con gli strumenti più avanzati della tecnica filmica.

Con l’estremizzazione della frantumazione scenica il regista di Riga intende appunto mostrare  la ribellione del popolo, di quella vasta maggioranza, comprendente appunto la borghesia, che si opponeva alla tirannia zarista. È dunque il significante era perfettamente in linea con i significati del film o della sequenza in questione.
Diversa è però la tecnica significante di un’altra importante sequenza eisensteiniana: la scalinata del Palazzo d’inverno che compare in Ottobre (1928), altro film celebrativo, però di una rivoluzione riuscita, quella bolscevica.
Quel film è passato alla storia anche e soprattutto per la lunga, geniale e stancante sequenza nella quale si vede primo ministro Kerenskji mentre sale le scale che portano agli appartamenti reali: scale infinite, come se il cammino verso il potere fosse un semplice sogno o anche, alla fine, un incubo.

La “scalata” è però contornata, extra diegeticamente, dai simboli eclatanti dei privilegi della vecchia monarchia, e, alla fine, prima dell’impossibile arrivo,  da un pavone meccanico, probabilmente di Fabergé, che si apre e fa la ruota. Significato probabile e quasi banale: Kerenski si pavoneggia!
È questa la sequenza più compiuta del montaggio intellettuale  che non portò fortuna al regista, accusato di sterile sperimentalismo e di non aver saputo descrivere l’entusiasmo di quei giorni.
Un’altra sequenza, meno nota,  sta all’inizio del film, con la statua, fatta a pezzi, dello zar il cui volto in caduta si sovrappone all’immagine del prete che china la testa, annunciando simbolicamente anche la resa del potere religioso.

Rivista oggi, la magnifica sequenza della scalinata può essere sottratta ai significati politico-allegorici, e riportata alle radici europee dell’avanguardia filmica, ad un Entr’acte (1924) di Clair e Satie, la cui parata degli oggetti resta senza un senso che non sia il “non senso” dadaista o la scrittura automatica dei surrealisti.
Questa esegesi politicamente blasfema – che non ho inventato io – è comunque un vero e proprio complimento al regista di Riga che, con o senza la rivoluzione d’Ottobre, è stato un grande inventore di cinema puro la cui indiscutibile prevalenza del significante è stata successivamente copiata e usata a profusione da altri grandi maestri.
Se però scavalchiamo l’epoca del cinema classico e delle avanguardie – e il film di Welles si muove appunto, e consapevolmente, tra questi due estremi – arriviamo alle “vagues” del dopoguerra cioè alle onde estetiche  rivoluzionarie, prevalentemente francesi ma anche polacche, italiane, cecoslovacche, ungheresi e persino sovietiche.

Un primo titolo e certo il più importante per ciò che cerchiamo di comunicare a proposito dello “straripamento” del significante, è L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, scritto, e di nuovo non a caso, da uno scrittore, Alain Robbe-Grillett, esponente dell’ “école du regard”, che poi diresse anche dei film.
La “scuola dello sguardo” ipotizzava gli sviluppi narrativi  di un romanzo (e successivamente di un film) come guidati esclusivamente dall’atto del vedere o di immaginare fatti ma anche oggetti, persone, senza che questi “atti di sguardo” determinino necessariamente anche una semplice spiegazione di ciò che si è visto, negando dunque la possibilità che il testo letterario o filmico possa essere decifrato razionalmente.
È appunto ciò che accade nel film di Resnais, nel quale le memorie e le visioni dei tre personaggi principali sono sempre sottoposte a smentite e negazioni e gli stessi luoghi, l’albergo e il giardino del celebre centro termale della Repubblica Ceca, riflettono semplicemente punti di vista che modificano, ad ogni spostamento, l’interpretazione, cioè “il contenuto” o la significazione di un oggetto, di una statua, di un  rapporto tra due o più personaggi.

''Inception''Al di là della trama labirintica, in L’anno scorso a Marienbad è necessario dimenticarsi di qualsiasi dipendenza del  significato dal significante: il secondo termine ha assorbito interamente il contenuto del film, o meglio è esso stesso il contenuto, inspiegabile se non ricorrendo ad uno studio psicanalitico degli sguardi, delle parole e dei ricordi dei personaggi i quali, però, anche nel loro inconscio, potrebbero continuare ad inventarsi luoghi e tempi che ci portano lontani da ogni significazione.
Aggiungerei che, oggi, paradossalmente, certi film di Christopher Nolan – due soprattutto, Inception (2010)  e Tenet (2020) – possono essere letti come degli sviluppi fantascientifici dell’indeterminazione di L’anno scorso a Marienbad. Infatti, anche a causa della tecnologia virtuale – per Nolan ormai totalmente pervasiva – la realtà mostrata nelle due opere citate è anch’essa virtuale e totalmente arbitraria, ridotta a puro sguardo sulle cose, sugli uomini, sul mondo.

Un anno prima che Resnais filmasse il suo film più criptico, però, sempre in Francia, ottenne un grande successo Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean Luc Godard, manifesto, assieme a I quattrocento colpi (1960) di Truffaut, della vera e propria “nouvelle vague”.
A raccontarne la trama, il film non è che un omaggio/caricatura di un “noir” hollywoodiano, girato però con un spregio totale delle convenzioni linguistiche classiche: salti di campo, piani sequenza, totale libertà nelle inquadrature, sono il “companatico” di un film che oggi, se non inquadrato storicamente, risulterebbe banalissimo vista la totale libertà formale ed espressiva del cinema contemporaneo.
Altri modi di “imporre” una sorta di prevalenza formale, non provocatoria ma piuttosto funzionale al racconto, è rinvenibile in due grandi autori degli anni Sessanta/Settanta, l’ungherese Miklos Jancso e il greco Thodoros Anghelopulos.

''I quattrocento colpi''Il primo, autore di celebri titoli (almeno all’epoca) come I disperati di Sándor, L'armata a cavallo, Silenzio e grido, Venti lucenti, Scirocco d'inverno, Agnus Dei, Salmo rosso, è giustamente considerato il maestro delle riprese in continuità, ovvero dei piani sequenza, avvolgenti e totalmente “includenti” personaggi e ambienti storicamente definiti.
Il secondo, nel suo film più celebre, La recita (1975), racconta l’odissea di una compagnia di teatranti in mezzo a diverse guerre e dittature: prima quella di Metaxas (1936-1941), poi l’occupazione italiana e tedesca e quindi la guerra civile (1945-1949) tra comunisti e monarchici appoggiati dalle truppe inglesi: un conflitto sanguinoso come una tragedia greca, alla quale, del resto s’ispira anche la trama intima del film.
Anghelopulos, in qualche modo, cancella il concetto tradizionale di spazio e  tempo filmico. Ovvero i protagonisti, cioè i teatranti, escono da una inquadratura nel 1936 e, in continuità di ripresa, si ritrovano in un’altra località, magari qualche anno dopo. E ancora, nel film, molti dialoghi politici tra militanti di destra e di sinistra sono cantati e ballati come fossimo in un’opera di Brecht.

Per entrambi gli autori non si può ovviamente scrivere che il significante “cancelli” o renda inutili o magari banali (come in Godard) i significati ma piuttosto che l’esasperazione delle forme linguistiche innovative o sperimentali, rischia di sovrastare i significati, come appunto accade in Quarto Potere.
Inutile sottolineare che sia Jancso che Anghelopulos sono oggi degli autori dimenticati, persino dalla critica, purtroppo.
Io intanto, periodicamente, passò diverse ore (quattro per la precisione) di fronte a La recita, che è un po’ come rivedere Quarto Potere: un capolavoro
Infine, ai nostri giorni o anni post moderni, il culmine di una significazione quasi inesistente, esaltata però da una forma estetica straordinaria o da più forme sovrapponibili in continuazione, sta nel dittico di Quentin Tarantino, Kill Bill I e II (2003 e 2004) che personalmente ho faticato a guardare fino alla parola fine, tanto era stancante l’inutile esercizio di bravura del regista e dei suoi tecnici.
Ma questo è appunto l’approdo estremo – fortunatamente non generalizzabile – ad un concetto di cinema come arte puramente formale.

Ora, tornando a Welles, potremmo paradossalmente contrapporre alla banalità geniale (scusate l’ossimoro) di Godard  e Tarantino ma soprattutto alle chiavi storiche ejzensteiniane o di Anghelopulos e Jancso, il senso ultimo di Quarto Potere che, nel titolo originale, Citizen Kane – il cittadino Kane – esprime più a fondo il significato del film: la storia di un uomo famoso ma infelice, ricco ma sempre sconfitto nelle sue prove più difficili e più ambite.
Aggiungerei, riprendendo ciò che ho già scritto, che a quest’uomo è mancato qualcosa d’importante, talvolta decisivo per la formazione di qualsiasi essere umano: l’affetto materno o “tout court” familiare. Se per caso cercassimo di attribuire altri significati alla sua vicenda, finiremmo in una palude.

La diceria, credibile al di là di ogni dubbio, sul fatto che il modello di Kane sia stato il miliardario William Randolph Hearst – che pare chiamasse “rosebud” le parti intime della sua chiacchieratissima seconda moglie, l’attrice Marion Davies – e che lo sceneggiatore di Welles, Mankiewicz, premiato con l’oscar nel 1941, fosse tra i primi suggeritori della trama, non cambia la situazione.
Su questa vicenda che potremmo definire neanche profilmica ma direttamente prefilmica, ovvero attinente a tutto ciò che non è stato ancora ordinato in una sceneggiatura e in una scenografia tali da poter iniziare le riprese, c’è ormai una vasta letteratura.
Il vecchio magnate ingaggiò infatti una lotta senza esclusione di colpi contro quel regista più o meno esordiente anche se già famoso a teatro e in radio. Solo grazie alla bancarotta di Hearst, avvenuta alla fine degli anni Trenta, il film di Welles potrà essere messo in produzione.

Oggi si possono vedere sugli schermi televisivi molte pellicole che ruotano attorno alla mitologia del film e a quella del regista. Sulla base di questa infinita documentazione si potrebbe appunto fare una sorta di comparazione tra la banalità delle schermaglie tra il regista e Hearst che rischiarono di far naufragare la produzione e la semplicità della storia di Kane, che non è né un Morgan, né un Rockfeller, né un Ford e neanche un Kennedy padre, o un Roosevelt, fondatori e detentori, nel bene e nel male, del potere americano del Novecento.
In mezzo a questo contrasto – appunto prefilmico – svetta sempre l’altissima creatività di Welles nonché la sua perizia che finì per raccordarsi con uno dei massimi direttori della fotografia della storia del cinema: Gregg Toland, che approdo a Welles dopo aver lavorato con Ford, Wyler, Hawks e altri giganti della Hollywood dell’epoca.

Orson WellesPer inciso, occorre ricordare che la tecnologia cinematografica e illuminotecnica era ancora basata sull’artigianato industriale e non sulle videocamere digitali che stanno in una mano e consentono qualsiasi tipo di artificio.
Ma tornando al film, anche il giovane Welles raccontato da un bel documentario di  Marc Cousins, Lo sguardo di Orson Welles (2018), fu un “quasi orfano”, visto che già all’età di quindici anni, dopo la morte della madre e poi del padre, ebbe un tutore, poi ricalcato nel personaggio di Bernstein in Quarto Potere.
E, oltre che orfano, era già sulla strada di una genialità artistica di tipo sperimentale  che abbracciava teatro, pittura, letteratura e, alla fine, il  cinematografo.
Cousins ha infatti  “scartabellato” con particolare scrupolo tutto l’archivio pittorico e grafico del regista, fin dai tempi in cui fu allievo dell’Art Institut di Chicago (pochi anni ma decisivi per i suoi interessi anche teatrali e filmici) per poi ricostruirne la carriera non solo attraverso le straordinarie invenzioni filmiche ma anche tra le immagini pittoriche e prospettiche che rimandano ai classici dell’arte.

In questa ricerca sono presenti, tra l’altro, preziosissime foto e brevi sequenze di pietre miliari dell’opera giovanile di Welles, come ad esempio la messa in scena del Macbeth Voodoo ad Harlem, con attori di colore, avvenuta nel 1936, all’aperto, con ben diecimila spettatori.
Un’altra perla, tra le tante, è una sequenza relativa ad un Re Lear televisivo del dopoguerra, che diventò la base per l’ennesimo film mai finito.
Ma bastano questi agganci alla biografia e alla formazione dell’attore/regista e factotum per dare un senso parabiografico  alla vicenda di Quarto Potere?
Forse no. Al contrario, il secondo film di Welles – bellissimo nonostante i tagli imposti dalla produzione – scava davvero nella storia familiare, affidandosi ad un bel romanzo, L’orgoglio degli Amberson (1919) di Booth Tarkington, parente degli Welles.

Romanzo e film raccontano un passaggio d’epoca, a cavallo tra Otto e Novecento, che vede la progressiva decadenza della famiglia Amberson, sorta di dinastia WASP di Indianapolis, il cui giovane erede, George, impedisce alla madre, vedova, di risposarsi con il futuro costruttore di automobili, Eugene Morgan.
Welles si ritagliò esclusivamente la voce narrante – indizio di una partecipazione lontana, quasi fiabesca – e, pur facendo uso di scelte tecniche non dissimili da quelle di Quarto Potere (riprese grandangolari, continuità nelle sequenze) non esagerò nei simbolismi e nelle narrazioni retrospettive, affidate solo ai racconti orali dei protagonisti.
Truffaut, giovane critico, scrisse che “… il film fu realizzato in evidente antitesi a Quarto potere, come se fosse l’opera d'un altro regista, che, detestando il primo, volesse dargli una lezione di modestia.”
Un po’ eccessivo, ma valido, in qualche modo, anche per molti titoli successivi. Che non ebbero neanche la straordinaria bellezza figurativa di L’orgoglio degli Amberson ma di cui ci è rimasta una sorta di fama mitologica legata al virtuosismo registico.

''L'infernale Quinlann''Se si esclude Lo straniero (1946), basato su un copione di Huston che paventava l’arrivo di molti ex nazisti negli Usa, film “normalizzato” ma pieno di sequenze straordinarie – come il finale nella torre dell’orologio che sembra anticipare Il terzo uomo (1948) – almeno altri tre film, piuttosto famosi, “scoppiano” di invenzioni visive virtuosistiche che si perdono nel nulla.
I titoli sono La signora di Shangai (1947), Rapporto confidenziale (1955) e L’infernale Quinlan (1958). Quest’ultimo si anima e diventa un vero film di Welles solo quando in campo c’è il regista/attore, inverosimilmente grasso o meglio gonfio per una malattia tiroidea e con un naso finto mostruoso.
Un simbolo del male e contemporaneamente un difensore della legge che non perde tempo a cercare le prove di un eventuale delitto: sa che ha sempre ragione. Come Stalin, suggerì malignamente Italo Calvino in un articolo piuttosto ambiguo ma anche suggestivo.

''Macbeth''Ma alle suggestioni calviniane si potrebbe contrapporre l’eterna passione shakespiriana del regista attore che, nel 1959, aveva già girato e interpretato due  film piuttosto belli, Macbeth (1948) e Otello (1952), ma anche progettato, dopo averli realizzati sul palcoscenico, Re Lear, Il mercante di Venezia, Falstaff che poi vedrà la luce nel 1966 e sarà un ennesimo capolavoro.
Quinlan è, appunto, un perfetto personaggio shakespiriano: un incrocio tra Riccardo III e Macbeth.
È invece curioso ma non enigmatico che un film straordinario come Il terzo uomo di Carol Reed, girato nel 1948, su un copione (poi un romanzo) di Graham Greene, sia segnato dalla sua impronta non solo di grande interprete ma anche di regista “dietro le quinte” che al suo personaggio aggiunge una maschera di “malvagità”, di nuovo shakespiriana, basata su riprese sghembe e distorte come se indicassero non la futura banalità del male della Arendt ma la presenza ossessiva del male, sempre in grado di “distorcere” il mondo, come accade successivamente, nella grande e famoso sequenza della Ruota Panoramica del Prater, a Vienna.

Abbiamo lasciato fuori da questo elenco, volutamente, altri capolavori autentici di Welles, tra i quali l’incompiuto Don Chisciotte pubblicato in Dvd nel 1992, cioè sette anni dopo la sua morte. Ma soprattutto Il processo (1962), poco amato dalla critica e dagli studiosi che lamentarono un tradimento della filosofia kafkiana, in realtà attualizzata e universalizzata in maniera tragica e geniale.

A questo punto una via d’uscita interpretativa di Quarto Potere  sta proprio nell’identificare una sorta di costruzione shakespiriana che si sovrappone alla vicenda “mascherata” di Hearst e alla propria biografia di bambino infelice che vuole vendicarsi diventando geniale e sregolato.
Quella di Kane, in qualche modo, è appunto un’ascesa al potere mancata ed una volontà di potenza che finisce per travolgere tutti, compreso appunto il protagonista. Potrebbe essere un Macbeth persino troppo ambizioso o il Riccardo III, perfido e calcolatore, ma anche tragicamente sconfitto, per poi specchiarsi, dopo essere stato abbandonato dalla moglie, in un Re Lear privo ormai di qualunque maestosità, e che, soprattutto non ha più né l’amore di Cordelia né la saggezza di un buffone – ovvero la sua corte di collaboratori/adulatori – che lo consoli.

''La signora di Shangai''Questa interpretazione è saldamente legata alle considerazioni del compianto Franco La Polla, il primo studioso  ad individuare paradossalmente nel teatro la fonte delle  innovazioni linguistiche di Welles: tra queste la già citata verità-leggenda che vede il regista costringere il direttore della fotografia Greg Toland a scavare delle fosse per poter piazzare la macchina da presa ad altezza pavimento e distorcere così l’immagine, come accade per gli spettatori delle prime file di fronte ad un palcoscenico.

Ma ancora, il teatro originario shakespiriano, spettacolo popolare per eccellenza, era ben diverso dalla scena orizzontale odierna – e dal cinema della prima metà del Novecento – anche sul piano della costruzione tecnica e della struttura del palcoscenico. Questa, di forma circolare, con diversi piani e logge per il pubblico, più una platea, lasciava agli attori un buon terzo dello spazio, diviso in tre settori disposti in lunghezza: “front stage” (frontale: ovvero gli accadimenti che portano avanti la narrazione); “l’inner stage” (i protagonisti secondari che commentano gli accadimenti) e il “back stage”, ovvero il fondo, con i suoi intrighi che verranno alla luce progressivamente.  

Insomma il teatro era una corte il cui palcoscenico si addentrava tra gli spettatori, mentre gli attori potevano agire in ogni spazio possibile (ad esempio usare una balconata per recitare il dialogo tra Romeo e Giulietta), purché visibile.
Questa accumulazione scenica, diventava, per dirla in termini cinematografici, una sorta di montaggio che alternava il frazionamento narrativo con il cosiddetto “piano sequenza”. Ovvero, gli spettatori mettevano insieme i diversi “pezzi” per ri-costruire il racconto, stando attenti a non perdere il “back” o l’“inn”, meno visibili del “front”.

Nelle inquadrature spaziali di Welles, che usava obiettivi grandangolari inferiori ai 20 mm, c’è appunto un frazionamento del mondo rappresentato in “strati” diversi, ognuno con la sua importanza e con i suoi significati individuali e collettivi. Come in Shakespeare, appunto, se il Bardo avesse avuto a disposizione non il Globe Theatre ma la tecnologia cinematografica.

5 ottobre 2020