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Percorso

Mi chiamo Connery, Sean Connery e sono stato un attore famoso ma non prendetemi troppo sul serio.

Sean Connery

 

Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Nel 1962, quando entrò in programmazione Licenza di uccidere (ovvero Il dottor No, questo il titolo originale) avevo appena 11 anni e, come è noto, a quel tempo c’era ancora il divieto ai minori di 16 anni  per diverse categorie di film. Proprio lo stesso anno il divieto ai minori fu diviso in due categorie: i quattordicenni e i diciottenni.

Le cause dei divieti erano principalmente i nudi o le scene di sesso, anche se mai esplicite, e la violenza. Non c’è dubbio che il primo,  e poi anche i successivi film ricavati con molta libertà dai romanzi spionistici di Ian Fleming, traboccavano di sesso e di violenza, ovviamente commisurata al’immaginario collettivo  del tempo, non ancora del tutto liberatosi dall’autocoscienza censoria, confinante per la maggior parte degli spettatori con quella individuale.
In ogni caso, io ero incluso in entrambi i divieti e poiché il primo film “bondiano” che vidi in una sala fu Missione Goldfinger, datato 1964, è certo che il mio incontro con la serie dedicata all’agente 007 con licenza di uccidere, fu tardivo e confinato in una sala di periferia, dunque qualche anno dopo la programmazione di prima visione.

Sean Connery, Mister NoAggiungo che, forse per il ricordo di quella “prima volta”,  Missione Goldfinger è rimasto il mio film bondiano incancellabile, ed anche come critico lo considero il vero capolavoro di tutta la serie, proprio perché è tuttora un contenitore perfetto di ogni innovazione del cinema avventuroso, dal sesso (con tutta l’ambiguità della protagonista lesbica, Pussy Galore, interpretata da una sconosciuta e bellissima Honore Blackman, che però s’innamora di Bond, ovvero di Sean Connery) agli effetti speciali, fino all’ironia con la quale vengono caratterizzati i cattivi. Per tutti, la perfezione del coreano, guardia del corpo di Goldfinger, nel decapitare i nemici con un capello a cilindro fornito di una lama da ghigliottina. Si ride e ci si entusiasma per la trovata che solo un James Bond può sventare.
Giusto per continuare ad inquadrare nel clima dell’epoca  la commemorazione di Sean Connery, primo e indimenticabile eroe bondiano, devo aggiungere che mia sorella, che aveva  vent’anni, si entusiasmò già per il primo film, sicuramente sedotta dallo sguardo “assassino”, in senso reale ma anche romantico, di Connery, soprattutto quando s’incanta per l’apparizione botticelliana di Ursula Andress (una Venere un po’ abbondante di misure) tra le onde marine.

Aggiungo che Silvana, mia sorella appunto, nel decennio successivo, i Settanta, divenne una delle leader cagliaritane del movimento femminista e fondatrice della celebre Libreria delle donne di via Iglesias.
Questo appunto serve a identificare anche nelle passioni bondiane e conneriane un tratto distintivo che non era ancora politico ma piuttosto di gusto: una ribellione verso i padri e le madri basato semplicemente sul fatto che ai giovani di quel decennio, anche prima della contestazione vera e propria o del femminismo, piacevano film o musiche totalmente differenti rispetto a quelle amate dalle generazioni precedenti.
E qui si può ritornare all’apparizione di Sean Connery, scozzese (come il romanziere Ian Fleming,  spia attiva e piuttosto abile durante la seconda guerra mondiale) di ascendenze  irlandesi, che venne scelto proprio per il suo quasi anonimato come attore/divo.

All’epoca aveva infatti interpretato 12 film  ma l’unico celebre, nel quale aveva un ruolo quasi di comparsa, era stato Il giorno più lungo (1961) che raccontava lo sbarco in Normandia delle truppe alleate nel giugno 1944, premessa alla sconfitta della Germania e alla fine della seconda guerra mondiale.
Gli altri titoli era anch’essi film di genere ma senza ambizioni storiche: polizieschi, gialli e già pellicole di spionaggio abbastanza tradizionali.
Va anche aggiunto che, nonostante i primi successi bondiani, i film di spionaggio più tradizionali e storicamente attendibili non scompariranno affatto ma avranno semmai una sorta di attenzione critica e intellettuale (pensiamo alle pellicole tratte dai romanzi di John Le Carrè e di Len Deighton, anch’essi britannici) che mancò sempre alla serie bondiana, salvo tardivi pentimenti o esaltazioni esagerate, come avvenne appunto con un celebre saggio di Umberto Eco sui romanzi di Ian Fleming.
D’altro canto, quei film “nobilitati” da scrittori più celebri di Fleming, da La spia che venne dal freddo a Ipcress, portati sullo schermo negli stessi anni, vantavano interpreti come Richard Burton e Michael Caine, la cui carriera sarà sempre esaltata non solo dalla partecipazione al grande cinema di genere ma anche al teatro, classico e contemporaneo.

Sean ConneryChiudendo finalmente con i raffronti, per spiegare il Bond modernissimo, ironico, sensuale, violento e amorevole di Sean Connery, basterà ricordare che, nella prima metà degli anni Cinquanta, quando Fleming cercava un produttore hollywoodiano disposto ad imbarcarsi nella realizzazione del primo titolo della serie, Casino Royal, l’attore al quale pensava era Cary Grant anch’egli inglese. Grant era grandissimo interprete di commedie e gialli “noir”. Fu molto apprezzato da Hitchcock per la sua doppia identità interpretativa ma certamente, a pensarlo nei panni di 007 non si può che sorridere. E d’altronde Grant, che pure ebbe una lunga vita, girò il suo ultimo film nel 1966. Insomma, quando si concretizzò il progetto di portare sullo schermo il personaggio di James Bond era da tempo un attore finito.

Non è un’ipotesi campata in aria ipotizzare che Connery pensasse da subito ad abbandonare il ruolo di 007, approfittando del successo straordinario del suo secondo film bondiano, Dalla Russia con amore (1963), che molti cultori considerano il migliore della serie.
Difatti, proprio dopo aver girato quella pellicola – che registrò anche l’effimero successo dell’italiana Daniela Bianchi, seconda bond girl, capace di offuscare la fama della Andress – interpretò due film “normali” e di successo. Il primo fu La donna di paglia (1964) di Basil Dearden, nel quale recita a fianco di Gina Lollobrigida, il secondo nientemeno che un film di Hitchcock, Marnie (1964), che non esiterei a definire mediocre, soprattutto per un finale eccessivamente melodrammatico.
In ogni caso, quelle prime pellicole post bondiane non solo sono due “noir”, ma Connery, soprattutto in Marnie mette a frutto l’idea del superuomo “traslata” in senso psicologico: risolvere cioè i problemi psichiatrici della donna che ha sposato.

Il ritorno a Bond avviene nello stesso anno con il già citato Goldfinger, a cui fa seguito una delle opere più belle e originali interpretate da Sean Connery, La collina del disonore (1965), diretto da Sidney Lumet, che con l’attore scozzese girerà poi altri cinque film, di cui tre piuttosto famosi:  Rapina record a New York (1971), Riflessi in uno specchio scuro (1973) e il celebre Assassino sull’Orient Express (1974), tratto da Agata Christie, che tuttora eguaglia in popolarità e successo i film bondiani dell’attore.
Ma tornando a La collina del disonore, vale la pena di segnalare che Connery è indicato, nei titoli di testa come “starring”, ovvero interprete principale, pur in mezzo ad attori già celebri come Harry Andrews e Michael Redgrave.
Oltretutto, il film è abbastanza insolito, se non raro, visto che racconta le vere e proprie torture fisiche e psicologiche alle quali sottostanno, durante la campagna d’Africa della seconda guerra mondiale, i militari inglesi  di un campo di rieducazione. In questo scenario, Connery è un soldato semplice che si ribella alle angherie del comandante dopo l’ennesimo massacro dei suoi compagni durante un assalto alle linee nemiche. Dunque, un ruolo lontano anni luce dal personaggio di Bond.

Sean Connery, 007 ThunderballLo stesso anno, l’attore riprenderà i panni di 007 in Thunderball-Operazione tuono, da annoverare tra i migliori esiti della serie e quindi, in Una splendida canaglia (1966) di Irwin Keshner, farà la parte di un matto simpatico che porta scompiglio in ogni situazione, compresa la clinica psichiatrica nella quale è stato infine ricoverato.
L’alternanza tra film bondiani (Si vive solo due volte e Una cascata di diamanti, girati tra il 1967 e il 1971) e pellicole di genere e talvolta d’autore sembra ormai stabilizzata e  si conclude appunto con il film del 1971, anche se nel 1983, per ragioni contrattuali, un Connery ormai “fuori parte”, dovrà rifare Operazione tuono al fianco di una Kim Basinger che racconterà il suo disagio nelle scene d’amore con l’ormai ultracinquantenne agente segreto.
Nella lista dei film non bondiani si trovano anche delle sorprese, come la partecipazione amichevole, quasi testimoniale, in un film poco visto di Vittorio De Sica, Il mondo nuovo (1966), girato in Francia e mai doppiato per la distruzione italiana (Connery è appunto se stesso che omaggia il regista di Ladri di biciclette), ma, dovendo scegliere tra i tanti titoli di questa definitiva “immissione” dell’attore scozzese nell’ambito dei interpreti internazionali – ovvero più o meno hollywoodiani – ecco una breve sintesi di film da rivedere.

Il primo è Shalako di Edward Dmytryk (1968), ovvero un western, prodotto da tedeschi e inglesi, ambientato e girato nel sud ovest degli Stati Uniti, costruito su un’avventurosa gita di europei nel territorio apache. Connery/Shalako, ufficiale mezzo indiano, salva la baracca.
Il secondo è La tenda rossa di Mikheil Kalatozishvili (1969), ovvero la fallita spedizione di Nobile in Antartide del 1928. L’esploratore italiano, soccorso da un rompighiaccio sovietico, è interpretato dal grande Peter Finch, vero dominatore del film. Connery però si ritaglia un ruolo anche più difficile: quello dell’esploratore Roald Admunsen che, al processo intentato contro l’italiano, lo difende appassionatamente.
Insomma un caratterista di lusso per un film pieno di grandi attori e costruito proprio sulle testimonianze di ciò che è successo tra i ghiacci del nord.

Terzo e certo tra i film indimenticabili interpretati dall’attore scozzese è I cospiratori (1970) di Martin Ritt. Connery, capo dell’organizzazione operaia irlandese “The Molly Maguires”, divide il ruolo da protagonista con Richard Harris, agente della Pinkerton infiltrato nella società segreta allo scopo di smantellarla e portare al capestro i suoi capi. Siamo nell’Ottocento americano più selvaggio e il film è tra le poche opere che racconta davvero e senza censure “la nascita di una nazione” che presto dominerà il mondo economico. Personalmente lo considero quasi un capolavoro.
E ancora, abbandonando la numerazione,  Rapina record a New York di Sidney Lumet (1971). Secondo titolo del regista americano con Connery è un giallo/noir intricato e appassionante, con il nostro attore che, appena uscito di galera, organizza lo svuotamento di tutti gli appartamenti di lusso situati nei pressi dell’abitazione della sua ragazza. Non eccezionale – neanche per la performance di routine di Connery – soprattutto se messo a fianco al successivo film di Lumet, girato dopo un nuovo e teoricamente ultimo Bond, Una cascata di diamanti (1971).

Sean Connery, ZardozIl titolo è Riflessi in uno specchio scuro (1972) e racconta il progressivo impazzimento di un poliziotto ossessionato da ciò che vede nel suo lavoro e cioè omicidi, stupri, violenze ai bambini e ogni genere di truci performance delittuose. Film d’attore, sempre più dentro i suoi nuovi personaggi non stereotipati, ad esempio il Zed di Zardoz – film di fantascienza diretto da John Boorman nel 1974 – ribelle di una società distopica dominata da una sorta di Grande Fratello o di un apparato tecnologico che ricorda Il mondo nuovo di Huxley.
Ancora un film di genere è Ransom (1974) di Nils Tahivik, nel quale il poliziotto scandinavo interpretato da Connery deve gestire il rapimento di un diplomatico svedese. E infine, il già citato Assassinio sull'Orient Express (1974). Connery è un ufficiale inglese che ritorna dall’India e si unisce al complotto per uccidere un mafioso, responsabile del rapimento e dell’omicidio del figlio dei coniugi Lindbergh.
Si potrebbe sottolineare che, pur nella dimensione internazionale della mitologia bondiana, i film dell’agente 007 abbiano avuto la medesima funzione degli western di Sergio Leone per Clint Eastwood: un apprendistato seriale e ripetitivo che ha costituito una vera scuola di cinema, ovviamente totale per quest’ultimo, anch’egli novantenne e ancora attivo come attore e regista.
Connery, che non fu mai tentato dal passaggio alla regia, divenne comunque un attore di rango capace di “segnare” indelebilmente le maggior parte delle opere che interpretava, a partire dal bellissimo film di John Milius – poi sceneggiatore di Coppola per Apocalipse NowIl vento e il Leone (1975).

Sean Connery, Il vento e il leoneSiamo ai primi del Novecento e Connery è un condottiero berbero, al Azuli, un personaggio storico, che, per opporsi alla tirannia del re del Marocco, corrotto e succube dei governi europei, in particolare la Francia e la Germania, rapisce una vedova americana, la signora Pedecaris e i suoi due figli, appena adolescenti, per ricattare il monarca.
La sua sfida all’occidente provoca un putiferio: il presidente Roosevelt (Theodore) manda i marines che spodestano il re; i tedeschi tendono un agguato al berbero per cercare di rimediare al disastro che potrebbe portare l’America ad inserirsi nelle diatribe coloniali europee. Intanto il magnifico berbero e la bella Candice Bergen sembrano simpatizzare, anche perché l’uomo è un grande educatore dei suoi figli che lo considerano quasi un nuovo padre. E il finale, con la carica suicida di Al Azuli, tradito da tutti tranne che da suoi ostaggi/ospiti sacri, ricorda il grande cinema classico.

L’anno successivo John Huston – che conobbe Connery proprio sul set di Il vento e il leone – lo volle come protagonista di una trasposizione del racconto di Kipling, L’uomo che volle farsi re,  un vero e straordinario film d’avventura, narrativamente e drammaturgicamente diverso dalla classicità di Il vento e il leone.
Al suo fianco, un altro mostro sacro del cinema britannico, Michael Caine, di tre anni più giovane e già con un’imponente filmografia alle spalle, che poteva vantare persino una sorta di sottile concorrenza con Connery, dato che i suoi primi successi (Ipcress, Funerale a Berlino e poi Un cervello da un miliardo di dollari), apparsi a metà degli anni Sessanta e già citati nelle prime righe di questo scritto, furono considerati il contraltare colto e storicamente attendibile della guerra di spie.

Sean Connery, L'uomo che volle farsi reHuston si portò appresso il progetto fin dagli anni Quaranta, pensando ad attori come Bogart e Gable, quindi Douglas e Lancaster ed infine Newman e Redford. Questa sottolineatura, ricavata da Wikipedia, serve in realtà proprio a segnalare l’emersione di nuovi attori per film avventurosi e spettacolari – e con una decisa sottolineatura ironica – in un periodo in cui il genere sembrava ormai al tramonto.
Il viaggio di Connery e Caine – avventurieri inglesi nell’India coloniale di fine Ottocento – si basa inizialmente su un furto ai danni dello stesso Kipling (interpretato da un altro grande attore, Christopher Plummer) e poi su una scommessa: i due  ritengono di poter raggiungere i territori afgani, alle pendici dell’Himalaya, ultima tappa dell’avventura imperiale di Alessandro Magno, per creare un loro regno.
L’avventura, anche grazie alla regia di Huston, si muove tra l’ironico e il picaresco e i due grandi attori fanno a gara nel mostrare le loro doti di interpreti sottili ma anche drammatici nel caotico finale, quando la loro mascherata – Connery viene inizialmente identificato come l’atteso erede di Alessandro – si tramuta in tragedia.

Terza perla del periodo è un altro titolo in qualche modo picaresco e sottilmente ironico – d’altro canto il regista è Richard Lester, che, dieci anni prima aveva inaugurato la carriera filmica dei Beatles – che capovolge l’epica cavalleresca di Robin Hood e di Riccardo Cuor di Leone. Si tratta di Robin e Marian (1976) che mostra i due leggendari eroi, letterari e filmici, che tornano malconci dalla Terrasanta.
Robin dovrà vedersela di nuovo con lo sceriffo di Nottigham, visto che nel frattempo Riccardo è morto in guerra, e Marian, stanca di aspettare l’amato, si è fatta suora.
Film antispettacolare per scelta estetica del regista, diventò ed è tuttora un’opera quasi per “iniziati”, cioè per spettatori che hanno accettato la fine delle grandi pellicole avventurose (e costose) basate sulla storia o la fantastoria.

Poco visto è Il prossimo uomo, film di (fanta)politica di Richard Sarafian (1976) che vede Connery nei panni di un alto funzionaria dell’Arabia Saudita che cerca di stabilire una stabile e definitiva coesistenza pacifica nel Medio Oriente che includa anche lo stato di Israele. Per i miei ricordi – da revisionare – è un film che andrebbe recuperato.
Decisamente mediocre, nonostante l’ironia che lo pervade interamente,  è 1855 - La prima grande rapina al treno di Michael Crichton (1979), mentre il vero e proprio film di fantascienza Meteor di Ronald Neame (1979), è in sintonia con l’acme di una nuova guerra fredda che si è spostata nello spazio profondo, pur minacciando la terra.
Di routine Quell’ultimo ponte (1979), rievocazione di una “missione impossibile”, durante la seconda guerra mondiale, che aprirebbe l’accesso, se riuscita, all’invasione della Germania. Connery è quasi nascosto in mezzo ad uno stuolo di divi che prestano più che altro le loro figure riconoscibili.
Da rivedere Cuba di Richard Lester (1979) con Connery, ufficiale britannico che cerca inutilmente di aiutare con le sue consulenze militari il regime di Battista, ormai circondato dai castristi.

Ma, a questo punto, per non proseguire con una semplice elencazione di titoli che si collocano stabilmente nel cinema di genere, è più utile segnalare, per un attore che ha ormai superato i cinquant’anni – questo fu uno dei problemi che apparvero senza troppi mascheramenti nel “remake” di Operazione tuono, ovvero Mai dire mai – conviene mettere in evidenza le “perle” della parte finale, per fortuna piuttosto lunga, della sua carriera.
Il primo di questi titoli non può che essere Cinque giorni un’estate (1982), ultimo film del grande Fred Zinnemann (1982), che torna nella sua Europa, e precisamente nelle Alpi svizzere, per girare un melodramma quasi spirituale. Connery, medico cinquantenne scappa con la giovanissima nipote per un ultima emozione romantica e esistenziale ma la loro vacanza viene sovrastata da una sorta di viaggio nel tempo, quando una slavina libera un distesa di giaccio dove è sepolto e visibile un giovane che morì poco dopo le nozze e le cui fattezze sono riconosciute dagli ormai vecchi compaesani e dalla stessa  moglie.
Un presagio di morte che finisce per sovrastare la breve vacanza dei due amanti impossibili.
Poco visto e trattato con sufficienza da una critica che aveva cancellato il melodramma tragico dai propri gusti, è un film che, fortunatamente, è stato recentemente omaggiato dall’inglese Andrew High in Quarantacinque anni (2017).

Sean Connery, Il nome della rosaL’altro titolo indispensabile è ovviamente Il nome della rosa (1986) di Jean-Jacques Annaud, sul quale ci si può soffermare – data la fama, derivante anche dal romanzo omonimo di Umberto Eco – solo per mettere a confronto il carisma del monaco/investigatore Guglielmo di Baskerville interpretato da Connery con la quasi caricatura del medesimo personaggio, visto in tv lo scorso anno e interpretato da un John Turturro purtroppo non all’altezza del ruolo.
E saltando la magistrale caratterizzazione del poliziotto irlandese in Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma, forse il segno più forte dell’ “attorialità” di rango in un film pur carico di divi come De Niro e Kostner, arriviamo a Indiana Jones e l'ultima crociata (1989) di Spielberg, ovvero al padre di Indiana Jones, alla prese con i nazisti che vogliono impossessarsi del Santo Gral.
Confesso di essere tentato dall’unificare i due personaggi agli estremi (ovvero Jones senior e Guglielmo di Baskerville) sotto un altro segno, quello brechtiano, innestato paradossalmente nel cinema di intrattenimento di spettacolo esplosivo e ricco di colpi di scena rinato alla fine degli anni Settanta a Hollywood, proprio sotto l’egida di Lucas e Spielberg.

Sean Connery, Indiana Jones e l'ultima crociataIn entrambi i personaggi, infatti, c’è una sorta di distacco critico, quasi ironico – ovviamente in Il nome della rosa, l’ironia precipita alla fine nella tragedia dell’impotenza a contrastare il male – nei confronti delle avventure che stanno affrontando. E questo distacco è il medesimo che, riscendendo lungo la filmografia dell’attore, attraversa i personaggi di Kipling, il brigante gentiluomo che rapisce la signora americana e si sacrifica per lei, e persino l’ufficiale sovietico di un altro bel film, Caccia a Ottobre rosso (1990) di Mc Tierman.
Questo distacco inizia paradossalmente, però, con il l suo primo travestimento: James Bond, cioè il massimo dell’incarnazione ironica e picaresca che di nuovo  può essere riportare allo straniamento brechtiano.
Anche quei film  ci chiedono non di credere alle avventure di 007 ma di divertirci proprio a causa delle esagerazioni, dei colpi di scena, delle belle donne sedotte, dei nemici sconfitti che appaiono in continuazione come in un fumetto.

Sean Connery, Gli intoccabiliEvidentemente, questa derivazione – certamente non cosciente, soprattutto negli sceneggiatori e nei registi dei film – è facilmente contestabile dai puristi del’estetica teatrale e letteraria. Eppure, proprio negli anni Settanta, in Italia, quando esplose il fenomeno del western nostrano, molti registi/intellettuali non esitarono a nobilitare il fenomeno – che, a parte qualche eccezione, tra cui ovviamente i film di Sergio Leone, non produsse quasi mai film”decenti” – facendo ricorso proprio allo straniamento brechtiano, al distacco critico degli attori dai personaggi, anche se spesso gli uni e gli altri erano solo delle caricature del brechtismo.
Tornando finalmente a Connery, il suo capolavoro interpretativo – quasi una regia che si sovrappone a quella già alta dell’inglese Fred Schepisi – è dunque La casa Russia (1990), ispirato e senza troppe sovrapposizioni, all’ultimo grande romanzo di spionaggio di John Le Carrè e sceneggiato da Tom Stoppard.
Agente editoriale, esperto in letteratura russa contemporanea e jazzista per hobby – ma i due mestieri si possono sovrapporre o invertire – Barney è un alcolista disincantato e gran parlatore.
Conosce per caso uno scienziato di grande fama ma non eccessivamente fedele alla causa comunista – del resto in fase di degrado o di sfaldamento, visto che romanzo e film sono ambientati negli anni di Gorbaciov – che vuol far avere alle potenze occidentali molti segreti militari per “schiantare” definitivamente l’Unione Sovietica.

Sean Connery, Caccia a ottobre rossoBarney si presta al gioco ma giusto per amore di una donna e della sua famiglia. E dunque il nostro agente per caso partecipa al gioco delle spie ma per motivi non certo patriottici.
Ecco di nuovo e, in maniera straordinaria, la duplicità di Connery: essere attore e personaggio reale, capace di scherzare con il suo ruolo di agente e di innamorarsi sul serio. Un Bond arrivato al capolinea e deciso a chiudere la sua esistenza nel suo “buen ritiro” di Lisbona, assieme alla sua nuova famiglia.
Anche senza citare le sue ultime interpretazioni (possiamo comunque segnalare Sol Levante di Kauffman, del 1993 e Scoprendo Forrester di Gus Van Santa, del 1997), il senso dell’intera filmografia di Connery è appunto l’essere divo e personaggio mitologico che, sottilmente o apertamente, avverte il suo pubblico che si tratta comunque di finzione e che occorre un distacco critico e soprattutto ironico: quello che appunto trionfa nelle sue interpretazioni di James Bond e continua a fare capolino fino alla fine.

18 novembre 2020



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