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John Le Carré, la spia che divenne scrittore

John Le Carré

Ispirò un filone cinematografico di successo che si contrappose  al mito di 007, ovvero alla demitizzazione farsesca della guerra fredda. Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Dopo aver commemorato Sean Connery, il grande attore che dimostrò di non essere solo un  affascinante e divertente maschera, l’agente 007 inventato da Ian Fleming – peraltro un vera spia che depistò i tedeschi nel “grande gioco” dell’arrivo delle truppe anglo-americane nel Mediterraneo –  è quasi obbligatorio contrapporre a questa mitologia un’altra spia che divenne scrittore: John Le Carrè.

David John Moore Cornwell, questo il suo vero nome, è scomparso all’età di 89 anni, dopo aver scritto i più bei romanzi e racconti spionistici sulla guerra fredda di tutta la letteratura del secondo dopoguerra. Come agente del controspionaggio britannico, nel secondo dopoguerra era stato “bruciato” dal tradimento dei  “cinque di Cambridge” (Donald Mac Lean, Guy Burgess, Anthony Blunt, John Cairncross, Kim Philby), celebri intellettuali di sinistra negli anni Trenta e Quaranta, poi “doppiogiochisti” attivi fino agli anni Sessanta, quando il loro capo Kim Philby si trasferì in Unione Sovietica per addestrare le spie comuniste da inviare in occidente. 

Il futuro scrittore fu dunque vittima di un ripulisti generale che non faceva distinzioni tra vittime e colpevoli: chi aveva avuto rapporti con i “cinque traditori” era di fatto un sospettato. Ovviamente, Cornwell/Le Carrè fu sempre reticente e persino ambiguo nel raccontare i suoi trascorsi di agente del servizio segreto. Se lo avesse fatto sarebbe stato letteralmente nel mirino di qualche killer inviato dai suoi ex soci, britannici o statunitensi. Così s’inventò un’altra professione e ben più remunerata e apprezzata, anche dal punto di vista storico. O almeno questo è possibile affermarlo oggi, dopo che i suoi romanzi e i film ispirati ad essi hanno raccontato “Il grande gioco”, come veniva chiamato nel gergo delle spie, ovvero una guerra segreta tra est e ovest che la stampa rivelava solo con pochi frammenti informativi che mai lasciavano trasparire quali fossero i problemi reali e i rischi di una nuova guerra.

''Il ponte delle spie''In qualche modo, Le Carré ereditò il ruolo di un altro celebre scrittore di “spy stories” (e non solo), Graham Greene, anch’egli ex agente del controspionaggio che nel film Il terzo uomo (1948), scritto per Carol Reed e Orson Welles, poi diventato un romanzo di grande successo, tratteggia un primo esempio di guerra fredda “ante litteram” nella Vienna del 1945, primo confine tra est e ovest che durò solo qualche anno, visto che all’Austria fu concessa di nuovo l’indipendenza, dopo che si dichiarò neutrale e finì per essere, una sorta di seconda Svizzera, adatta ad ospitare incontri e intese tra paesi nemici o rivali. Berlino, al centro della Germania comunista, divenne il nuovo confine “caldo” tra est e ovest e, da allora in poi, cioè dal 1961, quando fu eretto il muro che divideva in due la città, simbolizzò, proprio attraverso quel muro, le disavventure di chi tentava di passare in occidente o gli scambi di spie o di prigionieri al Check Point Charlie, reso famoso da tanti film, tra i quali il recentissimo e piuttosto bello Il ponte delle spie(2017) firmato da Steven Spielberg.

''Un delitto di classe''

L’esordio romanzesco di  John Le Carrè  avvenne appunto nel 1961 con un “giallo” non spionistico, Un delitto di classe, tradotto anche in italiano e trasposto in un film per la BBC che, secondo chi scrive, non è mai stato trasmesso in Italia. Si deve comunque citare perché in quel romanzo appare per la prima volta il personaggio di George Smiley, vera e propria architrave dell’immaginario letterario di Le Carré: un  burocrate di mezz’età,  apparentemente anonimo, il cui unico neo è rappresentato da una repressa infelicità sentimentale.  Nel secondo romanzo, La spia che venne dal freddo (1963), Smiley, pur non essendo ancora il personaggio principale, viene però tratteggiato come uomo dei servi segreti. 

''La spia che venne dal freddo''

Già caratterizzato dalle trame complesse tipiche del Le Carrè maturo, il testo letterario, nel 1965, trovò nel regista americano Martin Ritt un interprete fedele del “clima” apparentemente burocratico e minimalista del mondo dei servizi segreti ma anche di una Londra segnata da un difficile dopoguerra. Il titolo, non a caso, si riferisce al camuffamento del protagonista che, nella pellicola di Ritt, è un grande Richard Burton. Questi, dopo l’ennesimo fallimento dello smascheramento di una “talpa” che lavora per la Germania comunista, “sta al freddo”, cioè apparentemente fuori squadra e pronto ad essere adescato dalla militante comunista Claire Bloom che lo fa arrivare nella DDR. 

Ma qui la presunta “spia” occidentale riuscirà, in una sorta di processo kafkiano – piuttosto ben costruito, quasi come un teatro dell’assurdo che mescola Kafka e Beckett – a far eliminare il vero agente comunista infiltrato in occidente dai suoi stessi compagni. L’azione riuscita ha però un prezzo: colei che aveva architettato il viaggio oltre il muro verrà abbandonata al suo destino e morirà cercando di scappare da Berlino est. Sarà la prima vittima sacrificale delle tante presenti nei film tratti dallo scrittore inglese.

''Chiamata per il morto''

Due anni dopo, Smiley/Le Carrè apparirà come vero e proprio protagonista  nel romanzo Chiamata per il morto (1966), e l’anno dopo, nel grande film di Sidney Lumet (ma nella pellicola Smiley cambierà nome), la cui vicenda si divaricherà in quattro percorsi narrativi strettamente collegati: l’indagine  nata dal suicidio di un funzionario che ha scoperto l’attività spionistica della moglie; il ritratto straordinario di quella stessa donna (Simon Signoret), un’ebrea scampata ai campi di sterminio; il tradimento di un amico tedesco, suo compagno di spionaggio durante la guerra ed oggi agente comunista. Infine, di nuovo, la solitudine del protagonista interpretato da James Masonla cui moglie è appunto l’amante del suo ex amico diventato un nemico.

''Chiamata per il morto''

Si potrebbe dire che in questo romanzo ma soprattutto nel film c’è interamente la chiave dello scetticismo di Le Carrè, ex spia tradita dai suoi compagni. Per ritrovarla, occorrerà aspettare gli anni Settanta, quando nell’arco di dieci anni, verrà pubblicata la trilogia di Smiley: La talpa, L’onorevole scolaro, Tutti gli uomini di Smiley. Il tema è appunto l’infiltrazione di agenti “doppiogiochisti” nei servizi segreti britannici.

Smiley è incaricato di fare pulizia, eliminando appunto “la talpa”, anche a costo di scoprire, come accadeva appunto in Chiamata per il morto, l’infedeltà cronica della moglie che ha facilitato il lavoro della spia. Il primo romanzo, appunto La Talpa, in cui si scoprono le infiltrazioni spionistiche, è stato portato sul grande schermo nel 2006 dallo svedese Tomas Alfredson.  Dando per scontata l’origine autobiografica di Smiley, si è automaticamente cercato di identificare il suo avversario, ovvero Karla, nel film  responsabile del KGB sovietico, e lo si è trovato, almeno come ipotesi, nel misterioso Markus Wolf, capo della STASI, ovvero i servizi segreti della Germania orientale, oggi scomparso assieme ai suoi misteri. 

Ma poiché il mondo di Le Carrè è programmaticamente autoreferenziale – lo spionaggio e i suoi metodi sporchi e crudeli sono sempre gli stessi ad ovest come ad est – nell’anonimato di Karla traspare una sorta di filosofia shakespiriana: “la vita è una recita”. E non a caso,  nei pochi momenti di relax  presenti in La Talpa ci sono le feste natalizie tra commilitoni in cui, paradossalmente, ci si diverte ad immaginare di essere i nemici: un Babbo Natale che ha il volto di Lenin e i membri del M16, la sezione nella quale lavora Smiley, che cantano l’inno sovietico. E ancora, forse per ovviare al rischio di una percezione banalmente realista, Alfredson ha costruito un film metafisico ambientato negli uffici governativi che sembrano evocare, di nuovo, un universo kafkiano: un labirinto che si specchia nei meccanismi burocratici che appaiono come una vera “macchina celibe”; nel grigio delle strade, degli interni familiari, quasi si dovesse anche sentire l’odore stantio della vita uniforme e senza entusiasmo dei protagonisti. 

''La talpa''

Questo apparente distacco dalla materia brutale fatta di omicidi e torture si specchia nella narrazione ellittica ovvero in un quadro generale sfuggente a cui fanno riscontro i dettagli rivelatori che restituiscono un Le Carré al quadrato, più interiorizzato di quanto non sia nel romanzo.  Infine, un’altra caratterista della pellicola sta nel doppio filtro memoriale: il primo indiretto, situato in una contemporaneità indistinta, ormai nebbiosa; il secondo impostato sui ricordi, sui flash memoriali, sulla ricostruzione mentale degli avvenimenti passati. 

Dietro l’obbligo di dare degli indizi allo spettatore appassionato di gialli si nasconde un altro passaggio di tempo. In qualche modo, infatti, La Talpa è il segno della decadenza non solo del Circus – così si chiama la sede del servizio segreto – ma dell’intera Gran Bretagna, succursale politica e spionistica degli Usa, che serve ai sovietici per accedere ai segreti della vera potenza avversaria. Proprio La talpa, Tutti gli uomini di Smiley e L’onorevole scolaro, ultima presenza di Smiley nell’universo romanzesco di Le Carrè,  ebbero l’onore di una miniserie prodotta dalla BBC (in Italia la si vide su Retequattro nel 1982) a firma di John Irvin e con il grande Alec Guiness nei panni di Smiley.  Confesso che mi piacerebbe rivederlo ma lo si trova solo in lingua inglese, senza alcun sottotitolo.

''La talpa''

Sarò lo stesso Le Carrè, dopo aver visto il suo Smiley materializzarsi nel grande Alec Guiness ad abbandonare il suo personaggio, troppo caratterizzato dalla serie televisiva. Non a caso, nella nuova versione di quel romanzo, Gary Oldman, protagonista quasi assoluto, si è appunto “raccomandato” all’anima del grande attore scomparso nel 2000. Guiness sembra avergli ispirato la necessaria rigidità corporea, il volto impassibile, i movimenti lenti, il parlare strascicato, l’introversione misteriosa che lascia pensare a traumi personali in costante divenire. Insomma un essere umano che fa il suo dovere ma non prova alcun piacere, soprattutto perché sa già che scoprirà dolorosi segreti che riguardano anche la propria persona e il rapporto con la moglie. 

''La tamburina''

Abbandonato il Circus e la sua biografia nascosta, il romanziere restò comunque legato al mondo delle spie. Il romanzo successivo e, puntualmente, il film, fu così una bella deviazione nel terreno minato – ma già esploso con le Olimpiadi di Monaco del 1972 – del terrorismo palestinese: La tamburina.  Il film fu diretto nel 1984 da George Roy Hill e interpretato da Diane Keaton nei panni di una militante americana filo palestinese che viene usata – a sua insaputa – come esca per catturare un terrorista ricercato da tutte le polizie occidentali e ovviamente dal Mossad. Seguiranno altri romanzi, tra l’autobiografismo mascherato e la finzione esasperata di un mondo quasi più feroce rispetto ai “duelli” spietati dei diversi controspionaggi della Guerra Fredda, che, come si legge e si vede in La Casa Russia, certificano che “L’impero del male” – una definizione copiata dalla saga di Star Wars e ripresa politicamente da Ronald Reagan – è stato sconfitto.  Proprio La casa Russia (1989), uno degli ultimi grandi romanzi di Le Carrè, divenne anche il capolavoro interpretativo di Sean Connery, quasi una regia che si sovrappone a quella già alta dell’inglese Fred Schepisi. 

''La Casa Russia''

Agente editoriale, esperto in letteratura russa contemporanea e jazzista per hobby – ma i due mestieri si possono sovrapporre o invertire – Barney è un alcolista disincantato e gran parlatore. Conosce per caso uno scienziato di grande fama ma non eccessivamente fedele alla causa comunista, del resto in fase di degrado o di sfaldamento, visto che romanzo e film sono ambientati negli anni di Gorbaciov.  Lo scienziato vuol far avere alle potenze occidentali molti segreti militari per “schiantare” definitivamente l’Unione Sovietica. Barney si presta al gioco soprattutto per amore di una donna e della sua famiglia. Ecco dunque che le ambiguità dei personaggi di Le Carrè s’incarnano in un anti Bond arrivato al capolinea e deciso a chiudere la sua esistenza nel “buen ritiro” di Lisbona, assieme alla sua nuova famiglia. Un po’ come avrebbe voluto fare il nostro scrittore/agente segreto che, invece, lavorò come autore di romanzi spionistici, bene accetti dai produttori cinematografici,  fino alla fine.  

Così è facile interpretare anche La Casa Russia come una doppia analisi della situazione reale della Guerra Fredda: da una parte una grande potenza, l’Unione Sovietica, che ha smesso di essere grande anche sul piano militare, soprattutto dopo la guerra perduta in Afghanistan. Dall’altra l’occidente, ovvero gli Usa e, ovviamente, la Gran Bretagna, che vorrebbero assestare il colpo finale al grande rivale.

''Il sarto di Panama''

Com’è noto  non ci fu neanche bisogno di intervenire con mezzi forti visto che nell’arco di dieci anni, ovvero dalle rivolte polacche della fine degli anni Settanta alle dimissioni di Gorbaciov, nel 1991, il comunismo euro-russo si afflosciò senza alcuna spinta esterna. Letteralmente, implose. Piuttosto bello è anche Il sarto di Panama (2001), dove Pierce Brosnam (che subito dopo aver interpretato il personaggio principale del film fu di nuovo  James Bond in La morte può attendere, ultima sua presenza nei panni dell’agente 007), subisce una lavata di capo nella sede dei servizi segreti londinesi e viene spedito a Panama, luogo lontano, dove non saranno notati i suoi traffici illeciti, il suo libertinaggio impenitente, la sua passione per l’alcool. Siamo alla fine degli anni Novanta e il canale di Panama, la più importante via commerciale del mondo – come dicono i diplomatici del film – è stato nazionalizzato ma gli americani, dopo aver impacchettato Noriega (che era stato messo là dai vertici della CIA), vegliano perché nessuno li sostituisca nel ruolo di garanti o di padroni. Sicché, anche nella realtà, c’è quel tanto di fantapolitica, magari ironica e auto parodica, che ci riporta al romanzo omonimo di John Le Carrè. L’orfano della guerra fredda si muove infatti tra disincanto e nostalgia; e siccome i tempi attuali non sono né eroici, né tragici, la forma del racconto è una sorta di commedia nera che il film rispetta quasi alla lettera.

Dunque, il nostro agente a Panama, che ricalca, per ammissione dello stesso scrittore, il personaggio già raccontato da Graham Greene in Il nostro agente all'’Avana (1959), decide di fare il suo mestiere anche se non c’è niente da spiare che non sia già noto.

''Il sarto di Panama''

Contatta così un sarto inglese che cuce e taglia per i potenti del regime, lo ricatta per una sua vecchia storia giudiziaria e lo blandisce con i dollari che servono al povero artigiano per pagare qualche affare non proprio brillante. Il metodo funziona anche per altre ragioni: al cinico agente servono informazioni di peso (anche se fantasiose) da spedire a Londra; il sarto, una volta entrato nel gioco, dà sfogo alla sua identità di bugiardo e di contastorie, repressa dalla sua nuova vita di uomo perbene. Ma, naturalmente, la vicenda sfugge di mano ai suoi inventori ed un giorno, Londra e Washington, che hanno creduto alla frottola di un’imminente vendita del canale, ripetono l’operazione Noriega contando sulla rivolta di una inesistente opposizione silenziosa inventata dal sarto.

Questo finale, con aerei ed elicotteri che vengono fermati prima che riescano a scatenare l’ennesimo inferno, è l’unica variante di peso rispetto al romanzo, molto più cinico nel finale in cui, nuovamente, i poveri della città finiscono per essere le vere vittime dell’attacco. La ragione di questo importante cambiamento, si sospetta, sta nei capitali americani che sono serviti alla produzione della pellicola. Anche Le Carré, che pure ha prodotto e sceneggiato il film (assieme al regista John Boorman e a Andrew Davis), si è dovuto adattare ad un abbellimento che toglie un pizzico di crudeltà al racconto. Per il resto, il film è un montaggio piuttosto riuscito delle 366 pagine del romanzo in cui, attorno ai protagonisti principali, scorre una repubblica delle banane sufficientemente realistica, impunita, tronfia, corrotta, e un mondo di marginali o di sconfitti. 

''The costant gardener''

Ma, al fondo, come nel romanzo, ciò che trascina il film è il sarto Pendel, interpretato dall’australiano Geoffrey Rush (il pianista di Shine), tragico ed istrionico ad un tempo, perfetta figura di uomo senza qualità e senza identità, persino simpatico nel suo patetico innalzarsi al di là della sua condizione.  Insomma, “una spia perfetta”, come recitava un altro titolo di Le Carrè, ed un simbolo del grande gioco spionistico, da sempre autorefenziale: un po’ commedia ed un po’ tragedia. Il successivo romanzo, piuttosto bello, portato anch’esso sullo schermo, è Il giardiniere tenace, la cui vicenda spionistica s’inoltra in un’altra zona oscura: la sperimentazione dei farmaci negli ospedali africani. Resta memorabile la seconda parte del romanzo, dove l’ex spia ormai anziana, marito tardivo ma innamoratissimo di una giovane ricercatrice uccisa perché troppo curiosa, si ricorda di tutti i modi per sfuggire alla caccia dei servizi segreti inglesi e americani che non gradiscono le sue denunce.

Ma purtroppo il film, in Italia rinominato La cospirazione, diretto da Fernando Meirelles nel 2004,  è però banalissimo, come se non ci fossero più non dico gli autori ma i grandi registi di genere – come i Martin Ritt e i Roy Hill e i Sidney Lumet che diressero i primi titoli dello scrittore – capaci di fare dei buoni film spionistici. O forse è semplicemente il pubblico giovanile che non si ritroverebbe più in quel cinema dal sapore storico ormai dimenticato.

''La spia''

E ancora La spia  diretto dall’olandese Anton Corbijn, tratto dal romanzo “Issa il buono” – in libreria lo si trova con il nuovo titolo ricavato dal film – scritto nel 2006 e basato sullo sconcerto dei servizi segreti occidentali dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.  Il cuore della vicenda è incentrato su un personaggio catalizzatore: l’Issa del romanzo, russo-ceceno reduce da prigioni e torture (così dichiara), clandestino ad Amburgo, la città in cui risiedevano indisturbati tre degli attentatori newyorchesi. Il ragazzo sembra voler reclamare, per scopi benefici, i capitali “neri” che il padre, un alto ufficiale sovietico, defunto, ha depositato in una banca d’affari. Nel film, prodotto nel 2014, Philip Seymour Hoffman/Bachman, un agente che ha sempre fatto dei lavori sporchi, reclama il suo ruolo di protagonista – che nel libro è invece più defilato – e assieme al banchiere William Defoe e all’avvocatessa umanitaria Rachel McAdams, si adopera con tutti i mezzi per salvare il clandestino e, nel contempo, usarlo per prendere qualche pezzo grosso dell’islamismo iperprotetto da affari legali e da opere di beneficienza.

''Il traditore tipo''

Pur asciugando  all’eccesso la trama romanzesca, il film resta legatissimo alle atmosfere dello scrittore inglese. Così, dietro i classici caratteri contradditori delle “spy story” (prima di tutto il Bachman di Hoffman, il cui motto è “rendere più sicuro il mondo”), si nasconde il trionfo dell’ambiguità.  Come dire che, cessata la guerra fredda, lo spionaggio è sempre un mondo a parte, i cui protagonisti, per restare a galla, sono disposti anche ad alimentare conflitti e  tensioni che sfociano spesso in tragedie epocali.  E infine il mediocre Il nostro traditore tipo (2012), che non brilla neanche nelle pagine scritte da Le Carré ed è dedicato ai potenti, i cosiddetti oligarchi che hanno in mano la Russia ovvero l’ex Unione Sovietica dove già prosperavano all’ombra della dittatura.  Forse è questo il messaggio segreto di Le Carrè, simile a quello di La casa Russia, senza averne la bellezza e il valore.

La guerra fredda è stata un male necessario ma il mondo che ci ha lasciato in eredità non è molto cambiato in quanto a morale, avidità, ferocia e ogni altra parola che in grado di descrivere la deriva dell’umanità.

7 gennaio 2021