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Percorso

Il cinema deleddiano: un catalogo infinito

La Deledda erede della grande letteratura europea ottocentesca. Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Grazia DeleddaSecondo quanto raccontava Beniamino Placido, Carmelo Bene, durante una conferenza, sostenne che il più grande romanziere italiano dell’Ottocento era stato Giuseppe Verdi. Che ovviamente non era affatto un romanziere ma un musicista o meglio un compositore le cui opere liriche, conosciute e apprezzate in tutto il mondo, avevano certo bisogno di scrittori – i “librettisti” – che quasi mai diventarono famosi come romanzieri.

Accanto a Verdi, come esponenti di una cultura nazionale musical-teatrale caratterizzata spesso da un immaginario collettivo basato sull’esaltazione della libertà e della lotta contro i tiranni, quasi sempre stranieri, si possono citare altri celebri compositori come Bellini (catanese), Donizetti, e persino l’ultimo Rossini del Guglielmo Tell, il cui tema è appunto la lotta di un popolo per la sua libertà.
Se si vuole confrontare la boutade di Bene con il vero e proprio romanzo italiano ottocentesco, a parte I promessi sposi – che tutti citerebbero come il più celebre e il più riuscito – non c’è molto da scegliere: Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Foscolo, Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo, Da Quarto al Volturno (1862) di Giuseppe Cesare Abba, Cuore (1866) di Edmondo De Amicis e pochi altri, quasi sempre legati all’epica/epoca del Risorgimento ed oggi quasi dimenticati.
Il tema unificante e il basso numero di titoli citati – anche in rapporto con il parallelo mondo operistico citato in apertura – la dice lunga sull’assenza di una letteratura ottocentesca italiana di grande respiro, in termini numerici e di fama.

Se poi aggiungiamo a questo scarno elenco “nordista” – giustificato dalle circostante storiche – i siciliani Giovanni Verga, Federico de Roberto, Luigi Capuana, l’abruzzese D’Annunzio e infine Pirandello – questi ultimi come la Deledda, definibili come otto/novecenteschi – ci accorgiamo, da un lato che, a parte Verga e il suo realismo quasi antropologico, capace di creare un affresco del mondo contadino e marinaro della sua Sicilia, soprattutto con I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, gli altri scrittori citati, soprattutto Capuana e Pirandello, sono anch’essi legati alla costruzione di una nuova Italia, ma tutt’altro che patriottici “senza se e senza ma”. Insomma, sono siciliani prima di essere italiani, almeno nelle loro opere.
Infine, Pirandello riassume nella sua sterminata produzione letteraria (commedie e drammi teatrali, racconti, novelle e qualche romanzo piuttosto bello, come il suo capolavoro Il Fu Mattia Pascal, I Vecchi e i giovani, Quaderni di Serafino Gubbio operatore) una sorta di sapienza estetica di tipo enciclopedico, pienamente novecentesca.

Questo non vuol dire che, oltre agli autori citati, non ci siano stati, in campo nazionale e, per quel che ci riguarda in questo scritto, anche in Sardegna e non solo in Sicilia, altri scrittori meno famosi ma spesso egualmente degni di nota, come ad esempio, Enrico Costa o Ottone Bacaredda, quest’ultimo più celebre come sindaco di Cagliari tra Otto e Novecento.
Ma la breve esposizione di una cultura letteraria nazionale e regionale piuttosto scarna e neanche molto conosciuta dagli italiani – a differenza del repertorio musical-teatrale che, invece, è diventato una sorta di marchio identitario in tutto il mondo – può essere sinteticamente messa a confronto con quella di tre paesi europei: Gran Bretagna (dagli scozzesi Scott e Stevenson agli inglesi Dickens, Hardy, Wilde, Stoker, Thackeray, Kipling, per citare solo i più celebri), Francia (da Hugo a Zola, passando per Balzac, Dumas, Flaubert, Stendhal, e tanti altri) e Russia (da Puskin a Tolstoj, passando da Dostoevskij, Cechov, Gogol ed un’altra infinità di nomi illustri) le cui pubblicazioni “finzionali”, anche solo in termini quantitativi, sono state e sono ancora sono il punto di riferimento universale dell’epoca e dell’epica del romanzo, visto che hanno prodotto capolavori che continuamente vengono ristampati in ogni parte del mondo e continuano ad avere lettori di generazione in generazione.

Si può aggiungere a questa considerazione non solo il fatto che la letteratura inglese è anche una letteratura di donne (le sorelle Bronte, Jane Austen, Mary Shelley, George Elliot) ma, per quel che ci riguarda in questa sede, i romanzi dell’Ottocento provenienti da questi tre paesi sono stati uno dei motori della trasformazione del cinematografo, a partire dagli anni dieci del Novecento, da spettacolo ancora legato alla scena, cioè al teatro, soprattutto in Europa, in un “medium” narrativo, cioè agli intrecci di derivazione letteraria.
Giusto per evidenziare questo rapporto, basterà ricordare che scrittori come Dickens, Stevenson, Hugo, Balzac, Dumas, Tolstoj, Cechov, Dostoevskij sono stati degli straordinari e ovviamente inconsapevoli “fornitori” di storie cinematografiche che, tuttora, vengono riproposte tra schermi grandi e piccoli, come un inesauribile magazzino di soggetti cinematografici.
Questa sintetica premessa serve a inquadrare la Deledda e il suo non sempre consapevole interesse verso il cinematografo, da un lato in una sorta di ritardato Ottocento letterario, dall’altro in una conferma della specificità italiana anche nel rapporto tra cinema e romanzo.
Come gli scrittori siciliani, anche la Deledda ha come riferimento principale se non esclusivo il proprio mondo isolano, visto che la sua serialità, ovvero il gran numero di opere (oltre cinquanta) tra romanzi e racconti pubblicati in un arco di tempo che non supera i quarant’anni di carriera, hanno in larghissima misura un ambientazione sarda.

E proprio per questa caratterizzazione prevalentemente regionale, nonostante la fama e le rituali celebrazioni, il “deleddismo” è stato ed è tuttora anche un termine quasi squalificante e famigerato, utilizzato in diversi contesti e non sempre pertinenti: disapprova la trasformazione romanzesca della tradizione locale – la celebre “Sardegna a modo suo”, rivendicata dalla scrittrice, che tanta ostilità gli procurò a Nuoro e nei paesi barbaricini e che fu continuamente ripresa dai maggiori intellettuali sardi del dopoguerra – sottolinea la ristrettezza dell’orizzonte geografico delle sue opere, identifica il suo mondo “finzionale” come un “tempo fermo”, distante dalla modernità novecentesca – che pure si affacciava anche nel’isola – caratterizzato da ambienti arcaicizzanti e decadenti, storie d’amore melodrammatiche, faide, vendette, uomini corrucciati, feste e costumi colorati.
Che queste caratterizzazioni siano una pura e semplice invenzione letteraria è oggetto di discussione, ma certo per tanto tempo sono state “rubricate” sotto un segno negativo che riassume vecchie polemiche sul valore della scrittrice.
Il “deleddismo” cinematografico non poteva che ampliare questa presunta negatività: la popolarità del mezzo rende inevitabile la creazione di stereotipi, a prescindere dalla volontà dei singoli letterati e spesso anche dei cineasti. E ciò vale non solo per la Deledda ma anche per la maggior parte degli scrittori del tempo, in Italia e altrove.

In assenza di altri sistemi immaginari forti, il mondo della scrittrice diventò un segno di riconoscimento a cui attinsero i non molti film di finzione sulla Sardegna. Ed anzi, poiché ai primi del Novecento la Deledda si era già affermata nell’ambiente letterario italiano, potrebbe persino sorprendere il fatto che le pellicole ispirate ai suoi romanzi o racconti siano comunque poche e, ad ecLcezione di Cenere (1916), neanche troppo famose.
Si può aggiungere, giusto per contestare le facili critiche alla “sua” Sardegna, che è sempre facile ridurre a stereotipo ogni immaginario letterario: la Londra di Dickens o la Parigi di Balzac e persino la San Pietroburgo di Dostoevskij non sono poi meno riduttive e “parziali”, nella loro paradossale emblematicità e grandezza storica e letteraria, dei romanzi della Deledda.
Tolstoj affermava che raccontare il proprio paese, benché piccolo, fosse garanzia di universalità. Si potrebbe aggiungere: basta essere grandi scrittori.
La fortuna internazionale della Deledda si basò appunto sulla riuscita combinazione tra originalità/diversità tematiche e forme letterarie già codificate, capaci di condizionare l’intera percezione dell’immaginario occidentale e persino orientale, come avrebbe scritto Edward Said nei suoi saggi sull’orientalismo “in negativo” dei maggiori scrittori europei dell’Otto/Novecento.

Da una parte, dunque, vi era il radicamento in una Sardegna lontana dalle società borghesi e metropolitane, dall’altra il romanzo popolare europeo, vera e propria educazione letteraria basata su gran parte dei romanzieri citati in apertura.
Il “deleddismo” cinematografico – termine che in questo saggio non ha alcun carattere dispregiativo, ma piuttosto riduttivo rispetto al valore letterario della scrittrice – non poteva che replicare questo doppio registro significante, pur in un contesto di maggior divulgazione delle caratterizzazioni geografico-ambientali e delle tipologie dei personaggi.
Così, in assenza di altri sistemi immaginari forti, il mondo della scrittrice diventò un segno di riconoscimento isolano a cui attinsero i film di finzione di almeno mezzo secolo.
Ed anzi, poiché già ai primi del Novecento la Deledda era già piuttosto nota, potrebbe persino sorprendere il fatto che i film ispirati ai suoi romanzi o racconti non siano molti e, ad eccezione di Cenere (1916), neanche troppo famosi.

La Deledda come referente diretta e indiretta dell’esplorazione filmica della Sardegna nella prima metà del Novecento.

La carriera cinematografica della Deledda, se così si può chiamare accettando la forzatura lessicale, ha inizio nel 1913 con un questionario che le case di produzione filmica inviarono alla maggior parte degli scrittori italiani, chiedendo loro se fossero disponibili a collaborare, in qualità di soggettisti, all’industria cinematografica.
Ecco la risposta della scrittrice sarda: «Credo certo che il cinematografo, perfezionato a manifestazione d’arte rappresentativa, possa crearsi un degno avvenire. Per conto mio non ho nulla in contrario per lasciar ridurre qualche mio lavoro: la conoscenza dei paesaggi e costumi sardi verso i continentali è ancora così lontana dal vero».
Tre anni dopo Eleonora Duse le chiederà di collaborare alla sceneggiatura di Cenere, i cui diritti erano stati acquistati dall’Ambrosio film di Torino.
Cenere (1916) è il primo e più famoso film deleddiano, una pellicola che ha trovato un posto stabile nella storia del cinema come unico documento cinematografico su Eleonora Duse, interprete e coautrice dell’opera.
Sulle vicende artistiche e produttive di quella pellicola esiste una vastissima documentazione d’archivio. Tra le fonti ancora consultabili sono piuttosto importanti l’epistolario di Eleonora Duse con la figlia Enrichetta; il breve scambio di lettere dell’attrice con la Deledda; gli appunti di sceneggiatura redatti dalla stessa Duse; le testimonianze della moglie di Febo Mari, regista e attore del film; la biografia dell’attrice curata dal saggista americano William Weaver.

Esiste, infine, una letteratura storico-critica abbastanza corposa, riassunta anche in un volume di Antonio Cara, Cenere di Grazia Deledda nelle figurazioni di Eleonora Duse (1981). A questa minima bibliografia si rimanda per maggiori approfondimenti.
Va anche sottolineato che la trasposizione filmica di Cenere non fu dettata da una scelta consapevole dell’Ambrosio film nei confronti dei lavori della scrittrice sarda ma piuttosto ebbe inizio con il “corteggiamento” della Duse, che si era ritirata dalle scene teatrali nel 1909, da parte delle maggiori case di produzione nazionali.
Da parte sua la Duse era interessata al cinema come spettatrice curiosa e come intellettuale contigua, anche se non organicamente, con la prima avanguardia che sognava una settima arte pura, antiteatrale e non guastata dal commercio. Nel 1915 ricevette una proposta di lavoro dagli Stati Uniti, nientemeno che da Griffith. Nello stesso anno cominciarono le trattative con la Tiber romana e l’Ambrosio di Torino. Ad entrambe le case produttrici, l’attrice propose di portare sullo schermo Cenere, di cui scrive con entusiasmo, nel maggio del 1916, alla figlia Enrichetta.
La concorrenza tra la Tiber e l’Ambrosio si risolse, come è noto, a vantaggio di quest’ultima, ma la Deledda, dopo una fase iniziale in cui sembrava anche disposta a collaborare alla sceneggiatura, decise di abbandonare l’impresa. La motivazione principale della rinuncia diverrà chiara pochi mesi dopo. Però, prima di chiudere i rapporti e con l’attrice e con l’Ambrosio, la Deledda aveva già scritto alcune note che poi si ritroveranno negli stessi appunti di sceneggiatura della Duse, suggerendo inoltre – data l’impossibilità di girare il film in Sardegna a causa della guerra – di cercare delle ambientazioni abbastanza simili al paesaggio isolano nelle Alpi Apuane, dove si trovavano anche delle piccole comunità di pastori sardi.
Quando però la Duse, dopo una netta opposizione alla sua sceneggiatura da parte del produttore Arturo Ambrosio, fu estromessa dalla direzione del film, copione e regia rimasero saldamente in mano a Febo Mari, regista e attore di punta della casa di produzione torinese.
A quel punto la Deledda, non più costretta a confrontarsi con la diva, fece pervenire proprio a Febo Mari altre note ambientali e caratteriali sui personaggi.

È anche significativo all’interno di questo sotterraneo e mai espresso contrasto tra la scrittrice e la Duse che proprio l’attrice, nei mesi seguenti, per potersi documentare sugli “usi e costumi della Sardegna”, si rivolse non già alla Deledda – che certo non era digiuna in materia – ma Paolo Orano e Francesco Soro. Entrambi sardi, il primo fu uno studioso di tradizioni regionali, già collaboratore e guida di Alfredo Niceforo nel suo primo viaggio in Sardegna alla fine dell’Ottocento e poi autore di un famigerato volume, Psicologia della Sardegna, d’impostazione positivista e debitore al Lombroso e allo stesso Niceforo; il secondo, Soro, era l’avvocato di diverse case cinematografiche.
C’è infine un documento in cui la scrittrice fece capire di non essere interessata alla collaborazione. Si trova in una lettera in cui annuncia il suo probabile coinvolgimento in un “film sardo” che nulla avrebbe avuto a che fare con Cenere, opera definita comunque in anticipo “grande, perché illuminata dalla sua anima” (della Duse).
Ma, per segnare maggiormente il distacco da Cenere, la Deledda dichiarò apertamente che «c’è chi lavora per fare apparire questo (Cenere) sullo schermo cinematografico, una Sardegna fotografica e commerciale, e per amore della mia isola, mio primo amore, non vorrei lasciarmi sfuggire l’occasione di farla apparire qual’essa è».
L’occasione è evidentemente Lo scenario sardo per il cinema ritrovato dallo storico Ferdinando Cordova, di cui si scriverà più avanti, nelle carte della giornalista Olga Ossani, amica sia della scrittrice che della Duse. Sara questo testo il vero e proprio esordio della Deledda nella scrittura per il cinema, e sarà anche – a meno di nuovi ritrovamenti – l’unico soggetto cinematografico della scrittrice.
Infine, si può anche ipotizzare che, come sottofondo a tutta la vicenda, ci sia stato anche un ovvio dualismo tra primedonne, seppure mai esplicitato in maniera chiara. Dopotutto, la scrittrice era davvero un’ammiratrice della Duse e nel 1908, dopo la pubblicazione de L’Edera, le aveva proposto di interpretare la parte di Annesa in un spettacolo teatrale tratto dal romanzo. L’attrice aveva declinato l’invito, adducendo motivi personali comprensibilissimi (l’anno dopo, infatti, si ritirò dalle scene), ma mostrando di apprezzare i suoi romanzi.
È però ovvio che, al di là dei ripetuti e rituali omaggi alle rispettive arti, alla Deledda non poteva andar bene lo “smontaggio” del romanzo già presente nelle prime stesure della sceneggiatura. Ritornava in campo la vecchia questione della presunta sacralità dell’opera letteraria, contrapposta alla “faciloneria” del cinematografo.

A questo accenna la Deledda quando paventa, sia pure per crearsi un alibi, la possibilità che Cenere diventi un film commerciale. D’altro canto, in una lettera, tratta sempre dall’archivio di Olga Ossani, la scrittrice rivela apertamente un certo disprezzo per il mondo del cinema e un interesse prioritario – benché fastidioso, e dunque affidato al marito che ne curava gli affari – per i compensi legati alla cessione dei diritti del suo scritto.
L’atteggiamento prudente, di doverosa deferenza ma anche di distacco nei confronti dell’opera filmica, si manifestò nuovamente quando la Duse, dopo molte insistenze, riuscì a mostrare alla Deledda il prodotto finito. La scrittrice restò in silenzio; poi, alcuni giorni dopo scrisse una lettera che, mentre porgeva i suoi omaggi alla diva, “capace di illuminare con luce propria la storia da lei raccontata con altri mezzi espressivi” ribadiva la sua estraneità al film.
Tutta la vicenda, per concludere, mostra apertamente una dialettica interna molto vivace in quella che appare già un’industria culturale capace di coinvolgere artisti famosi. Ed è dunque di grande interesse per la ricostruzione dei primi decenni di vita del cinematografo in Italia.
Quanto al film, girato nell’estate del 1916 ad Ala di Stura, in Piemonte, poi negli studi Ambrosio di Torino, e quindi nelle Alpi Apuane, uscì sugli schermi solo nel marzo del 1917.
William Weaver, biografo americano della Duse, sostiene che Arturo Ambrosio, dopo aver dato ascolto alla Duse, allungando i tempi di lavorazione per poter girare scene aggiuntive sulle Alpi Apuane, finì per disinteressarsi all’opera, fiaccato “dal perfezionismo dell’attrice”.
Così cedette i diritti di distribuzione e il film passò quasi inosservato: fu giudicato contraddittoriamente dalla critica dell’epoca, ma bocciato inequivocabilmente dal pubblico.

Anche oggi risulta di difficile collocazione storico-critica, se non appunto per quanto riguarda lo straordinario documento sulla recitazione della Duse. Non solo è molto diverso rispetto a ciò che aveva ideato l’attrice, ma certamente incompleto in tutte le versioni disponibili in Italia. Probabilmente fu rimontato frettolosamente nel 1924. In quell’anno, a Pittsburgh, moriva la Duse e negli Stati Uniti nacque un vero e proprio culto dell’attrice italiana che aveva concluso la sua carriera nei teatri americani.
Dagli USA proviene non a caso una nuova versione del film, ritrovata alla Fondazione George Eastman dal ricercatore Paolo Cherchi Usai e attualmente in deposito presso la Cineteca Sarda. Ma anche questa copia, sebbene più lunga rispetto alle altre versioni visibili in Italia, ha evidenti errori nei raccordi di montaggio e nella successione delle sequenze che fanno pensare ad un affrettato recupero di ciò che rimaneva della pellicola.
In un recente saggio di Mirella Schino, “Nota su Cenere: una linea continua di spezzettature”, apparso su Annali di Teatro e Storia nel 1994, si analizza una scena centrale del film mettendo a confronto le due versioni disponibili e giungendo alla conclusione che i tagli non solo hanno alterato la narrazione, ma anche il senso dell’operazione creativa della Duse, estremamente allusiva e metaforica. Difatti «[…] dopo una didascalia che parla del richiamo a distanza tra il figlio e la madre che l’ha abbandonato, nella copia meno rovinata dai tagli vediamo la Duse immobile, in piedi, stagliata contro il cielo […] e subito dopo il giovane, studente a Roma, che, come se l’avesse sentita, si volta verso la finestra, la chiude e riprende a scrivere alla fidanzata». Segue una didascalia anch’essa assente dalla copia della Mondadori: «rotta una maglia i fili non sia riannodano più», e poi ha inizio la scena della Duse mendicante che guarda la calza.

Nella stessa copia citata la scena della calza (immediatamente successiva all’immagine del figlio ancora bambino) si trasforma semplicemente in un simbolo del degrado della donna. Collocata invece al centro di una sequenza alternata tra madre e figlio, e dopo la didascalia sull’irreparabilità di una maglia rotta, ha un altro impatto e un altro senso: il volto svuotato della Duse non parlava di miseria, ma parlava dei rapporti rotti e non riannodabili tra la madre e il figlio abbandonato.
L’assenza di una ricostruzione filologica, che pure potrebbe partire proprio dalle indicazioni della Schino, non permette dunque un’analisi approfondita dell’opera.
Semmai un confronto – che si trova diffusamente nel volume, curato dallo scrivente, Scenari sardi. Grazia Deledda tra cinema e televisione – può essere fatto tra il film e gli appunti di sceneggiatura della Duse, che intendeva raccontare la vicenda dal punto di vista di Anania fin dalle prime immagini.
Il protagonista, in cima al Gennargentu, ormai adulto, pensa alla sua fidanzata e, contemporaneamente, è preso dal rimorso per non aver più cercato la vera madre.
Da qui partono dei flash intermittenti che raccontano il suo passato e il suo Io diviso tra Margherita e
Rosalia. Infine, nel finale, Anania decide di ritrovare la madre e questa si sacrifica perché il figlio possa avere una vita felice.
È evidente che il film oggi visibile contiene ben poche delle intuizioni di scrittura e di regia dell’attrice, ma sia la biografia della Duse di William Weaver, sia alcuni saggi di Olga Signorelli, apparsi nel dopoguerra nella rivista Bianco e nero, ipotizzano che non tutte le impostazioni formali e strutturali della Duse furono abbandonate in fase produttiva e che solo dopo l’insuccesso di pubblico il film fu mutilato e rimontato con una struttura narrativa lineare.

Sui motivi che portarono al fallimento commerciale vi sono molte ipotesi. La prima e più valida riguarda la sceneggiatura originale, del tutto inconsueta per i canoni dell’epoca, e priva di sviluppi narrativi legati alla vicende romane e cagliaritane di Anania, vero contraltare borghese dell’ambientazione sarda. Il film avrebbe forse funzionato egregiamente in termini commerciali, ribaltandone l’assunto drammaturgico: non già uno sguardo sulla tragedia della madre, ma sull’iniziazione borghese del figlio, Anania.
Questa nuova struttura – che l’Ambrosio film tentò di far passare attraverso il regista Febo Mari – avrebbe ovviamente lasciato all’attrice un ruolo defilato, da caratterista, il che non avrebbe giustificato neanche la grancassa pubblicitaria e i cospicui investimenti sul suo esordio nel cinematografo.
Un altro aspetto negativo fu l’impossibilità per la Duse, che all’epoca aveva 58 anni, di prestarsi ad una interpretazione divistica del suo personaggio, del resto rifiutata anche concettualmente per fedeltà ad una figura femminile tratteggiata inequivocabilmente come vagabonda: una mendicante, quasi una prostituta e non certo un’eroina da romanzo d’appendice, magari peccatrice ma redenta dall’amore filiale.
Quel “Mi metta in ombra …” – ripetuto spesso dall’attrice Duse a Febo Mari – è una sorta di profonda connotazione del personaggio di Rosalia, “scavata” psicologicamente attraverso una recitazione fissata in pose plastiche e pittoriche che escludevano il gesticolare teatrale dei film coevi.
E ancora, considerando la virtuale appartenenza del film ad una corrente verista del cinema italiano – la prima che s’incontra nella sua storia – si deve sottolineare che questa fu prevalentemente urbana e piccolo borghese e quasi mai rurale.
Infine, per chiudere con le ipotesi dettate dal senno di poi, tutta la vicenda sembra segnata da una grande contraddizione cultural-produttiva: l’industria cinematografica mette infatti sotto contratto la maggiore attrice del tempo, credendo di poter sfruttare il suo alone leggendario come motore economico della produzione. Ma il progetto si rivela fallimentare, segno forse, al di là di tutte le motivazioni critiche, che nel 1916, in Italia, cinema e teatro facevano ancora riferimento a pubblici diversi. Le manovre di accerchiamento del cinematografo nei confronti dell’intero mondo della cultura funzionavano solo se la guida rimaneva saldamente in mano all’industria e se questa riusciva a conciliare il carisma dei letterati e degli artisti con i gusti dominanti degli spettatori cinematografici.

Come si è già scritto, nello stesso anno in cui si stava definendo la produzione di Cenere, la Deledda scriverà un testo originale – conosciuto come Scenario sardo per il cinema e mai entrato in lavorazione – per la Tiber film, una casa di produzione romana.
Forse non è l’unico soggetto cinematografico della scrittrice rimasto sepolto negli archivi – c’è infatti la traccia “documentaria” di un altro soggetto cinematografico, Il fascino della terra, scritto nel 1918 assieme al commediografo Luigi Antonelli – ma certo la mancanza di una vasta filmografia non può che farci classificare la maggior parte delle trasposizioni deleddiane come “minori” nell’ambito del cinema italiano di derivazione letteraria ma pur sempre numericamente importanti, soprattutto a partire dal dopoguerra, quando anche la Rai produrrà ben cinque sceneggiati tratti dai suoi romanzi. Un numero considerevole, considerato la non grande quantità di scrittori italiani che arrivarono, con le loro opere, sul piccolo schermo.

Altri deleddismi, diretti e indiretti, nel primo dopoguerra.

Dopo aver lasciato doverosamente a Cenere uno spazio specifico, il già citato Scenario sardo per il cinema è il primo tassello di un percorso filmico in cui la Sardegna deleddiana cerca di costituirsi come Sardegna “tout court”. 

La sua ricomparsa è relativamente recente e del tutto casuale: trovato in un epistolario che il già citato Ferdinando Cordova stava analizzando per una eventuale pubblicazione, fu poi pubblicato nel 1999 dal quotidiano “L’Unità” e quindi generosamente offerto allo scrivente che, come si è scritto, nel 2001 curò la pubblicazione di una monografia, Scenari sardi. Grazia Deledda tra cinema e televisione (Aipsa), nelle cui pagine scrissero anche il professor Cordova, la studiosa deleddiana Giovanna Cerina e Alessandra Piras.
Il soggetto cinematografico racconta una tormentata storia d’amore tra Maria, la figlia di un anziano contadino – promessa sposa ad un ricco possidente, Maoro Moro – e un povero pastore, Giovanni Arras, accusato ingiustamente di alcuni reati.
Una buona metà della vicenda è ambientata durante una festa campestre, riconoscibile facilmente come San Francesco di Lula. Grande peso hanno la descrizione del corteo a cavallo (definito “pittoresco”) che accompagna al santuario il simulacro del santo e la sosta nelle terre del Moro, dove si svolge il tradizionale pranzo.
Il primo “coup de théâtre” è l’apparizione di Giovanni Arras. Costui, date le circostanze che obbligano all’ospitalità, si aggrega al pranzo e in seguito segue il simulacro a piedi nudi, implorando il santo perché aiuti lui e Maria nella realizzazione del loro sogno d’amore. Fin qui, la scrittura della Deledda è prevalentemente descrittiva/evocativa, legata al paesaggio, al costume e alle tradizioni popolari: in una parola al colorismo pittoresco che auspicava fosse utilizzato da una possibile cinematografia regionale, nella succinta e diplomatica risposta al questionario del 1913.
Proseguendo nella critica delle “intenzioni”, è piuttosto ben riuscita l’evocazione di un clima quasi documentaristico, così come la sottolineatura della gestualità dei protagonisti, sorta di cinesica antropologica che certo la scrittrice ben conosceva e che si prestava particolarmente ad un cinema muto più rappresentativo che narrativo.

Nella seconda parte ha inizio il racconto vero e proprio e, per quanto si può giudicare da un semplice soggetto, la Deledda sembra invece incapace di drammatizzare efficacemente la vicenda e di far risaltare la tensione avventurosa insita in questo tipo di film. Al termine della festa, infatti, Giovanni Arras, non più protetto dalla tradizionale e obbligatoria ospitaltà, prende la via della montagna per sfuggire ai carabinieri.
Riparatosi nel rifugio di un vecchio bandito che ha preso a cuore la sua causa, organizza il rapimento del padre di Maria, salvo restituirlo alla famiglia senza riscatto, in cambio della promessa di dargli in sposa la propria figlia. Il padre acconsente – aveva accettato l’offerta matrimoniale di Arras solo su pressione della moglie – e un prete celebra le nozze in segreto. Quindi i due fuggono verso il mare, dove una barca li porterà al sicuro. Invano il Moro li inseguirà e i carabinieri, in un finale ironico, scambieranno il possidente per il latitante, riportandolo in paese ammanettato.
Considerato che Marianna Sirca fu pubblicato nel 1915, Scenario sardo per il cinema sembra un sintetico e persino ironico adattamento – magari dilatato dalle descrizioni pittoresche – delle vicende di quel romanzo: il povero bandito innamorato somiglia a Simone Sole; il vecchio latitante paterno a Bantine Fera; il Moro a Sebastiano.

Maria, invece, è lontana dalla fierezza di Marianna, donna cosciente del suo potere e della sua carica ribellistica. Il finale – che curiosamente anticipa in parte quello che filmerà nel 1952 Aldo Vergano in Amore Rosso, tratto appunto da Marianna Sirca – si distacca nettamente dalla cupa tristezza dei maggiori romanzi della scrittrice, per proporre un’“iperfinzione” capace di stemperare sia i residui antropologici sia gli eccessi melodrammatici.
In questo confronto minimo tra il romanzo del 1915 e ciò che potrebbe essere considerato un adattamento, risalta la prima e profonda differenziazione tra due immaginari. Da un lato il cosmopolitismo del cinematografo, dall’altro ciò che si ha timore – visto l’uso e l’abuso – di definire la “sardità” del mondo deleddiano: cioè quella sorta d’immobilità storica che avvolge ogni tentativo di cambiamento e che spegne passioni, vitalità, sentimenti, desideri, fughe.
Così si può agevolmente sostenere che i tratti di immutabilità sociale e culturale e le rassegnazioni religiose ed esistenziali, appartengono anche ad altri universi romanzeschi che la scrittrice ben conosceva – ad esempio certi Balzac, certi Dickens, e soprattutto gran parte di Dostoevskij – ma in questa sede si deve obbligatoriamente far riferimento alla percezione, forse sopravvalutata da molti studiosi, di alcuni archetipi isolani: appunto il tempo storico quasi sospeso e l’isolamento assoluto.
Come sintetica teoria generale degli adattamenti deleddiani si può altresì utilizzare un brevissimo brano di un critico, Giorgio De Sanctis, che, a proposito di L’Edera (1950), scrive: «Un filo e meno di un filo separa un romanzo d’appendice da un romanzo di Grazia Deledda. I registi cinematografici varcano coscientemente quel filo».
Alla giusta analisi di De Sanctis si potrebbe affiancare la possibilità di dar vita ad un altro sottilissimo filo di separazione tra romanzi e film: dal dramma alla commedia. D’altronde, l’ironia o l’aperta caricatura del mondo sardo – anche di quello deleddiano – è presente proprio nello Scenario sardo e, successivamente in un film anomalo come La Grazia (1929) – entrambi scritti o “controllati” dalla Deledda, ed infine, a partire dal dopoguerra, in alcune pellicole decisamente comiche come Vendetta… sarda e Una questione d’onore, le cui ascendenze letterarie non sono visibili, ma che, senza la Deledda, forse non esisterebbero.

Per essere più espliciti, e forse sognatori, un testo come L’Edera sarebbe potuto diventare un grande film del Buñuel messicano che, appunto, maneggiava con disinvoltura e con ironia surreale vicende melodrammatiche e adattò, nel 1953, Cime tempestose della Bronte. Invece, per La madre, è quasi automatico pensare ad un altro grande autore spagnolo, Pedro Almodovar.
Ma i linguaggi del cinema, allora come oggi, quasi mai sono dettati dagli autori ma piuttosto dall’industria culturale a cui ci si deve adeguare, con qualche acrobazia e molti compromessi.
D’altro canto, poiché la sacralità dei romanzi deleddiani – mai rispettata, dopotutto – è oggi più o meno scomparsa o forse puramente declinata al passato, i nuovi autori cinematografici sardi che si sono imposti tra i due secoli, si sono accostati alle sue trame, con tutta la libertà possibile, magari inconsciamente, come fossero un retaggio storico-letterario-antropologico che connota ancora oggi la Sardegna.
Si potrà riprendere più avanti, ampliandola, questa sottolineatura. Ma tornando alla nascita del deleddismo, un modello abbastanza archetipico – che prescinde dal finale ironico e quasi caricaturale – può essere riscontrato proprio nello Scenario sardo in cui è facile cogliere anche il doppio percorso significante: da un lato una chiave d’accesso ad una Sardegna già costruita come “plot paradigmatico” accostabile ai grandi insiemi del romanzo europeo (amori passionali, decadenze familiari, vendette, agnizioni, espiazioni, catarsi), dall’altra un’innovazione del melodramma cinematografico o del cinema popolare “tout court”, attraverso l’inserimento di scenari colorati, caratterizzazioni inedite e “fuori norma”, suggestioni folcloriche ed esotiche.

Il deleddismo diretto e indiretto nei film d’ambiente sardo del primo dopoguerra

La prima guerra mondiale, che già impedì le ipotizzate riprese sarde di Cenere, ostacolò ulteriori tentativi di portare i suoi romanzi sullo schermo. A partire dagli anni Venti i viaggi cinematografici divennero più agevoli anche se non troppo semplici e, tra il 1920 e il 1926, vennero prodotti uno dopo l’altro ben quattro film di ambiente sardo: Alba serena in un tramonto di sangue (1920) di Mario Celada, Marcella (1921) di Carmine Gallone, Cainà (1921) di Gennaro Righelli, In terra sarda (1922) di Romano Luigi Borgnetto. 

Più tardi, alla fine del muto, sarà la volta di Il richiamo della terra (1928) di Giovannino Bissi e del celebre La Grazia, tratto da una novella della Deledda e diretto nel 1929 da Aldo De Benedetti.
Se si pensa all’esiguità della filmografia regionale (almeno per quanto riguarda il cinema a soggetto) di ogni tempo e luogo, il cosiddetto cinema sardo degli anni Venti riveste un’importanza notevole.
Non è inoltre meno rilevante che tra i registi di questa prima scoperta filmica isolana ci siano dei nomi di spicco: per primi Righelli e Gallone, la cui vasta filmografia copre un arco temporale che va dal muto agli anni Cinquanta; poi un direttore di successo come Borgnetto che, in Sardegna, nel 1920, girò anche due episodi della serie dedicata a Maciste (Maciste salvato dalle acque e La rivincita di Maciste); ed infine Aldo De Benedetti, poco prolifico come regista, ma drammaturgo di primo piano e importante sceneggiatore nel secondo dopoguerra a fianco di Raffaello Matarazzo.
Sul piano testimoniale, il primo titolo che s’incontra in questa filmografia è In terra sarda, girato da Luigi Romano Borgneto nello stesso anno del dittico su Maciste. Una pubblicazione del Museo del Cinema di Torino riporta una lettera del regista, di stanza a Nuoro per girare in Barbagia quel film attualmente non visibile. Ci resta una bella fotografia di scena (due sardi in costume, con un’aria truce, che insidiano una ragazza) e le poche e curiose note di Borgnetto che lamentano la scomodità del luogo, i lunghi itinerari a cavallo lungo le mulattiere (gli esterni si svolgevano nel Supramonte di Orgosolo), il caldo infernale di quelle valli aspre e boscose. Inoltre disponiamo del soggetto (un’altra storia d’amore travagliata tra una fanciulla di buona famiglia e un povero pastore) e di una recensione, firmata da Errepi, corrispondente da Cagliari di una rivista cinematografica napoletana, la Cine-fono.

In quell’articolo si lamenta l’invasione dei cinematografari continentali, «… i quali hanno approfittato della notorietà dei sardi durante la grande guerra per raccontare una storia selvaggia di vendette e drammi briganteschi».
Già da questi scarni documenti s’intuisce che nei viaggi alla scoperta di un’isola “incognita” ci fosse qualcosa di più della semplice passione di uno o più registi.
Il primo motivo d’interesse, come fa capire la nota di presentazione alla lettera di Borgnetto, è un’esigenza di diversificazione dei prodotti da parte dell’industria cinematografica: un bisogno, ad un tempo, di realismo e di esotismo – due concetti, a quel tempo, non necessariamente contrastanti – nonché di lontananze geografiche rispetto alla prevalenza delle storie urbane.
Il secondo riguarda invece la Deledda, che, anche al di là della sua volontà, divenne una vera e propria interprete dell’isola o comunque il punto di riferimento di ogni descrizione della Sardegna extra metropolitana, tanto che il critico sardo che protestò per le presunte offese contenute nel film, sembra volerla coinvolgerla nella polemica, come accadrà appunto quando uscirà sugli schermi Cenere, proiettato a Cagliari qualche anno dopo e accolto con gli stessi commenti polemici.
Un esempio di questo ipotetico, ma abbastanza convincente, polo attrattivo preletterario ma certamente culturale e antropologico, è Marcella di Carmine Gallone.

Il film è infatti ispirato ai racconti di Tommasina Guidi, una scrittrice emiliana, le cui trame si svolgono tra residenze nobiliari e cittadine borghesi, e la cui geografia si spinge al massimo fino a Napoli. L’idea di trasferire il racconto nell’isola venne a Gallone e alla moglie Soava, interprete del film, ed è curioso scoprire che il soggetto assomiglia a Cenere in versione “rosa” (sino alla fine dell’Ottocento, la Guidi fu una delle maggiori specialiste del genere) quasi che il percorso che dalla Deledda porta al romanzo d’appendice – divisi da un filo, come si è già scritto – fosse facilmente reversibile e geograficamente adattabile.
Ancora più rilevante è il fatto che la pretesa uniformità degli scenari isolani riguardò principalmente gli sguardi esterni. Infatti, due delle sette pellicole del decennio furono prodotte in Sardegna, e precisamente a Cagliari: si tratta di Alba serena in un tramonto di sangue e di Il richiamo della terra. Una di queste (Alba Serena in un tramonto di sangue) ha una tematica abbastanza simile agli scenari piccoli borghesi e urbani che dominavano il cinema italiano, mentre il secondo titolo, Il richiamo della terra, di cui non si conoscono né i nomi dei soggettisti, né quelli degli sceneggiatori, richiama invece, anche nella trama, l’altro soggetto deleddiano andato perduto, Il fascino della terra.
E questa volta i temi – il cui centro è il perenne contrasto tra città e campagna, tra la voglia di fuggire, affrontando la corruzione morale provocata dalla metropoli, e un ritorno a casa inteso come rinascita
spirituale – appartengono indubitabilmente al mondo della scrittrice, sia pure corretti da uno sguardo che metteva in evidenza la prima grande trasformazione modernista della Sardegna: la diga del Tirso e i territori di Abbasanta e Ghilarza beneficiari dell’acqua che avrebbe portato alla radicale e benefica trasformazione di quelle campagne.
Si può dunque ipotizzare una mediazione, che non poteva dipendere solo dalla propaganda fascista, allora ai primi passi, tra la Sardegna tradizionale e quella in cammino verso la modernità, diversa e parallela rispetto ai segni estetico-scenografici che si ritroveranno pochi anni dopo in La Grazia (1929).

Su questi dettagli, che riguardano una sorta di “scarto della norma” rispetto all’immagine già stereotipata della Sardegna, si potrebbe ricamare a lungo mettendo in luce anche la prima aperta ostilità dell’intellettualità regionale nei confronti della scrittrice, già evidenziata tra le righe degli articoli cagliaritani su In terra sarda e Cenere.
Oppure sottolineando la volontà del capoluogo di diversificare la propria immagine, respingendo una tradizione regionale largamente diffusa attraverso le immagini della “wilderness” pastorale e folclorica. Dopotutto, nella prima metà degli anni Venti, resisteva ancora, nel cinema italiano, una pluralità produttiva che permetteva anche al capoluogo sardo di seguire una propria strada, dimostrata appunto dalla vicenda del cagliaritano Mario Celada, regista di Alba Serena in un tramonto di sangue, dal celebre tenore-cantante Piero Schiavazzi, una sorta di divo sardo che interpretò Il richiamo della terra (1928) di Giovannino Bisssi, e da qualche “strillo” della stampa locale.
In uno di questi si annunciava la storia di un certo Pintor che, nel 1923, forte di un’esperienza maturata «nell’ambiente artistico di Torino», assume l’incarico di direttore artistico di una neonata casa di produzione cagliaritana che avrà il compito di «inscenare, nella sua isola prediletta, i quadri viventi di vita sarda che poi saranno lanciati nel mondo».
Nelle uniche due pellicole oggi visibili, Cainà e La Grazia, apparse all’inizio e alla fine del decennio, si possono altresì verificare le risultanze concrete di questo immaginario cinematografico, dipendente, direttamente o meno, dai romanzi della scrittrice.
Come già era accaduto, appena un anno prima, con il film di Borgnetto, anche per Cainà la testimonianza documentaria non può essere disgiunta dall’analisi dell’opera, per fortuna finalmente visibile.
Lo spunto iniziale di Cainà è infatti inquadrabile in un catalogo piuttosto ampio di “costruttori” di immaginario collettivo: in primo luogo i viaggiatori otto/novecenteschi, quindi i cronisti e i geografi e, infine, gli scrittori, in primo luogo la Deledda, che sembra davvero un modello formale e tematico del film.

Dopotutto, la struttura narrativa si sviluppa abilmente attraverso un lento e inesorabile avvicinamento alla tragedia. Dopo un preambolo che mostra i reperti di una civiltà perduta (la didascalia parla apertamente di decadenza, mentre vengono ripresi il grande nuraghe ormai “disfatto” dal tempo e i ruderi di un castello medioevale), ci sono alcuni momenti lirici (Cainà sulla cima dei monti che corre libera con il suo cavallo); quindi i primi contrasti familiari e, immediatamente dopo, un’altra sottolineatura della diversità della protagonista: di nuovo sola, sulla montagna, con le sue capre.
L’entrata in scena del corteggiatore di Cainà, Agostineddu, chiarisce il carattere della protagonista: lei dichiara di voler partire, quindi si bagna in una pozza d’acqua e gli effetti luminosi del sole e dell’acqua introducono una sorta di simbologia romantica.
L’arrivo nella baia di una nave fa da cesura alla storia: l’incontro tra due diversità estreme è introdotta dall’osservazione/descrizione delle due comunità nel momento del riposo. I marinai raccontano storie esotiche, viaggi, paesi lontani (e le immagini mostrano un paesaggio dell’Asia), mentre i vecchi del paese ricordano mitiche battute di caccia.
L’allegoria degli estremi che s’incontrano provvisoriamente e pacificamente, è chiarissima e prosegue nel più bel momento del film, la festa, alla quale sono invitati anche i marinai. questa pausa pseudo documentaria è essenziale per sottolineare proprio la diversità ambientale che diviene, in questo modo, anche tematica.
Infine, la fuga della “caprara” e i due grandi momenti melodrammatici (la seduzione durante la tempesta e quindi la successiva scena d’amore nella casa del capitano) comuni a gran parte del cinema dell’epoca, aprono la strada alla tragedia finale.
È proprio questo inevitabile fallimento della voglia di libertà della protagonista a far risaltare alcuni capisaldi della letteratura deleddiana: alla comunità pacifica, ospitale, serena, in cui il tempo scorre lentamente e nulla turba i suoi accadimenti quasi rituali, fa da contraltare non solo il desiderio di fuga di Cainà, ma anche l’incalzare della modernità, cioè gli scambi, le comunicazioni.

Ancora una volta, dal mare arrivano i pericoli, magari semplicemente con una barca che si è rifugiata nella baia dopo una traversata difficoltosa. Quella barca è appunto l’occasione di fuga per la ragazza e, conseguentemente, il momento di “rottura dell’equilibrio”: una situazione che, dalla mitologia comunitaria ci riporta al melodramma.
Il resto della storia è anche più tipico: il continente non è una terra di delizie, ma il ritorno a casa, per sanare la ferita inferta con la fuga, è impossibile. L’unico modo di espiare la colpa è la morte, anche se la narrazione ci ha già mostrato che non sarà più possibile ritrovare la serenità per coloro che sono rimasti a presidiare la vecchia comunità. Pochi altri film sardi hanno scavato a fondo sulla modernità come Moloch disgregatore.
L’ipotesi che l’influenza deleddiana sia stata decisiva nell’elaborare la storia non è un azzardo, soprattutto avendo in mente che la soggettista era una donna. E non si tratta di un deleddismo superficiale, orecchiato per moda intellettuale e salottiera o per il bisogno, di cui si è già detto, di fare propria la materia prima dei romanzi della scrittrice per avere la chiave d’accesso all’isola incognita. Cainà rispetta infatti non solo le principali tematiche, ma anche quel lento e inevitabile disfarsi delle sicurezze, quell’avvicinamento al lutto, fatto di tappe prefissate. La ribellione della giovane sognatrice non cambia il mondo comunitario, lo distrugge. Si potrebbe dire che, senza le scene forzatamente melodrammatiche della fuga e della vita in continente, il riassunto dettagliato del film potrebbe essere davvero collocato in una raccolta di novelle deleddiane.
Si può aggiungere che anche quella sorta di mimetizzazione degli attori professionisti entro i quadri ambientali dominati da figuranti locali funziona alla perfezione: persino Maria Jacobini, in molte “pose” – escluse quelle più propriamente melodrammatiche della seconda parte – sembra cosciente che in un contesto di quel genere la recitazione debba piuttosto sottrarre che aggiungere, accennare più che gesticolare.
Il risultato finale di questa commistione tra tipicità e documento è necessariamente totalizzante: una certa idea di Sardegna valida come messaggio da consegnare non solo oltre Tirreno, ma anche a noi stessi, che abbiamo spesso assorbito letture e descrizioni esterne della nostra storia e della nostra cultura.

Le verifiche di questa impostazione si possono fare sia sul corpo del film, sia sui retroscena della lavorazione, a suo modo un avvenimento che si sovrappone alle stesse immagini per diventare un altro racconto sulla Sardegna.
Si potrebbe cominciare dal titolo, Cainà. Secondo il ricercatore Simone Sanna, che ha raccolto appunto le testimonianze delle poche persone ancora in vita che seguirono la lavorazione del film, quell’accento fu una deformazione continentale. Durante le riprese il nome era Caina, abbreviazione di Gavina o forse simbolo del tradimento della ragazza nei confronti della comunità.
Questa piccola digressione vale solo come esempio di un ricordo collettivo. Più importanti sono altri riconoscimenti ed altre verifiche: lo stesso giovane ricercatore ha finalmente svelato il mistero di quella chiesa campestre, in collina, che assomiglia ad una delle tante basiliche romaniche del nord Sardegna. Ebbene, è semplicemente la parrocchiale di Bortigiadas, un paese che dista pochi chilometri da Aggius. C’è poi un documento: una poesia di un poeta locale, Pietro Tansu, «Pedru s’azzesu», che pubblicizzava la prima di Cainà al cinema Grimaldi di Tempio, nell’autunno del 1922.
E ancora, ecco la ricostruzione di una vicenda reale che si affianca e si sovrappone al romanzesco del film: Maria Jacobini s’invaghì o si affezionò ad una comparsa, Mattea Addis, giovanissima e bella. La volle accanto a sé nel film e cercò di persuaderla a seguirla a Roma per intraprendere, sotto la sua protezione, la carriera cinematografica. Ma, vuoi per le pressioni della famiglia di lei, vuoi perché la realtà non coincide quasi mai con la finzione (Mattea Addis insomma non era Cainà), la ragazza rimase ad Aggius. Si sposò, ebbe dei figli e dei nipoti che oggi raccontano serenamente questa storia.

Infine, lo stesso Sanna fa una serie di osservazioni su quella che è giustamente considerata la scena più interessante di tutto il film, la festa, riconoscendovi passi di danza specifici della Gallura, rafforzando l’idea che la sempre deprecata “virtualità” della Sardegna cinematografica porti con sé, tuttavia, riscontri etnografici che vanno al di là del fatto che nel film non si vedono né le case in “ladiri” del Campidano né la “pinneta” del pastore barbaricino.
Insomma, il “puzzle” ambientale e paesaggistico costruisce semplicemente un minimo comune denominatore descrittivo sottoposto in maniera ferrea alle esigenze produttive della macchina cinema, il cui compito sembra essere quello di sintetizzare, in epoca di scarse comunicazioni di massa, caratteristiche e specificità di un mondo lontano.
Mettendo tra parentesi la vita continentale di Cainà (che però può essere accostata ai viaggi/fughe nel continente di Cenere e di Canne al vento) anche la trama di questo film potrebbe benissimo essere collocata in una raccolta di novelle deleddiane.
Invece La Grazia, unico film di quegli anni direttamente tratto da una novella della scrittrice, è un curioso esempio di commistione formale e stilistica che, pur attraversando quasi tutti i luoghi canonici del suo universo letterario (storie d’amore melodrammatiche, paesaggi aspri e selvaggi, comunità chiuse “penetrate” dallo straniero, agnizioni e punizioni riparatrici), finisce per essere completamente depurata dall’esigenza di restituire al pubblico una Sardegna “dal vero”.

Il primo passo di questa trasformazione anti realista avvenne non a caso in teatro. La novella Di notte, opera giovanile e piuttosto acerba della scrittrice, venne rappresentata nel 1923 al Teatro Costanzi di Roma con le scenografie del celebre pittore e illustratore Giuseppe Biasi, a cui la Deledda, sua amica e ammiratrice, non lesinò consigli. Cinque anni dopo La Grazia divenne un film, diretto da Aldo De Benedetti, quasi interamente girato in studio (ma non certo teatrale sul piano della regia) le cui scenografie, non molto diverse da quelle di Biasi, furono affidate a Melkiorre Melis, anch’esso sardo, nativo di Bosa, affermato illustratore in campo nazionale.
Un’analisi anche superficiale del film, soprattutto in relazione alla novella e al testo teatrale, consente di verificar non solo il processo esplicito di illustrazione folclorica, ma l’evidenza di un “altrove” tipicamente esotico che non ha più bisogno di una rappresentazione realista dell’isola e dei suoi “topoi”: li trova già tradotti in un campionario di bozzetti, ai quali attinge senza preoccuparsi di confrontarli con il preletterario.
La Grazia occupa dunque un posto particolare nella filmografia deleddiana. È infatti il primo e unico titolo che si distacca dal realismo ambientale, cioè dall’equivalenza tra Sardegna letteraria e Sardegna geografica-antropologica, per costruire un mondo espressivo che si configura come un altrove totalmente teatrale e scenografico
Il riferimento primario è ovviamente la novella Di notte, pubblicata nel 1894; un testo che si iscrive nella prima stagione letteraria della Deledda e che riflette sia il suo quasi esclusivo interesse per i temi regionali, sia il cordone ombelicale con la letteratura europea dell’Ottocento, prevalentemente d’appendice ma già tesa verso modelli di scrittura più elevati.
È un testo stilisticamente e formalmente acerbo, però estremamente curioso: fatta la scrematura di tutti i momenti orrorifici (non rari nella prima stagione deleddiana) che paiono ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe, mostra comunque un alto grado di visività. Ma soprattutto, nella struttura, prevale una sorta di racconto a spirale con un “flash back” iniziale ed un successivo e lungo intervallo temporale tra gli eventi principali.

Ma quel che ci interessa in questa sede è ovviamente il modo specifico in cui la novella arriva in palcoscenico. Difatti la traduzione scenica riallinea la narrazione al presente, secondo le tradizionali unità di luogo, tempo e azione. Nella prima scena la protagonista è Simona, già madre della piccola Gabina (sic!), che lamenta la sua condizione di vedova e la malattia della figlia. Il suo uomo, Elias, è scomparso senza lasciare traccia molti anni prima. Lei lo crede morto e lo piange. Ma Tanu, il fratello, sopraggiunge e racconta che Elias è stato rintracciato a Orlai, vivo, in compagnia di Cosema, donna bella e ricca, di cui è il “ganzo”. Simona giura vendetta mentre i fratelli partono per catturare il traditore.
Il secondo atto, incentrato soprattutto sulla cattura di Elias, si svolge nelle campagne di Orlai, in un
santuario, durante la festa della Madonna della Neve, tra canti e balli, processioni e allegre bevute. Infine nel terzo ed ultimo atto, la scena è di nuovo la cucina della casa di Simona, nella quale si svolge il processo, conclusosi con la resurrezione di Gabina, già considerata morta: la “grazia” riconcilierà
gli animi e placherà i propositi di vendetta.
Gli antefatti – il rapporto tra Simona ed Elias, e poi tra questi e Cosema – sono ovviamente esplicitati in forma di arie e recitativi, secondo i canoni del teatro lirico.
Se mettiamo assieme i tre elementi dello spettacolo – la descrizione/traduzione del mondo sardo da parte della Deledda, la rappresentazione/falsificazione della musica tradizionale, l’elaborazione dei segni grafici tratti dal mondo rurale – abbiamo di fronte una cosciente operazione di museificazione modernista della cultura popolare sarda, probabile punto di partenza per altre operazioni meno legate allo spettacolo, ma semmai all’artigianato artistico, al recupero del folclore.
Questo immaginario locale sarà facilmente esportato grazie a personaggi come Gavino Gabriel – che dieci anni dopo filmò, in Quadri di Sardegna, una Gallura arcadica, scenicamente e musicalmente, (1932) – Eugenio Tavolara e Stefano Siglienti, che producevano in serie le famose bambole sarde.

Nel 1929, non a caso, questi materiali furono alla base del film diretto da Aldo De Benedetti, ad eccezione della musica, naturalmente, che però sarebbe stata di grande importanza per un’opera che, in Italia, chiuse la stagione del muto.
Ma le varianti sono altrettanto importanti delle equivalenze sceniche e narrative. Ad esempio, nell’impostare la sceneggiatura, gli autori sono ben consapevoli che gli sviluppi della narrativa deleddiana avevano via via eliminato molte di quelle suggestioni mutuate dal romanzo d’appendice
europeo, aggiornando e arricchendo il suo repertorio.
Un tratto deleddiano che, pur non esistendo nel racconto e nel libretto, riguarda ad esempio la figura di Elias, semplice pastore nella novella (e non ben definito nel testo teatrale) ma straniero nel film, arrivato in paese per prendere possesso di alcuni terreni ereditati da una zia. Dunque, in qualche modo invasore che viene da un paese vicino al mare ed eversore, suo malgrado, della comunità nella quale viene ospitato.
Attraverso questi cambiamenti, oltretutto, si dà vita ad un dualismo netto (comunità chiusa e stranieri), riaffermato poi da un’altra ben più rilevante dicotomia: Elias viene salvato, accudito e amato non già da una semplice ragazza di Fonni, gelosa del primo amore, ma da una sorta di maliarda che vive in un’abitazione da favola, separata dal resto del paese, caratterizzata da ambienti, arredamenti e vestiti da capitale europea, con servitori vestiti in costume sardo, guidati però da un maggiordomo in “frac” che assomiglia a Eric Von Stroheim. Insomma un altrove che segna ulteriormente il distacco tra i due mondi, entrambi però, fortemente contaminati, anzi volutamente falsificati.

La radice di questa rielaborazione può essere raccordata all’Esposizione di Parigi del 1925 che lanciò
l’art dèco, attribuendo nel contempo un grande successo, anche commerciale, ai “pupazzi sardi” di Tavolara che vennero premiati e segnalati dalla stampa internazionale.
Accanto all’art-deco, nella dimora della donna fatale, c‘è però anche o ancora il dominio dell’espressionismo architettonico: porte e finestre sghembe, scale a chiocciola e tutto le altre distorsioni scenografiche di quel movimento.
Con La Grazia si chiude la prima breve stagione di un cinema “sardo”. Siamo nel 1929 e, a partire dagli anni Trenta, ha inizio una cosciente e progressiva cancellazione della tradizione regionale da parte del fascismo che non sarà priva di contraddizioni. Moltissimi furono i documentari girati nell’isola, quasi tutti a carattere propagandistico, ma a parte Oro Nero (1942), che contiene solo qualche inserto girato nell’isola, nessun altro film a soggetto fu dedicato alla Sardegna fino al 1943, quando il regista Esodo Pratelli iniziò a girare un rifacimento proprio de La Grazia, avendo a disposizione un cast piuttosto prestigioso se non divistico: Amedeo Nazzari, Lidia Baarova, Luisa Ferida, Paolo Stoppa. Ma la lavorazione fu interrotta il 25 luglio, giorno della caduta di Mussolini, e mai più ripresa a causa della situazione caotica della capitale e della sua industria cinematografica. Tecnici, registi e attori si trovarono a dover scegliere tra il nuovo centro cinematografico della Repubblica di Salò, sorto a Venezia, e la fedeltà al Regno d’Italia.
Solo alla fine della guerra le trame deleddiane riappariranno sugli schermi cinematografici e poi televisivi.

I film del dopoguerra e le vecchie/nuove chiavi d’accesso alla Sardegna attraverso i romanzi deleddiani

Il primo film italiano del dopoguerra ispirato alla letteratura deleddiana è Le vie del peccato di Giorgio Pàstina, prodotto e girato a cavallo tra il 1945 e il 1946 e uscito nelle sale alla fine di quello stesso anno. Tratto dalla novella Dramma – pubblicata in una raccolta del 1916, Il fanciullo nascosto – non ha, come del resto il testo letterario, alcun elemento di caratterizzazione regionale e certo non è stato girato in Sardegna.
La ricomparsa sugli schermi della scrittrice può essere letta in diversi modi. Da un lato la ripresa di un discorso, interrotto negli anni del muto, che aveva utilizzato i suoi racconti e romanzi come occasione per esplorare la Sardegna dal vero o, per contrasto, attraverso una matrice figurativo/antropologica fortemente manipolata.
Dall’altro l’omologazione delle sue trame, apparentemente senza tempo, al cinema popolare attraverso caratterizzazioni inedite, nuovi personaggi, paesaggi carichi di suggestione, colori e suoni che si affiancavano ad altri e più conosciuti scenari folclorico/antropologici che il fascismo aveva tentato invano di cancellare. In tal modo si finiva per replicare, diversificandolo, il doppio e parallelo percorso delle trame deleddiane nei primi vent’anni di cinema “sardo”.

Il nuovo contenitore nazionale del “deleddismo”, dopo quello decisamente “d’appendice” degli anni Venti, divenne il meridionalismo, fenomeno denso e variegato, a cui collaborarono sceneggiatori e registi famosi: Germi, De Santis, Monicelli, Zampa, Lattuada, Coletti, Brancati, Cecchi, Castellani, Rosi, Soldati, Age, Scarpelli, giusto per citare i più celebri.
La differenziazione tra i prodotti risentiva sia delle personalità degli sceneggiatori e dei registi – dopotutto il meridionalismo più esplicito si ritrova ne La terra trema viscontiana, film che non appartiene ad alcun genere pur essendo ispirato a I Malavoglia – sia del clima politico culturale post bellico.
Ma pure, dopo il successo e l’ampio dibattito che seguì alla presentazione di In nome della legge (1949) di Pietro Germi, prima pellicola italiana in cui veniva “usata” la parola Mafia, con tutta l’ambiguità della definizione (consorteria di criminali o garanti dell’ordine sociale?), fu lo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano a inventare il termine “southern”, identificando nel meridionalismo filmico di quegli anni l’equivalente del western americano.
Vi era, insomma, un’ampia gamma di riferimenti in cui trovavano spazio non solo i film “western” alla siciliana (come nel già citato In nome della legge, appunto), ma anche i “calligrafismi” d’ante guerra e soprattutto le esigenze neorealiste di raccontare il mondo contadino con un approccio formale e stilistico adatto ai tempi di rinnovamento e di messa in scena dell’Italia invisibile: scenari dal vero, coinvolgimento della popolazione locale, ricerca di problematiche che dal letterario s’indirizzassero verso l’attualità e la denuncia della miseria della popolazione e dei rapporti sociali semi feudali, magari all’interno di scenari quasi comici, ad esempio in Il medico e lo stregone di Monicelli, che sembra un “ricalco” ironico di Cristo si è fermato a Eboli di Levi.

Dunque, i film deleddiani del dopoguerra appartengono agli stessi sottogeneri e alle stesse costanti stilistiche di Il lupo della Sila (1948) di Coletti, Non c’è pace tra gli ulivi (1948) di De Santis, Donne e briganti (1950) di Mario Soldati, Il brigante Musolino (1950) di Mario Camerini, Due soldi di speranza (1951) di Castellani, Il brigante di tacca del lupo (1952) di Germi, Processo alla città (1952) di Zampa, La lupa (1953) di Lattuada, per citare solo i più noti o semplicemente nobilitati da firme prestigiose.
Le vie del peccato, ad esempio, innestato su un racconto scarno e puramente evocativo, è totalmente
immerso nel “calligrafismo”. Girato in esterni – secondo un quotidiano dell’epoca, in Abruzzo – il film non può essere assimilato, in alcun modo, al neorealismo (basterebbe la lista degli attori, quasi tutti provenienti dal cinema teatral-letterario dell’anteguerra, a smentire ogni possibile parentela), eppure anche in questo caso fa capolino esplicitamente il bisogno di rendere verosimili, quando non autentici, i contorni geografici e sociali dell’Italia minore.
La novella a cui è ispirato il film è una teatralizzazione a due voci – quella tra Ilaria e Mattia – con l’aggiunta del prete e di un coro, costituito dagli avventori della “Rivendita”, come viene chiamata l’osteria della bella e intoccabile Ilaria.
Attraverso il discorso indiretto si raccontano gli antecedenti del dramma – la condanna per omicidio del marito di Ilaria – la posizione di Mattia, non giovane scapestrato ma semplicemente orfano senza una lira e poi amante della protagonista. I dialoghi, infine, chiariscono la presenza della moglie e della suocera di Mattia, cioè la figlia e la vedova dell’ucciso, che si oppongono alla richiesta di grazia che farebbe scarcerare il condannato.
Quando ciò avviene, Mattia si limita a lasciare sola Ilaria nella sua disperazione, ritornando a casa dalla moglie che nel frattempo,con la morte della madre, ne ha ereditato le proprietà.

Il racconto si chiude senza ulteriori sviluppi del dramma. Continuerà la catena di delitti d’amore e di gelosia?
L’unica caratterizzazione sarda dello scritto è la richiesta di Mattia di avere del vino di Oliena, puntualmente ripresa dal film. Un ulteriore legame con la Sardegna (o con la Deledda) sono i cognomi di due protagonisti: Rocco Satta, il marito di Ilaria, e Sebastiano Pinna, l’ucciso.
La chiave della riduzione cinematografica sta dunque, da un lato, nell’assenza di ambientazioni specifiche e riconoscibili; dall’altro nella possibilità di romanzare, con fatti precisi, visibili, tutto il “non mostrato e non descritto” della novella. Cioè di esercitarsi in un “calligrafismo” che non imita il referente letterario ma cerca una propria cifra formale e stilistica in grado di competere esteticamente con la scrittura alla quale si ispira.
L’omologazione del racconto deleddiano ad un generico “meridionalismo” conferma che le trame dei suoi racconti e romanzi contengono molta letteratura popolare facilmente “travasabile” in altri contesti geografici e dunque facilmente sfruttabili anche da una cinematografia non semplicemente esotico-esplorativa, come era stata quella “realista” della prima metà degli anni Venti.
Poiché il film uscì nell’autunno del 1946 ed è stato sicuramente progettato prima della fine della guerra, è facile ipotizzare un protrarsi delle precedenti esperienze di trasposizione letteraria alle quali lo stesso Pàstina aveva partecipato.
Calligrafiche – nel senso migliore del termine – sono certamente la costruzione narrativa, basata su ellissi temporali specificamente indicate da oggetti (i segni di croce nel muro che contano gli anni di prigione di Rocco, i fogli del cancelliere e poi del giudice) e le volute metonimie: la morte di Sebastiano è segnata da uno sparo, quella di Ilaria da un fazzoletto che galleggia nel pozzo.
Inoltre una forte simbologia visiva espressionista domina la fotografia: non solo la prigione di Rocco è animata dalle ombre delle sbarre, ma il paese, e soprattutto la taverna, vengono connotate come delle vere prigioni in cui è rinchiusa la protagonista. E ancora, l’alleggerimento del dramma è costruito su nuovi personaggi, al limite del comico: la suocera di Mattia è una cattiva da opera buffa (e muore in una sequenza al limite del comico), il notaio sembra un personaggio rossiniano.

Infine, la grande novità del film è il rendere esplicita – nei limiti del “comune senso del pudore”, cioè della censura – la sensualità della protagonista, che si scopre ancora bella, a dieci anni dalla “vedovanza bianca”, guardandosi allo specchio, nuda, dopo essere stata corteggiata per la prima volta da Mattia. A questa sequenza segue la trappola che Mattia organizza ai danni della suocera: farsi trovare assieme a Ilaria, seminuda, nella propria casa, mentre fa all’amore. Stando alle poche critiche disponibili, suscitò qualche scandalo e fu definita oscena.
Benché oggi risulti tra le migliori – pur infedeli – trasposizioni dalla Deledda, la pellicola passò quasi inosservata in Sardegna (a Cagliari uscì, con poco clamore, il 19 marzo 1947) e non viene quasi mai menzionata nei saggi e nei numerosi articoli sul cinema deleddiano apparsi sulla stampa regionale a partire dagli anni Cinquanta.
A Le vie del peccato seguirono, nell’arco di otto anni, diversi titoli, questa volta programmaticamente
girati in Sardegna con l’intento di cercare e facilmente trovare un legame tra il mondo della scrittrice e l’isola, che si supponeva ancora ricca di quei segni preletterari arcaicizzanti che avevano contribuito al suo successo.
Alcuni furono direttamente ispirati a romanzi famosi, altri, pur senza espliciti riferimenti ai suoi testi, rimasero ancorati ad una descrizione/ambientazione regionale segnata dalla sua influenza. Altri ancora utilizzarono gli stessi segni del passato per raccontare non già la Sardegna di ieri ma piuttosto quella del dopoguerra.

Un film pienamente inseribile nel genere meridionalista è, ad esempio, L’Edera (1950) di Augusto Genina, tratto dall’omonimo romanzo, certo più famoso (e dunque riconoscibile anche nei suoi tratti regionali) rispetto alla novella Dramma.
Inoltre la personalità del regista, che veniva da una lunga e prestigiosa carriera negli anni del fascismo, la consulenza dello studioso Emilio Cecchi, amico e “protettore” della Deledda fin dagli anni Trenta, nonché la scelta degli attori (Roldano Lupi, Juan De Landa, Franca Marzi, Gualtiero Tumiati, Nino Pavese Peppino Spadaro), certificano quasi automaticamente una sorta di ponte tra il prima e il dopo la guerra. Unica eccezione fu la presenza, nel ruolo di Annesa, di Columba Dominguez, moglie del celebre regista messicano Emilio Fernandez: una bellissima donna bruna, evidentemente diversa dal “pilu brundu” (cioè bionda) che era stato affibbiato come sopranome alla serva divenuta amante di Paulu.
Genina era stato, l’anno prima, anche l’autore di Cielo sulla palude (1949), un film “cristianissimo”, dedicato all’assassinio di Maria Goretti e promosso dallo stesso Pio XII.
Ambientato tra Otto e Novecento nelle paludi pontine, il film fu realizzato cercando una sintonia – magari eccessivamente estetizzante – con il neorealismo: luoghi reali, interpreti presi dalla strada.
Tracce di questa mediazione permangono in L’Edera, girato l’anno seguente tra Nuoro e Oliena, ancorato saldamente ad ambienti e caratterizzazioni sarde che si saldano all’universalizzazione del modello “southern”, per citare di nuovo Flaiano. Meridionalista è, ad esempio, la casa della famiglia De Cherchi (generica aristocrazia contadina, visibile in ogni titolo italiano o europeo dell’epoca) o l’osteria di Zana, un ambiente già da taverna western.
Ma anche le bellissime sequenze iniziali, girate proprio a Oliena, “sardissime” per le atmosfere di silenzio sospetto e paura, sono omologabili ad ogni scena meridionale, anche questa storicamente archetipica, in cui si mostrano gli ufficiali giudiziari vestiti in borghese che vengono dalla città a certificare la fine della vecchia aristocrazia agraria, rappresenta dalla famiglia Decherchi – un tempo tra le più ricche del paese – che oggi si trova in grandi difficoltà finanziarie, soprattutto a causa della vita dispendiosa e improduttiva del figlio maggiore, Paulu.

Un vecchio zio, Zuà, ospite dei Decherchi, gravemente ammalato, potrebbe salvarli dall’imminente rovina ma invece non fa altro che rimproverarli per la loro imprevidenza e per gli sprechi di Paulu, quasi provasse piacere ad assistere alla decadenza della famiglia.
Un giorno Annesa, provocata dal vecchio, lo soffoca con una coperta, credendo così di mettere fine alle difficoltà della famiglia. Sospettata di aver ucciso Zuà per l’eredità, l’intera famiglia viene arrestata e Annesa fugge dopo aver confessato il suo delitto ad un sacerdote.
Quando sta per costituirsi, apprende però che il medico ha dichiarato che il vecchio è morto per cause naturali. Rimessi in libertà i Decherchi e risolti i problemi finanziari, Paulu vorrebbe sposare Annesa, ma questa, consigliata dal sacerdote, decide di ritirarsi in un luogo di pace per espiare le sue colpe. Durante il viaggio in carrozza, Paulu, però, la raggiunge e la porta via con sé.
Rispetto all’edizione del film reperibile alla Cineteca Nazionale e più volte trasmessa in tv, il primo montaggio, oltre a non avere il sottotitolo Delitto per amore, che difatti non compare neanche nelle recensioni dell’epoca, si chiudeva con Annesa che lasciava il paese, senza ulteriori sviluppi. Entrambi i finali sono, com’è noto, molto differenti dalla chiusa amarissima del romanzo nel quale i due amanti riusciranno a vivere insieme dopo anni di separazione, ma ormai anziani e con l’ombra del delitto che si sovrappone al loro legame.
Le variazioni rispetto al testo letterario possono essere interpretate da una lato come una costante melodrammatica innestata spesso nel corpo del “neorealismo” e fortemente gradita ai produttori; dall’altro in chiave religiosa, visto che, come si è già scritto, Genina era reduce dalla glorificazione di Santa Maria Goretti in Cielo sulla palude.

Rivedendo oggi le prime sequenze del film – ed altre quasi documentarie, relative alla vita del paese, ai suoi vicoli, alle case di pietra calcarea, ai pastori e alle greggi che invadono ogni spazio – con quel paese solitario, chiuso e immobile (Oliena), mentre dalle finestre socchiuse la gente spia in silenzio il destino della famiglia un tempo potente, non si può fare a meno di ritrovare proprio il grande senso visivo della Deledda, il suo decadente pessimismo, la fine dell’aristocrazia padronale descritta anche in altri romanzi.
Insomma, c’è la Sardegna, quella deleddiana e quella reale di fine Ottocento, ma anche, irritualmente,
il ricorso ad atmosfere da autentico “noir”: la sequenza chiave del film è infatti la “dilatazione” estrema della scena del delitto, costruito con la giustapposizione del sogno di Annesa (il vecchio e i suoi tesori inavvicinabili), la preoccupazione per la sorte di Paulu, la provocazione di Zuà che irride al suo amore e che scatenerà il gesto omicida.
Quanto alla drammaturgia generale, oltre a qualche “omissione” importante (la bambina malata di Paulu, un segno tragico che pervade il romanzo fin dalle prime pagine), già nella corsa dei cavalli e poi nei duetti amorosi tra Annesa e Paulu e ancora nei lunghi dialoghi in famiglia, il film entra a pieno titolo in quel generico cinema meridionalista che, come si è già scritto, coniugava la rivoluzione neorealista (luoghi reali, ricerca di marginalità extra urbane) con i modelli filmici consolidati e con una recitazione asettica (sia pure di grande professionalità), in qualche modo teatrale. La stessa che poi darà vita ai celebri sceneggiati televisivi.
La Deledda non era più solo la chiave d’accesso alla realtà sarda, ma anche una buona soggettista per il cinema meridionalista, drammatico e sentimentale, come già aveva dimostrato Le vie del peccato.

D’altro canto, la vocazione extra regionale della scrittrice, documentata dal successo delle sue traduzioni in decine di paesi e di lingue, fu confermata anche dal film, che ebbe un buon successo di pubblico in Italia e fu poi esportato in Europa, negli Usa e in Sudamerica.
In generale, sia la stampa nazionale che quella locale, si occuparono ampiamente del film, mettendo in luce sia il rapporto con il romanzo e dunque i tradimenti rispetto al testo letterario, sia – in ambito locale – riprendendo per l’ennesima volta, e in maniera ampia, come non accadrà più, almeno fino alle polemiche su Padre Padrone (1977), la presunta “falsificazione” del mondo sardo da parte del cinematografo, anche nei film prestigiosi come L’Edera, appunto. Insomma, non si può non notare che questo fu il primo dibattito “alto” che riguardò un film di ambiente e tematiche sarde.
Il terzo film deleddiano post-bellico è Amore Rosso (1952) di Aldo Vergano, peraltro sceneggiato da Giorgio Pàstina e basato sul romanzo Marianna Sirca: il film più modesto della serie, nonostante una ambientazione gallurese molto suggestiva e alcune riuscite caratterizzazioni, soprattutto il bandito Bantine Fera e il padre di Marianna.
Avrebbe dovuto essere girato dal più famoso Giuseppe De Santis, neorealista della prim’ora e teorizzatore di un’“americanizzazione” spettacolare delle componenti sociali, storiche e cronachistiche del cinema italiano. E forse il prefinale, con “il duello al sole” dove tutti i principali protagonisti si uccidono tra loro, si deve proprio ad una forzata sintonia con il cinema hollywoodiano.
Il richiamo al film di King Vidor, uscito nel 1947 con grande clamore e qualche scandalo, non sembra casuale: rende evidente la traccia proprio di quel sottogenere cinematografico che, a furia di slittamenti (dal calligrafismo al realismo e poi al melodramma avventuroso), finisce per tentare un trapianto del western in terra italiana.
Difatti in un altro titolo, forse il più celebre tra quelli che si ispirano alla Deledda, Proibito (1955), Giampiero Brunetta ritrova le stesse tracce: «è un film – scrive – che rivela un […] tentativo di creare in Sardegna un western di grande respiro epico, non immemore del ricordo di La croce di fuoco di John Ford».

Proibito ha, in ogni caso, una storia produttiva piuttosto interessante, sia per la ricostruzione del cinema italiano del dopoguerra, sia per lo stretto legame tra il mondo deleddiano e la Sardegna di quegli anni.
Fu progettato ben sei anni prima della sua effettiva realizzazione e, inizialmente, avrebbe dovuto essere una trasposizione di uno dei maggiori e più originali romanzi della Deledda, La madre, pubblicato nel 1919.
La prima traccia del progetto si trova in uno scritto di Dessì del 1949, appartenente all’archivio privato dello scrittore che, negli anni Novanta, è stato depositato all’Archivio del Novecento del Gabinetto Vieusseux, a Firenze, e successivamente catalogato per poter essere facilmente consultato dagli studiosi. È stato poi pubblicato dallo scrivente in un volume di inediti di Dessì per il cinema e la televisione dal titolo Nell’ombra che la lanterna proiettava sul muro (2011).
Nella pagina finale del dattiloscritto c’è una nota importante: “Scritta su ordinazione di L. Emmer (non se ne fece mai nulla, non presi un soldo)”.
È uno testo lungo e articolato, quasi un racconto, anche se è letterariamente appena abbozzato, e dunque può essere considerato un incrocio – non raro – tra le prime due fasi (soggetto e trattamento) delle elaborazioni puramente tecnico-letterarie che dovrebbero portare alla realizzazione del film vero e proprio.
All’interno del dattiloscritto vi sono alcune notazioni a penna, nelle quali Dessì dimostra la sua insoddisfazione per il proprio lavoro di adattamento ma anche per il romanzo deleddiano, che pure è tra i pochi apprezzati dallo scrittore di Villacidro.
Occorre anche aggiungere che già in questo primo adattamento c’è un ampliamento notevole degli eventi – anche legati alla criminalità barbaricina – che contornano la disperazione della madre per la storia d’amore tra il figlio prete e la donna.
Altre informazioni che si legano a questo prezioso documento sono ricavate da una lunga chiacchierata, puramente casuale, dello scrivente con il regista Luciano Emmer ospite del Centro Servizi Culturali della Società Umanitaria/Cineteca Sarda che, nel 2009, gli dedicò una retrospettiva.
Emmer portò con se un riversamento digitale di 8 minuti di pellicola: si vedono Marcello Mastroianni in tonaca sacerdotale che abbraccia la giovanissima Lucia Bosè, appena eletta Miss Italia e pronta per esordire nel cinema. Siamo ancora nel 1949: sul set di un film che non si farà mai o che si trasformerà, col tempo, proprio in Proibito di Monicelli.

Questa sequenza fu girata da Luciano Emmer, che dunque confermò ciò che aveva anticipato lo scritto di Giuseppe Dessì, di cui però nulla sapeva e che anche lo scrivente non aveva ancora ritrovato. La proposta di girare La madre gli arrivò infatti da Sergio Amidei, sceneggiatore di lungo corso che collaborò anche con Rossellini, nell’immediato dopoguerra, ma che nulla rivelò del coinvolgimento di Dessì al regista.

Infine Emmer ammise che, nonostante Lucia Bosè fosse un vero “broccolo” come attrice, lui era molto interessato al film deleddiano ma per ragioni che esulavano da qualsiasi passione letteraria.
Voleva infatti girare un film sulla Sardegna della sua adolescenza e dunque accolse con gioia la proposta. Aveva vissuto per diversi anni tra Mussolinia/Arborea e Cuglieri. Il padre era ingegnere e l’ingegner Dolcetta, suo amico, che aveva costruito qualche anno prima la diga sul Tirso, lo assunse per progettare la costruzione di Mussolinia, l’attuale Arborea.
Con la sua famiglia girò tutta la Sardegna, in auto ma soprattutto a cavallo e a dorso di mulo. L’emozione più grande, per un ragazzo di dodici anni, fu l’incontro con i banditi, vicino a Burgos. C’era una specie di guerra per i pascoli e alcuni malviventi avevano bloccato la strada con dei tronchi per catturare un loro nemico che si sapeva sarebbe passato di lì. Furono fermati, ma, riconosciuti come dei viaggiatori continentali (più o meno dei turisti), ebbero il via libera per proseguire.

Questa è la Sardegna che Emmer voleva raccontare attraverso la Deledda: Don Paulo sarebbe diventato un prete che si mette alla testa dei contadini poveri e dei pastori contro i “feudatari”.
Emmer chiuse la sua intervista, quasi nostalgica, affermando che poiché il romanzo aveva come protagonista un prete innamorato, il produttore si consultò con un gesuita che gli consigliò di abbandonare l’impresa: il progetto sarebbe stato censurato già prima di avviare la produzione.
In ogni caso vale la pena di riassumere il soggetto di Dessì, pubblicato integralmente nel volume citato. Suo primo lavoro per il cinema di finzione, è una “riscrittura” del romanzo che, in apparenza – tante sono le varianti rispetto al testo letterario – sembra in sintonia con la nota idiosincrasia di Dessì nei confronti della scrittrice nuorese. È però altrettanto vero che sia il nuovo sviluppo narrativo, sia la dimensione scenica, sono perfettamente in tono con i già citati film deleddiani del dopoguerra. E, considerata la datazione del soggetto di Dessì, 1949, ne anticipano gran parte dei motivi avventurosi e persino melodrammatici.
Il testo, letterariamente appena abbozzato, mantiene comunque un legame con la struttura del romanzo attraverso i due lunghi “flash-back” che contengono l’attesa della madre di Paulo per il ritorno del figlio dalla casa di Agnese, la sua amante. Attorno a questo nucleo centrale, ci sono però alcune digressioni narrative (uno di queste è la frequentazione di una prostituta da parte di Paulo, non ancora ordinato sacerdote) e diversi personaggi: la madre e il padre del giovane sacrista, Antioco; Nina Masia, la ragazza miracolata, segno del contrasto tra santità e impurità che convivono nel personaggio del prete; il fantasma del vecchio parroco, peccatore che viene ricordato come incarnazione demoniaca; e soprattutto il vecchio Nicodemo, un eremita fuggito dal paese per non essere preda degli istinti selvaggi, a cui Paulo, dopo un lungo cammino in montagna, porge l’estrema unzione, su richiesta dei parenti.

Un ulteriore modifica, piuttosto importante, riguarda lo stesso personaggio di Agnese, donna piacente, sola, ricca ma, nel romanzo, non più giovane, mentre nel soggetto di Dessì è ancora una ragazza.
Fedele all’obbligatorio folclore presente in tutti i film d’ambiente sardo di quegli anni, lo scrittore ce la presenta, all’arrivo di Paulo in paese, durante la festa del patrono, accanto al vecchio padre Nicodemo, ricco proprietario con giustificata fama di abigeatario, e al giovane Simone, un “poco di buono” protetto da Nicodemo e implicitamente promesso ad Agnese.
Dopo la morte del genitore, la ragazza rifiuta la corte di Simone e trova protezione in Don Paulo, che finisce per innamorarsene, d’altronde ricambiato. In questa modifica si avverte facilmente l’innesto, nel copione, di un altro romanzo della Deledda, Marianna Sirca.
Il successivo capitolo – se così possiamo chiamarlo – racconta il viaggio di Paulo in montagna. Si reca ad assistere e curare l’ex promesso sposo di Agnese, ricercato dai carabinieri per un agguato finito nel sangue. Questo lungo e ben riuscito “innesto” non solo richiama le vicende del “bandito buono” di quel romanzo – che non a caso si chiama anch’esso Simone – ma è anche un anticipo della scena in cui Prete Coi, nel romanzo Il disertore (1961) dello stesso Dessì, si reca a portare l’estrema unzione al figlio di Mariangela Eca, rifugiatosi nell’ovile abbandonato dopo aver disertato dalle trincee della Prima Guerra mondiale.
È insomma curioso che, al di là delle incertezze e dei dubbi di Dessì, questo primo approccio filmico al testo deleddiano anticipi altri “scenari sardi” abbastanza comuni e soprattutto derivanti proprio dagli archetipi letterari creati dalla scrittrice nuorese.

Prescindendo dal soggetto dello scrittore di Villacidro e dalla rievocazione di Emmer, la motivazione censoria – l’amore tra il prete e la donna – fu di nuovo evocata da Mario Monicelli quando nel 1951 fu contattato per riprendere il mano il progetto del romanzo deleddiano; sarebbe stato la sua prima regia, per così dire “in solitaria”, ma anche lui confermò che una storia simile si sarebbe fermata negli uffici della censura governativa. Suso Cecchi D’Amico, che poi firmò la sceneggiatura di Proibito, ultimo approdo del progetto, appunto assieme a Monicelli, confermò questo ennesimo blocco, ma aggiunge che una casa di produzione americana, nel 1953, si offrì di produrre il film, proponendo, da un lato un attore, Mel Ferrer – non proprio o non ancora un divo – ma accettando anche un divo vero, italiano, come co-protagonista: Amedeo Nazzari, peraltro sardo, e una futura attrice di grande talento come Lea Massari.
quqPrima opera sarda e deleddiana di respiro spettacolare, Proibito è però un “patchwork” che trascende l’originaria derivazione da La madre (citata comunque nei titoli di testa) e che contiene numerose varianti rispetto alla casistica tradizionale delle trasposizione letterarie ispirate alla scrittrice.
È infatti ambientato al presente – con tanto di jeep dei carabinieri e di autobus – e in tal modo stabilisce, secondo gli autori, che il mondo della Deledda non solo mantiene una sua impronta nei polverosi paesi di pietra, nei paesaggi aspri e selvaggi, nei costumi, nei volti dei vecchi e delle donne, ma anche nelle situazioni drammaturgiche e narrative attualizzabili senza difficoltà.
L’ambientazione al “presente” dei principali temi romanzeschi della scrittrice – oltre a La madre, Colombi e Sparvieri, Elias Portolu, Cenere – non impedì comunque di ricalcare le tradizionali esplorazioni della Sardegna ottocentesca: il colorismo della bella sequenza del corteo religioso verso la Basilica di Saccargia, il melodramma soffocato nell’amore mai esplicitato tra il prete e la ragazza, il lato avventuroso della faida che ha il suo culmine nel duello a cavallo tra Barras e Corraine.

Grazie al coinvolgimento delle popolazioni di Tissi e di Aggius ed una strategia commerciale di largo respiro – l’anteprima del film si svolse a Sassari con la partecipazione sia di Amedeo Nazzari che di Mel Ferrer – il film non solo ebbe un buon successo di pubblico ma, come ha documentato Sergio Naitza nel suo documentario del 2011 Per noi il cinema era “Proibito”, è rimasto come memoria mitologica che trascende la derivazione deleddiana.
Di fatto, l’obbiettivo del film – in qualche modo nascosto proprio dal deleddismo di maniera, che passò inosservato – era quello di raccontare la Sardegna contemporanea, ovvero “la questione criminale”, riapparsa in tutta la sua drammaticità nel 1953, con il sequestro dell’ing. Capra, direttore di un cantiere stradale a Dorgali, ucciso nelle campagne di Orgosolo durante un conflitto a fuoco con i carabinieri in cui perse la vita anche il celebre latitante Emiliano Succu che aveva organizzato il sequestro di persona.
Il fatto riempì le prime pagine dei maggiori giornali continentali, approdò in Parlamento e fu il segnale – accanto ad altri episodi, come gli assalti ai mezzi che trasportavano le paghe dei cantieri pubblici – di un salto di dimensione del banditismo tradizionale. La Sardegna ridiventava un terreno di esplorazione in cui la leggenda si poteva affiancare alla realtà.
Non a caso il già citato Amore rosso, dopo una prima fallimentare uscita nelle sale italiane, fu riproposto nel 1954 con dei manifesti pubblicitari in cui compariva la sovrascritta “un film sui banditi orgolesi”.
Negli stessi anni, sulla stampa, apparvero annunci di prossime produzioni “sarde” – poi non realizzate – dai titoli inequivocabili: Nebbie sul Supramonte, Sangue sul Gennargentu, La pace di Orgosolo, Sardegna ardente, L’ultimo bandito.
Tra le vicende più ricercate da produttori e registi, oltre alla “caccia grossa” di fine secolo, raccontata da Giulio Becchi, vi era anche la grande faida di Orgosolo dei primi vent’anni del Novecento, già famosa, anche prima che Cagnetta, a partire dal 1954, ne pubblicasse la storia nella sua celebre inchiesta apparsa su Nuovi Argomenti.

Tornando all’immediato dopoguerra, due titoli emblematici di questo “deleddismo” abusivo e non dichiarato furono Faddjia (1949) di Roberto Bianchi Montero e Altura (1951) del cagliaritano Mario Sequi. Il primo racconta la vicenda di un contrastato amore tra un proprietario di greggi e la figlia di un possidente sullo sfondo delle lotte tra pastori e contadini nell’oristanese. Molti i tratti deleddiani evidenti, non solo nella struttura melodrammatica che include anche uno stupro per vendetta, ma anche nell’apparizione di alcuni personaggi usciti dalle pagine dei suoi romanzi, ad esempio il prete che cerca di pacificare i conflitti. Altrettante le variazioni (il giovane agricoltore che viene dal continente e che vorrebbe modernizzare l’agricoltura attraverso un moderno sistema idraulico) sembrano, se non in sintonia con i temi del fascismo, almeno con quelli riformatori del dopoguerra.
Al di là di questi rilievi più o meno documentali, il film di Bianchi Montero comunque è di una mediocrità quasi sorprendente e le violente polemiche apparse sulla stampa regionale sembrano fuori quadro e fuori bersaglio.
Il secondo, scritto da un altro sardo, Pietro Lissia, già sceneggiatore di Oro Nero, racconta la storia di un emigrato, Stanis Achenza, che nel dopoguerra ritorna al suo paese e organizza una cooperativa di pastori per opporsi al possidente che controlla i pascoli e il mercato del latte.
In una bella intervista rilasciata ai primi anni Ottanta alla sede regionale della Rai, il regista mette le mani avanti sui referenti del film, dichiarando che il rischio di certe operazioni è da un lato la dipendenza dai romanzi della Deledda, dall’altra la tentazione del western fordiano.
Il lato avventuroso di Altura è, appunto, se non fordiano, certamente western (l’agguato al camion dei pastori e la resa dei conti finale non sfuggono al genere) e tra i poli drammaturgici vi sono davvero alcuni richiami deleddiani: il possidente “ruba” la fidanzata a Stanis e, inizialmente, la popolazione considera quest’ultimo quasi uno straniero venuto a portare la discordia tra la comunità.

Tra i momenti più caratterizzanti, però, vi è anche una sorta di eversione della tradizione comunitaria, o della sua vulgata antropologica: il capo del villaggio, il patriarca che dovrebbe rappresentare la giustizia e la saggezza, è in combutta con il proprietario terriero che affama i pastori.
La dipendenza dal “deleddismo” di maniera include, in quegli anni, anche la caricatura: una faida familiare è il motivo conduttore di Vendetta … Sarda (1950) di Mario Mattoli, che ironizza non solo sul rigore funereo delle tradizioni locali e della “balentia”, ma anche sulle prime immagini esotico-turistiche della Sardegna (l’albergo sul Gennargentu) che avrebbero dovuto cancellare la fama cattiva dell’isola e il ricordo della malaria. Sceneggiatori del film furono Steno e Monicelli. Come scrivono Goffredo Fofi e Giampiero Brunetta, la continuità del cinema di genere è, più spesso, una questione di scrittura che di regia.
La grande vallata (1960) di Angelo Dorigo è di nuovo un western deleddiano (possidente contro pastori con storia d’amore in mezzo); due anni dopo lo sceneggiatore di quest’ultimo film, il sardo Eduardo Mulargia, girerà Le due leggi: ancora una faida che fin dal titolo sembra già echeggiare uno slittamento semantico che dalla Deledda conduce a Antonio Pigliaru e al codice barbaricino, sia pure entrambi banalizzati.
Ma, tornando alla presenza della Deledda (testuale o rielaborata in contesti tematici contemporanei), è obbligatorio segnalare che passano ben 32 anni prima di ritrovare dei titoli direttamente ispirati ai suoi romanzi: il primo è un bel film “calligrafico” (il ripescaggio del termine prebellico serve a collocare l’opera fuori dal tempo) del 1986, Il segreto dell’uomo solitario di Ernesto Guida, e interpretato da Giulio Bosetti e Mismy Farmer.
Scritto nel 1921, il romanzo è ambientato in Sardegna ma non segnato dalle “estreme” tematiche sarde storico-sociali e, anche in virtù del testo letterario, potrebbe essere la prova concreta della possibilità di espansione del suo immaginario al di là dei soliti confini tematici e persino geografici.
Interessante è anche il messaggio di Con amore Fabia…, girato nel 1993 dalla regista sassarese Maria Teresa Camoglio per un emittente televisiva tedesca e interpretato da attori sardi, tra i quali il grande Antonio Medas, alla sua ultima interpretazione.
Ispirato a Cosima (1937), più o meno evidente autobiografia della scrittrice, riprende il discorso della fuga (però ai nostri giorni) non più come rottura dell’equilibrio comunitario, ma semplicemente come desiderio di libertà e d’indipendenza. Questo era il motivo principale del romanzo ed è anche il senso di molte esperienze contemporanee degli artisti di ogni periferia del mondo in cui la vocazione creativa cerca uno spazio di comunicazione universale in cui far valere la propria appartenenza locale.
Quasi vent’anni dopo un altro film direttamente ispirato alla Deledda vede la luce in una sala cinematografica, e, di nuovo, è La madre, scritto e diretto, nel 2014, da Angelo Maresca, regista di formazione teatrale con diverse esperienze cine-televisive all’estero.

Il film è ambientato al presente, a Roma, in una parrocchia dell’EUR – giusto per sottolineare ulteriormente la possibilità di modernizzare facilmente la vicenda deleddiana – il cui parroco, Don Paolo, è stretto tra le ossessioni materne, quasi morbose, e una fede che, pur senza cedimenti melodrammatici, non resiste all’innamoramento, ricambiato, per una parrocchiana.
Algido e scarnificato e inevitabilmente segnato dalla tragedia finale (la madre muore di dispiacere, il giorno di Pasqua, mentre il figlio celebra la messa) è interpretato dall’attrice almodovariana Carmen Maura, ovviamente nel ruolo della madre.
Vale la pena sottolineare questo aspetto visto che chi scrive ha già sottolineato che l’autore spagnolo avrebbe potuto appassionarsi a quella storia deleddiana, non troppo legata a istanze etnico regionali soprattutto facilmente attualizzabile.
Lo stesso anno, il sardo Francesco Trudu, esordiente dietro la macchina da presa, produce, scrive e dirige, un’altra versione dello stesso romanzo il cui titolo emblematico è Il peccatore.
Il film è pieno di buone intenzioni, fin dalla cornice narrativa in cui appare la scrittrice, che cerca di accreditarsi, con una lettera, presso un editore. La stessa voce “over” si trasforma nella voce “off” che illustra, con le parole del romanzo, la storia d’amore tra Don Paulo e Agnese, una ricca donna “non più giovanissima” (scrive la Deledda), che nel film sembra pronta per una sfilata di moda etnica promossa da un vero stilista.
Inadeguati gli interpreti – ovvero anch’essi non professionali, rispetto alla testualità para letteraria del film, unica bella idea di regia, se fosse stata sviluppata da un autore come De Oliveira – che si muovono in uno scenario non banale, “ritagliato” tra i vicoli, i portali, le mura, le stradine di qualche paese sardo. Un adattamento meno teatralizzato avrebbe dato migliori risultati, ma forse Trudu ha pagato la sua inesperienza come regista.

La Deledda in televisione: omaggio ad una scrittrice italiana insignita del Nobel

Rimandando ad un prossimo capitolo il tema della sotterranea continuità tra mondo deleddiano e rappresentazione dell’ancestralità sarda, che arriva fino all’oggi, è però obbligatorio ricordare che partire dal 1958, romanzi e racconti deleddiani trovarono nella tv un ulteriore sviluppo drammaturgico, diverso e quasi opposto a quello filmico. Ed è dunque agevole valutare facilmente la variazione e la combinazione di forme, ambientazioni, temi, suggestioni create dalla scrittrice e trasposte in immagini per un pubblico diverso da quello cinematografico.
Canne al vento (1958), firmato da Mario Landi, è il primo di una serie che, di decennio in decennio, porterà sul piccolo schermo ben tre romanzi ed un racconto: appunto Canne al vento (1958) Marianna Sirca (1965), L’Edera (1974) e infine Il cinghialetto (1982).
Canne al vento fu prodotto e messo in onda appena quattro anni dopo l’ultimo film deleddiano (Proibito), ma la riduzione televisiva fu radicalmente differente rispetto alle consuete trasposizioni filmiche di origine romanzesca.
Con l’avvento della televisione, infatti, la Deledda, che era stata una chiave d’accesso alla geografia e cultura regionale, diventò semplicemente una scrittrice italiana insignita del Nobel e dunque obbligatoriamente inserita nella lista degli autori i cui romanzi potevano e dovevano essere divulgati attraverso il mezzo televisivo per creare una sorta di biblioteca popolare audiovisiva.
Il modello dei cosiddetti sceneggiati, almeno fino ai primi anni Settanta, fu abbastanza stabile: una teatralizzazione dei romanzi, quasi sempre realizzata in studio, con ricostruzioni scenografiche che imponevano piani di ripresa medi o ravvicinati e che privilegiavano l’aspetto drammaturgico su quello narrativo.

Anche Canne al vento, che la Deledda amava particolarmente e che, effettivamente, è forse la mescolanza più convincente di un “balzachismo” sociale e sentimentale con un background ambientale e corale “tolstojano”, non sfugge a questo modello.
Inevitabilmente, la struttura teatrale – che conteneva anche un richiamo al Cechov di Tre sorelle – creava una omogeneità culturale, formale e lessicale con gli altri grandi romanzi europei che venivano trasposti, negli stessi anni, per il piccolo schermo.
D’altro canto, il regista, che pure si servì di uno sceneggiatore, Gian Paolo Callegari, che ben conosceva l’isola per avervi girato numerosi documentari, escluse, fin dall’inizio, di poter tentare una rappresentazione in qualche modo realista e poiché non era mai stato in Sardegna, non volle neanche farsi condizionare da un viaggio “esplorativo” di superficie.
Il prologo – che anticipa e modifica la rivelazione della morte di Don Zame per mano del suo servo, innamorato segretamente di Lia – è comunque ambientato in esterni che ricordano il cinema meridionalista degli stessi anni; gli esterni ricompaiono poi in un brevissimo “flash” in cui ad Efix appare in un incubo il suo omicidio involontario.
La sintesi narrativa del romanzo è abbastanza accettabile, sebbene senza più il lirismo che trasfigurava una Sardegna arcaica, povera, squassata dai contrasti di classe, ma ricca di passioni, visioni, sentimenti religiosi.
La perdita più rilevante è però il peregrinare di Efix tra i santuari del nuorese, nello sceneggiato ridotta ad una breve scena e a qualche dialogo. La ricostruzione para teatrale ha comunque una doppia polarizzazione scenografica: gli esterni, che Oreste de Fornari nel suo Teleromanza (1989), considera come una sottolineatura di una Sardegna «sorridente, persino goldoniana, con cortili che sembrano campielli, il cicaleccio delle comari, le ragazze che rovesciano brocche d’acqua agli spasimanti», e gli interni, cupi – anche quando ritraggono case nobiliari – decadenti, evocanti una dissoluzione non solo sociale.

Un ulteriore polarizzazione avviene a livello drammaturgico: il personaggio di Efix connota la vicenda secondo un indirizzo memoriale – soprattutto dialogico, con rari squarci onirici – intriso di un inevitabile senso di colpa (è attraverso il suo personaggio che vengono svelati i retroscena della decadenza delle sorelle Pintor); la ribellione di Noemi, ben più efficace e allusiva, rivela invece, soprattutto nella prima parte, tutto il “non detto” della sensualità deleddiana.
La donna si turba quando vede il nipote a torso nudo che si lava, sorride ogni volta che lo vede, s’incupisce di gelosia per la sua storia d’amore con Grixenda, lo accarezza e gli sfiora le labbra in ogni occasione. La sua funzione è soprattutto visiva, affidata ovviamente a primi piani, o ad improvvise apparizioni turbative.
In alcune scene la sua presenza ricorda l’atmosfera dell’eroina di Cime tempestose (e dopotutto, anche la Bronte, come Balzac e Tolstoj, fa parte della biblioteca deleddiana), in altre la Merteuil di Le relazioni pericolose.
In mezzo a queste riuscite caratterizzazioni, il Giacinto di Franco Interlenghi sembra ancora il Moraldo de I Vitelloni felliniani, soprattutto quando si presenta al santuario del Rimedio con un maglione da “play boy”.
Anche altre caratterizzazioni rinviano a modelli non letterari: Natolia e Grixenda sembrano le “povere ma belle” del film popolare italiano dell’epoca e Don Pedru è quasi un feudatario da western meridionalista (d’altro canto l’attore Roldano Lupi era stato Paulu in L’Edera di Augusto Genina).
Riuscitissima è invece Kallina, l’usuraia, forse l’unico personaggio autenticamente deleddiano, anche in quel suo custodire un segreto (l’omicidio di Don Zame) che le serve per avere in pugno Efix e, attraverso lui, le Pintor.
Anche la musica di Ennio Porrino accentua questa mescolanza di apporti: suggerisce i motivi sardi; inserisce un canto a chitarra autentico (con tanto di suonatore sardo) nella festa al Santuario; mescola assieme, come “leit-motiv”, echi di Beethoven, Wagner, Mahler.
Il secondo “sceneggiato”, Marianna Sirca (1964), sembra quasi costruito in opposizione al film di Aldo Vergano, Amore rosso, ispirato al medesimo romanzo. Difatti, come si è scritto, quel film contornava il secco racconto della Deledda con una serie di accadimenti avventurosi, giusto per adeguarsi al dominio della narrativa cinematografica popolare.

Invece lo sceneggiato di Guglielmo Morandi, fedele all’impostazione prevalentemente teatrale delle riduzioni televisive dell’epoca, si muove in una scena ed in una narrazione totalmente opposta.
Restringe il racconto, sintetizza con la voce “over” i discorsi indiretti che la Deledda attribuisce a Marianna (la triste vita con lo zio, la speranza di un amore impossibile), cancella ogni coralità banditesca (via Bantine Fera che nel film era invece un personaggio di primo piano); normalizza, come da romanzo, persino il personaggio di Sebastiano, un vero garante della solidità familiare e comunitaria e non già un “vilain” hollywoodiano.
Nel concentrare gli accadimenti in una serie di dialoghi sentimentali, Morandi e i suoi sceneggiatori (Anna Maria Rimoaldi e Rate Furlan), mettono in evidenza soprattutto il carattere proto femminista di Marianna, cresciuta lontana dalla famiglia, indipendente, disposta ad amare senza alcun rispetto per le convenzioni sociali.
In linea con le prime aperture, caute, del costume, è anche il rapporto tra Simone e Costantino, che accenna ad un rapporto con l’amico e protettore, simile a quello di San Giovanni nei confronti di Cristo. La frase deve essere letta testualmente come un riferimento al tipo di legame di comparaggio piuttosto comune in tutto il meridione.
Come ricorda anche Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, il comparaggio è più forte delle parentele di sangue, ma nello sceneggiato sembra sottolineare una sorta di ambigua amicizia tra i due. Non apertamente omossessuale – la Deledda non lo scrive, il regista non osa proporla – ma certo legata all’archetipo di amicizia virile che, nei grandi romanzi americani, quasi cancellava la figura femminile. Non a caso, Costantino è, all’inizio, geloso di Marianna.

Manca, anche in questa trasposizione – come nella maggior parte dei lavori cinematografici e televisivi ispirati alla Deledda, ad esclusione di Canne a vento – il finale fatalista: non la chiusura brusca e tragica, ma l’accettazione di un dolore eterno che troverà gli occhi di Simone, cioè il suo ricordo, in quelli di un maturo possidente che la donna accetterà di sposare.
Sul piano visivo, è un’opera totalmente antifolclorica: a metà strada tra ricostruzioni di case e ambienti verosimili ed esterni non riconoscibili come sardi (neanche per le pecore), Morandi veste i suoi personaggi in costumi “non festivi”, ma accentua nel lessico le parlate sardo-italiane (“arrivato sono”; “aspettando, ti stavo”). Infine, nonostante un uso eccessivo degli zoom per sottolineare i momenti drammatici il regista simbolizza le inquadrature con riferimenti pittorici.
Emblematica è la morte di Simone, inquadrato come il Cristo del Mantegna: un sacrificato e una vittima del pregiudizio.
Il terzo, L’Edera di Giuseppe Fina, girato nel 1974, esibisce una marcata dipendenza da un nuovo esotismo sardo, i cui punti di partenza sono ovviamente Banditi a Orgosolo (1961) di De Seta e Barbagia (1971) di Lizzani e Fiori, senza dimenticare la già imponente divulgazione del mondo sardo attraverso il cinema e la tv, ovvero le inchieste documentarie e giornalistiche del decennio precedente.
Girato a Orgosolo e a Silanus, o ricostruito in studio avendo come modello le povere case della Barbagia, anche quelle dei pastori benestanti, mette in scena una Deledda in fustagno e gambali, cioè attuale e contemporanea, almeno sul piano puramente visivo dato che nelle prime immagini compare il ritratto di Umberto I appeso alla parte dell’ufficio di polizia.
Anche il costume, rifiutando il folclore dell’abbigliamento tradizionale, ormai “museale”, mostra donne in nero – la normalità barbaricina del dopoguerra – e uomini e ragazzi in divisa “civile” ma regionale: calzoni e gambali da pastore, giacche di velluto.
Il messaggio, ovviamente, non è casuale: la Barbagia (o la Sardegna) è un eterno passato e quella di oggi contiene ancora le trame deleddiane, i suoi amori melodrammatici, le sue vicende di peccato e di decadenza. Un po’ come in Proibito ma senza la ricerca di effetti spettacolari da grande schermo, se non per quel contorno di “folclorismi” quasi extradiegetici: la morra, il canto a tenores, il ballo sardo, il pastore che arrostisce la carne, le donne che preparano il pane.
Rispetto al film di Monicelli, però, non c’è una fusione drammaturgica tra mondo tradizionale sardo e strutture letterarie tardo ottocentesche, ma una saldatura tra la tessitura melodrammatica del romanzo e il già citato documentarismo isolano degli anni Sessanta.
Di nuovo Oreste De Fornari, con la sua consueta ironia, ha sottolineato, in opposizione alla quasi cancellazione regionale di Canne al vento, che nel film di Fina «Aumenta l’impressione di realtà […] altre strade, altre barbe, altri baci, altre agonie».

Ma non è detto che la scelta realista sia davvero convincente nel raccontare visivamente la Deledda. O meglio, il realismo più o meno attualizzato, fa risaltare una sorta di contraddizione profonda tra i linguaggi cosmopoliti e il legame regionale della scrittrice.
Nella scrittura letteraria, che ha mediazioni diverse rispetto a quella filmica, i due mondi convivono infatti senza grandi opposizioni. Invece, l’impressione di realtà del film fa si che questi barbaricini – di ieri o di oggi – siano molto meno verosimili dei personaggi deleddiani rintracciabili nei film degli anni Cinquanta o nello stesso Canne al vento.
L’Edera di Fina vuole essere fortemente caratterizzato regionalmente, anche oltre la Deledda. Ma, a quel punto, era meglio attuare il discutibile suggerimento di Michelangelo Pira che voleva “ritradurre” i romanzi della scrittrice in sardo.
In letteratura sarebbe una vera e propria falsificazione, ma al cinema l’operazione può benissimo riuscire, a patto di non preoccuparsi proprio della fedeltà ai dialoghi che sanno di teatro fossilizzato e statico.
L’ultima produzione televisiva deleddiana è del 1981, Il cinghialetto, scritto e diretto da Claudio Gatto e tratto dall’omonima novella, pubblicata in Chiaroscuro (1912).
Come gli altri titoli citati, è stato girato in Sardegna, ma è anche interpretato da attori locali o da personaggi “presi dalla strada” che anticipano il filone realista del “cinema sardo” di fine secolo. Poche sono le variazioni testuali rispetto al testo letterario: nella novella era lo stesso Aurelio, adolescente, figlio di un celebre avvocato, ad uccidere l’animale, stanco del suo giocattolo.
In tal modo, la Deledda, costruiva un’opposizione, notevolmente mitizzante, tra due modi di rapportarsi rispetto agli animali: l’una poveristica ma sincera, legata alla continuità naturale tra il mondo dei pastori e la natura, l’altra artificiale, tipicamente borghese.

Nel film la differenziazione sociale è invece marcata più profondamente, attraverso la descrizione degli ambienti sociali, delle vite diverse, dei riti degli adulti e dei giochi dei bambini. Insomma, la visività realista s’impone anche nel tratteggiare un diagramma sociale che racconta la Sardegna di ieri in maniera storicamente credibile.
Il film di Gatto è forse l’opera più interessante – non necessariamente la migliore – tra quelle proposte dalla tv, proprio per quell’intreccio riuscito tra caratterizzazioni sarde – anche storiche, nelle case e negli ambienti padronali e servili – e temi letterari. Rifiuta insomma la testualità letteraria in favore di un’aderenza para antropologica, in linea con il documentarismo sardo dell’epoca, di cui si è già scritto.
Sei anni dopo, per il Dipartimento Scuola Educazione, la Rai produsse e mandò in onda, su Raitre, sei “riletture” teatralizzate dei seguenti titoli deleddiani: Marianna Sirca, Cosima, Naufraghi in porto, Canne al vento, Elias Portolu. Sceneggiatura e regia sono di Mario Procopio e si possono ancora vedere, giusto per documentarsi sulla lunga durata della fama deleddiana, negli archivi della Cineteca Sarda e della Sede Rai di Cagliari.

Nuovi deleddismi filmici nascosti in trame anti letterarie.

Alla fine del quarto capitolo di questo corposo saggio (forse persino troppo corposo), sono stati citati un discreto numero di film, tra l’avventuroso, il melodrammatico e persino il comico, che certamente sono nati, da un lato, come si è già scritto, dall’emergenza criminale del dopoguerra sardo, dall’altro dal legame indissolubile con la rappresentazione della Sardegna interna – tra melodrammi e faide – che certamente aveva alle spalle l’immaginario deleddiano. Questo intreccio di trame e di spunti tematici incrocia facilmente il giornalismo d’inchiesta degli anni Sessanta, ancora tumultuosi sul piano criminale e sociale, al punto da ispirare, come si è scritto nel capitolo precedente, anche lo sceneggiato Rai di Claudio Fina, L’Edera.

Ma, di nuovo, riprendendo la citazione ambientale di Fina, persino il celebre Banditi a Orgosolo (1961) di De Seta non può esimersi dal comprendere alcuni temi divulgati dalla scrittrice.
Fu ideato inizialmente a partire dagli studi del sociologo Franco Cagnetta che, tra il 1953 e il 1954, aveva pubblicato alcuni saggi sia sulla storica e lunga “disamistade” di Orgosolo dei primi decenni del secolo, sia sul banditismo contemporaneo.
De Seta, siciliano, conosciuto soprattutto per i documentari girati nella sua isola, chiese la collaborazione dello sceneggiatore sardo Franco Solinas. Solinas scrisse un bel racconto, Le pecore di Emiliano – che già contiene in “nuce” la trama del film, ovvero l’odissea del pastore che fugge con il suo gregge per non essere arrestato – e che venne pubblicato nel 1959 sulla rivista “Il Contemporaneo”.
Nel frattempo, il regista aveva però già girato due documentari preparatori, Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia, e, attraverso i contatti con le comunità che avevano collaborato alla produzione dei cortometraggi, aveva tracciato una sorta di soggetto che “generalizzava” la condizione anche storica della comunità orgolese attraverso una vera e proprio “fiction”, in cui, al di là della vicenda narrativa, si potevano facilmente percepire l’isolamento e l’atemporalità storica della vita pastorale, il furto e la latitanza come necessità economica e sociale, la lotta per la sopravvivenza. Insomma, un deleddismo intellettualizzato e politicizzato.
All’inverso, sei anni dopo, Una questione d’onore (1967) di Zampa riprese il tema, immergendo però la narrazione non più in una “atemporalità” ma in uno scenario suggestivo dove convivono, al di là del genere, la Costa Smeralda e il “ballo delle vedove”, la cavalcata selvaggia dell’Ardia e gli affari moderni. Soprattutto molti personaggi del film, a partire dal protagonista, farebbero volentieri a meno di essere “balenti” o di inseguire i rivali per ucciderli.

Le sottolineature caricaturali stemperano appunto la pretenziosa “seriosità” di gran parte delle rappresentazioni isolane ma, essendo rarissime, non eliminano la puntuale ricomparsa di quello che è ormai uno stereotipo.
E ancora, Dove volano i corvi d’argento (1978) di Piero Livi – che nel 1969, con Pelle di bandito, girò una sorta di biografia di Graziano Mesina – è di nuovo la storia di una faida che si rinnova, di un passato che non passa e che ci riporta a motivi che sembravano cancellati dall’attualità.
E ancora, nel 1962, lo scrittore Giuseppe Fiori scrive Sonetaula (poi riproposto con diversi tagli dello stesso Fiori nel 2000) che si rifà appunto all’ emergenza criminale del dopoguerra.
Sarà Salvatore Mereu, nel 2008, a ridurlo per il grande e il piccolo schermo – in una versione di quasi tre ore – e, proprio nella versione televisiva, riapparirà, soprattutto nel finale, un sottofondo melodrammatico quasi “deleddiano”, lontano anche dal Fiori che, nel 1969, aveva collaborato con Lizzani per un altro film – secondo chi scrive, molto sottovalutato – sul banditismo barbaricino contemporaneo e specificamente su Graziano Mesina: Barbagia, la società del malessere.
Infine, Disamistade (1987), primo lungometraggio di Gianfranco Cabiddu, ambientato negli anni Cinquanta, attua uno slittamento inverso rispetto a

Le due leggi: da Pigliaru al mondo deleddiano, ritratto ancora una volta come suggestivo western campagnolo, condito di feste e balli, lavorazioni artigiane e madri addolorate.
Neanche Padre Padrone (1977) si sottrae a questa appartenenza ancestrale, se non altro per la vicenda autobiografica del vero Gavino Ledda, autore del romanzo omonimo e poi, nel 1984, del film Ybris, in cui si metteva in scena come personaggio/attore in una revisione della tradizione culturale arcaica ma impura del mondo pastorale sardo.
E come se il mondo letterario della Deledda, che certamente, per ragioni storiche e per la sua scrittura non avrebbe mai potuto essere tra le ispirazioni dello scrittore/regista/attore, semplicemente avesse il compito di riportare alla luce il rimosso della tradizione sarda in contesti ormai modernizzati.
Lo scenario di riferimento è dunque totalmente cambiato: estinto il cinema popolare del dopoguerra, o meglio i suoi generi di riferimento, si perdono necessariamente anche le dipendenze dalle vecchie forme narrative e soprattutto dal lessico della scrittrice.
È piuttosto il preletterario che s’impone nei film “sardi” più recenti, diciamo a partire dagli anni Settanta, soprattutto nelle opere degli autori isolani.
Sicché rimane senza risposta l’interrogativo centrale che riguarda anche il presunto stereotipo “sardo” creato dalla Deledda: prescindendo dallo stile “internazionale” della sua scrittura (ma poteva esistere, ed esiste oggi, uno stile nazionale sardo?) il mondo rappresentato non fu un’invenzione e neanche semplicemente un dato autobiografico, ma l’autentica “emergenza” culturale isolana – nel senso più ampio del termine – osservata dai tanti viaggiatori provenienti dalle città europee, che, proseguendo il giro d’Italia oltre il Grand Tour (o evitandolo), cercavano in Sardegna una diversità antiborghese e anticlassica.

Tale visibile diversità non si è chiusa peraltro con le affabulazioni della scrittrice ma è proseguita con altri viaggiatori novecenteschi, non ultimi Lawrence (anni Venti), Munster, Junger, Cagnetta, Levi (anni Cinquanta), per non parlare del giornalismo d’inchiesta degli anni Sessanta e Settanta.
Persino le più note personalità isolane del dopoguerra (Pigliaru, Pira) hanno posto al centro delle loro analisi lo stesso preletterario deleddiano, cercando di assegnargli delle funzioni di spiegazione “tout court” dell’intera Sardegna.
Che poi questi stessi studiosi ne abbiano rifiutato le forme letterarie, ovvero i presunti e reali stereotipi, non è poi così importante. Anche gli studi antropologici isolani (da Inchiesta a Orgosolo di Cagnetta a La vendetta barbaricina di Pigliaru, da La rivolta dell’oggetto di Pira alle “costanti resistenziali” di Lilliu) hanno avuto, all’interno dei discorsi sociali, un impatto altamente volgarizzato e stereotipato. E, per quel che ci riguarda, sono stati, a partire da Banditi a Orgosolo di De Seta, la sponda nobile e impegnata del deleddismo cinematografico.
Il fronte opposto, cioè l’esaltazione della modernizzazione sarda, prima attraverso il fascismo, poi con l’industrializzazione del dopoguerra, ed infine con la nascita della mitologia turistica della Costa Smeralda, ha avuto paradossalmente una forza di “stereotipizzazione” di nuovo totalizzante, tanto da far riemergere, come reazione, proprio quell’appello alla vera Sardegna che in realtà finiva per proporre i luoghi comuni del folclorismo più banale.
Ciò che rimane di realmente storico, sia nei romanzi che nei film, è semplicemente il riscontro geografico: l’aver assunto la Barbagia come Sardegna “tout court”. Ma è pur vero che il resto della Sardegna non è riuscito a creare, se non in tempi recenti, non solo una sufficiente affabulazione, sia letteraria che cinematografica, ma neanche una preminenza culturale.

Il cinema dei registi sardi a cavallo tra i due secoli. il deleddismo nascosto o forse solo mascherato dalla mancanza di un legame diretto con la letteratura.

Come finale quasi provocatorio si può ricordare che all’ultima edizione del prestigioso Torino Film Festival, l’unico film italiano in concorso è stato Il muto di Gallura di Matteo Fresi, ispirato al celebre romanzo di Enrico Costa che racconta di una “faida” sanguinosa avvenuta nel Nord Sardegna alla fine dell’Ottocento.
La Deledda riteneva Costa un suo indiretto maestro ma, a rileggere oggi lo scarno racconto dello scrittore sassarese, si ha l’impressione di un testo che, invece di romanzare al limite del melodramma sia la faida sia l’angosciante sofferenza amorosa del Muto e la sua violenta reazione alle offese, cerchi di oltrepassare il “romanzesco” tipicamente ottocentesco per anticipare una sorta di teatralizzazione ad un tempo folclorica (le feste di fidanzamento, le riconciliazioni tra famiglie) e amorosa.
Insomma un perfetto spunto per una trasposizione filmica che “spettacolarizzi” le scene o, all’inverso, costruisca una drammaturgia brechtiana, totalmente anti romantica.
E dunque, sperando di vedere al più presto il film di Fresi, si può approfittare di questa occasione per sintetizzare una sorta di doppia circostanza storico-culturale.
È evidente che il corpus letterario deleddiano appartiene da tempo alla storia della letteratura, internazionale, italiana e sarda, ed è difficile ipotizzare una qualsiasi attualizzazione del suo inesauribile repertorio narrativo, se non appunto per un romanzo come La madre o per qualche racconto o, di nuovo per la sua biografia romanzata, Cosima.

Se vogliamo, l’erede “spurio” della Deledda è stato Giuseppe Dessì che, però, mai avrebbe accettato ufficialmente tale discendenza visto che, come si è già scritto, non l’amava come scrittrice ma soprattutto ebbe una formazione geografico-familiare e un apprendistato letterario del tutto diverso, legato pienamente al Novecento.
Nativo di Cagliari, ma di antica famiglia villacidrese, figlio di un ufficiale di origine aristocratica (un’aristocrazia di provincia, ma pur sempre …) che combatté e fu decorato durante la prima guerra mondiale, fu fortemente legato non solo alla sua terra, culturalmente divisa tra economia agricola-pastorale e industria mineraria, ma anche al capoluogo dove non solo nacque, come si è scritto, ma visse per diversi anni.
La sua successiva formazione – dopo la laurea, l’insegnamento e il lavoro come ispettore scolastico – si svolse lontano dalla Sardegna e fu segnata da una lunga permanenza ferrarese che, tramite lo scrittore Giorgio Bassani, lo indirizzò alla scrittura.
Prescindendo dal suo lavoro “parallelo” di scrittore per la tv per il cinema, ampio e vasto ma non troppo conosciuto, Dessì introduce, in anticipo di almeno due decenni, diciamo dal dopoguerra agli anni Sessanta, l’idea di una Sardegna sempre agganciata ad una identità familiare e locale – la sua Villacidro – ma capace di aprirsi al mondo. Ha dunque segnato, pur senza troppe teorizzazioni, un nuovo inizio per la letteratura sarda.
Dopo lui, ovviamente ci sarà il cagliaritano Sergio Atzeni. Nessuno dei due, però, potrebbe vantare una qualsiasi parentela con la Deledda: nei loro romanzi appaiono altri mondi e non per ragioni puramente geografiche.
A questo scarno elenco di post deleddiani, possiamo aggiungere Salvatore Mannuzzu, scomparso nel 2019, all’età di 89 anni, di professione magistrato e poi parlamentare. Scrisse il suo primo romanzo Un Dodge a fari spenti nel 1962, cronaca di una Italia/Sardegna che si barcamenava in un difficile dopoguerra. Quando arrivò alla pensione, riprese a scrivere – e i suoi romanzi furono pubblicati da Einaudi – e forse il suo capolavoro,

Procedura, che divenne nel 2001 un film piuttosto bello di Antonello Grimaldi (Un delitto impossibile), è una delle poche pellicole che appartengono “in toto” alla nuova ondata filmica di fine Novecento che cerca di raccontare il presente o il passato prossimo della Sardegna, in prevalenza metropolitano.
Ma anche negli ultimi vent’anni, scusando imprecisioni e omissioni, il numero di scrittori sardi che si sono affacciati sul mercato nazionale, ottenendo anche dei buoni risultati di critica e di lettori, nonché premi prestigiosi, si può scindere in due blocchi la loro appartenenza regionale: l’una, appunto, metropolitana e l’altra, per così dire, caratterizzata da un’ambientazione periferica, tra paesi e campagne e, magari, temporalità non troppo vicine ai nostri giorni.
Per l’appartenenza metropolitana citerò solo due nomi, Milena Agus (il cui romanzo più celebre, Mal di pietre, pubblicato nel 2006, è stato portato sullo schermo in Francia da Nicole Garcia nel 2016)
e Francesco Abate, che nell’ultimo suo romanzo, I delitti della Salina (2021), piuttosto bello, sembra voler costruire la base per un immaginario metropolitano che ha inizio nei primi del Novecento, quando Cagliari si aprì al mare attraverso la costruzione del nuovo municipio di fronte al mare. Il testo, appunto, sarebbe perfetto per un film – complesso e costoso, purtroppo – sulla nascita della “capitale” della Sardegna.
Per quanto riguarda l’ambientazione “antimetropolitana” (il termine va preso in senso ironico ma non troppo), i nomi principali sono Marcello Fois e Salvatore Niffoi, entrambi orgogliosamente portatori di una tradizione culturale che, direttamente o indirettamente, ci riporta alla Deledda e al suo rapporto con la sua terra e con i modelli letterari europei. Tra parentesi, si può inserire in questa area antimetropolitana, anche L’Accabadora (2009) di Michela Murgia e, anche in questo caso, inserendo la Sardegna più o meno deleddiana in un tempo storico più vicino ai nostri giorni.

A questo punto, tornando al cinema, Il figlio di Bakunin di Cabiddu (tratto da Sergio Atzeni), premiato dal pubblico sardo con incassi che, nel sud Sardegna, superarono quelli di Titanic, anche Un delitto impossibile, assieme ai film “cagliaritani” di Enrico Pau e Peter Marcias , a Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, e alla recente trilogia metropolitana del sassarese Bonifacio Angius (Perfidia, Ovunque proteggimi, I giganti) sono rimasti, assieme a non molti altri titoli girati da autori sardi, l’eccezione di una regola finora piuttosto ferrea.
Ovvero, più che una regola è una statistica: la maggior parte dei film “sardi” di fine secolo e oltre – e sono ormai tantissimi – hanno una ambientazione contemporanea o “atemporale” (Su Re di Giovanni Columbu) in una Sardegna anti metropolitana, quasi che, inconsciamente o programmaticamente, avessero una “missione” geografico-antropologica ben precisa: sovrastare quella che è, da almeno trent’anni, una realtà che non può più essere modificata, ovvero la crescente “metropolizzazione” della Sardegna e la progressiva e irreversibile cancellazione di una cultura primaria, pastorale e contadina.
Proviamo a fare un semplice elenco di questa tendenza: Disamistade (1988) di Gianfranco Cabiddu; Una casa sotto il cielo (1993) di Roberto Loci; Miguel e Prima della fucilazione, due corti molto belli di Salvatore Mereu (1999), che anticipano il suo esordio nel lungometraggio con Ballo a tre passi (2001); Arcipelaghi (2001) di Giovanni Columbu, tratto da un romanzo di Maria Giacobbe; Sos Laribiancos di Piero Livi, ispirato al romanzo/memoriale di Francesco Masala Quelli dalle labbra bianche (1962); Treulababbu (2003) di Simone Contu; Sa Grascia, (2010), cortometraggio d’esordio di Bonifacio Angius; Panas (2014) e Capo e Croce (2013) di Marco Antonio Pani; L’ultima frontiera (2006) di Franco Bernini e Marcello Fois; La destinazione (2003) di Piero Sanna; L’arbitro (2013) e L’uomo che comprò la luna (2016) di Paolo Zucca, quest’ultimo film inneggiante alla Deledda – e a Gramsci – come custodi della Sardegna. Si può aggiungere che la formazione filmica di Giovanni Columbu avviene attraverso la sede regionale della Rai, che produce e mette in onda il suo primo cortometraggio, Dialoghi trasversali (1979), uno studio sulla cinesica dei pastori; successivamente, sempre per la Rai, scrive e dirige Villages and villages (1982), una sorta di “reportage” immaginario, ovvero un viaggio di andata e ritorno in autobus che, all’inizio percorre una Sardegna ancora “primitiva” e, al ritorno, trova l’isola totalmente modernizzata e quasi irriconoscibile. Infine, nel 1984, Visos, i sogni dei pastori, documentario poetico-onirico sull’immaginario nascosto degli abitanti delle zone interne della Sardegna.

Il paradosso non è solo statistico ma quasi antropologico, ovvero di appartenenze culturali. Non a caso Tajabone di Salvatore Mereu, che considero il suo capolavoro, girato e ambientato a Cagliari e recitato da attori, letteralmente “presi dalla strada”, è stato volontariamente nascosto dal suo autore dopo una sola proiezione pubblica, quasi che quel lavoro potesse cancellare la “memoria” periferica, pastorale e contadina, nella quale si era formato, anche e soprattutto filmicamente.
Ovviamente, dovendo fare l’elenco dei film “non metropolitani” non ne troveremo uno che abbia dei rapporti con la letteratura deleddiana ed è già una sorpresa l’apparizione di Il muto di Gallura di Costa.
Ma non è questo il problema: Il “corpus” deleddiano resta nascosto dal cinema contemporaneo – troppo difficile sceneggiare i suoi romanzi – ma ciò che lo ha ispirato è ancora lì, quasi fosse la vera identità della Sardegna.
Giulio Angioni scrittore e antropologo, scrisse non molto tempo fa che la Sardegna di Grazia Deledda e Enrico Costa non era mai esistita.
Ma questa “banalità” – applicabile a gran parte dei maggiori scrittori di ogni parte del mondo – la si può utilizzare anche per il suo Assandira (2004), recentemente portato sullo schermo proprio da Salvatore Mereu: straordinaria evocazione interiore di un passato che si scontra con un presente (il figlio, emigrato, torna a casa del padre, per aprire un agriturismo con attrazioni turistico-pastorali-sessuali) inesistente nella Sardegna di ieri e di oggi, se non appunto al cinema.

Molto più realistici, diciamo al limite della cronaca di un mondo che, appunto, diamo per scomparso ed invece vivo e in grado di mostrarsi apertamente, sono invece Capo e croce (2013) di Marco Antonio Pani e Paolo Carboni, dedicato alla lotta dei pastori, e soprattutto Furriadroxiu di Michele Mossa e Michele Trentini, che racconta non una “mitologia” diventata cronaca del nostro tempo ma più semplicemente un microcosmo culturale, sociale, economico non raro in Sardegna: la presenza (nella fattispecie, la costa di Teulada) di un mondo moderno iper turisticizzato, con piccoli borghi di poche case (I “furriadroxius”, appunto) nei quali poche famiglie vivono come se fossero ancora nell’immediato dopoguerra o forse anche prima.
Come dire che quel mondo che si definisce deleddiano esiste ancora in altre forme storiche, cronachistiche e persino turistiche.
Non è obbligatorio, ma ci sarà qualche regista isolano – o anche non isolano – che avrà voglia, prima o poi, di rimettere mani ai suoi romanzi, oltre a quelli di Dessì, Fiori, Mannuzzu, Salvatore Satta e tanti altri, sommersi dalla modernità.
A proposito della mitologia western hollywoodiana, anch’essa basata in gran parte su un’America mai esistita, Borges scriveva che fosse l’unica narrazione epica che il mondo era riuscito a “preservare”. Questa può essere la strada per ritrovare la Deledda – oltre che il meno celebre Costa – sugli schermi.

14 gennaio 2022

 

 

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