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L'immagine come adattamento del testo

di Chiara Sulis

 (nella foto Italo Calvino) La capacità di creare un testo, letterario o filmico, è strettamente legata alla capacità di immaginare; e in relazione a questo, possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che percorre la strada inversa, dall’ immagine visiva all’espressione verbale.
Il primo processo è quello che mettiamo in atto nella lettura: quando leggiamo una poesia, un romanzo o un articolo di giornale, a seconda dell’efficacia del testo, immaginiamo ciò che stiamo leggendo, come se si svolgesse davanti ai nostri occhi.
Il secondo processo è, invece, quello che utilizziamo quando scriviamo: lasciamo che la nostra mente “veda” delle immagini, delle scene che poi ci accingiamo a  scrivere. In particolare nel cinema,  l’immagine filmica è un’interpretazione del reale: ciò che vediamo sullo schermo è passato attraverso un testo scritto e poi attraverso l’immaginazione del regista che vede il film mentalmente e poi lo ricostruisce sul set per fissarlo nei fotogrammi. Per cui per creare un film occorrono una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma.
L’immagine non può essere considerata copia della realtà, ma interpretazione, perché la visione è un processo inferenziale, dove ciò che vediamo è mediato dalla nostra cultura, esperienza e capacità percettiva; infatti tra coloro che producono le immagini e coloro che ne fruiscono si instaurano mediazioni culturali, ideologiche e storico-sociali. Possiamo definire l’immagine filmica come interpretazione della realtà anche perché «il testo filmico si rifà ai segni del profilmico per rielaborare una situazione, ma restituisce alla realtà questi segni caricati di nuovi sensi, “cinematografizzati”. Le strutture significanti di un film non sono tutte cinematografiche quando entrano, ma lo sono quando escono, nel senso che la “cinematografizzazione” altro non è che un processo di interpretazione e traduzione di discorsi extracinematografici attraverso il filtro di codici e discorsi cinematografici.»22 (Francesca De Ruggieri)

 Le immagini hanno inoltre la capacità di avvicinarci di più al mondo, rispetto alle parole. Per dirla con Wenders, «l’immagine, diversamente dal pensiero, non impone alcuna opinione alle cose: in ogni operazione del pensiero è sempre implicito un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere invece trascende dalle opinioni: guardando una persona, un oggetto, il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un’attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L’atto del vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale.»23
Anche Calvino si interessa al processo attraverso il quale creiamo immagini e parla di “cinema mentale”, cioè di quella parte di lavoro che si attua nella mente del regista e precede le riprese vere e proprie; egli spiega che in realtà questo tipo di lavoro mentale, che ci coinvolge prima della stesura di qualsiasi testo e che ci porta a “vedere” ciò che scriveremo, è sempre esistito nella mente umana, ancora prima della nascita del cinema.

Nella nostra società la diffusione di immagini preconfezionate è fin troppo inflazionata e ci si chiede spesso come la nostra mente reagisca a una tale invasione di messaggi visivi; Calvino, nel suo saggio sulla visibilità, ha prospettato due possibili vie:
1. Riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato: il post-modernism può essere considerato la tendenza a fare un uso ironico dell’immaginario dei mass-media, oppure a immettere il gusto del meraviglioso ereditato dalla tradizione letteraria in meccanismi narrativi che ne accentuino l’estraneazione.
2. Fare il vuoto per ripartire da zero. Samuel Beckett ha ottenuto i risultati più straordinari riducendo al minimo elementi visuali e linguaggio, come in un mondo dopo la fine del mondo.
 
Qualunque sarà il rapporto che stabiliremo nei confronti dell’immagine dobbiamo renderci conto che «tutte le “realtà” e le “fantasie” possono prendere forma solo attraverso la scrittura,[…] [in cui] esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni poliforme degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia, rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo, in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto.» 24

 
22 Francesca De Ruggieri, Rappresentazione e simulazione nel cinema di Wim Wenders, Patrizia Calafato (a cura di), Metafora e immagine, Bari, Edizioni B.A.Graphis, 2000, p. 45
23 Wim Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 1997, p.43
24 Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1998, p. 110