Il corpo di Coda
Tuffo nei venti anni di lavoro del filmmaker sardo all’Umanitaria. L’autore: “La bellezza patinata ha poco senso, così come la giovinezza a tutti i costi, frustrazioni dei nostri tempi mercificati”. L’intervista. di E.R.

Dopo un'introduzione sul perché Coda sia diventato un filmmaker (“Ho iniziato con la scrittura; ho partecipato ad un concorso letterario e l'ho vinto. A ripensarci era già una storia fondata sul visuale”), e, in seguito, abbia abbracciato, per la sua inarrestabile curiosità e vitalità artistica, altri campi della cultura come la pittura, l'installazione museale, il teatro e, infine, l'amata fotografia, che gli ha portato soddisfazioni rilevanti (premi e mostre internazionali), sono stati proiettati alcuni lavori sintetizzanti il suo percorso cinematografico da “Il passeggero” (1998) a “Wonderland” (2004), da “Serafina”, 2002, (“quando fu proiettato per la prima volta, fui tacciato addirittura di pornografia!”) a una sorta di clip (sottolineata dai versi pasoliniani della “Supplica a mia madre”) di “Big talk” (2007).


Sì. In questi ultimi anni, la fotografia è stata una scelta artistica legata alla passione, ma anche alla necessità. Se non potevo filmare, volevo riprodurre, comunque, sensazioni, volti, luoghi sorti dal mio intimo, riflettendo proprio sul Rosa Nudo. E queste foto sono diventate delle mostre. A Barcellona, per esempio, con il titolo di Bete noir 1 e Bete noir 2 e, devo riconoscere che mi hanno dato grande soddisfazione.”
La collaborazione con altri artisti - dal suo maestro Oscar Manesi, ai “Machina Amniotica”, a varie presenze della cultura isolana e internazionale - sicuramente la appassiona. Per esempio, le piace collaborare a spettacoli di musica e di danza.
Quando trovo la possibilità di lavorare con artisti originali e creativi, la sintonia è perfetta. Nell'ultimo periodo, ho collaborato assai positivamente con la musicista Irma Toujan in performance, per me, emozionanti oppure nell'ambito della coreografia, con Giovanna Sancampiano. Esperienze formative eccellenti.

E' il corpo di guerra che metteva in scena Oscar Manesi, un corpo straziato dalle torture e dalla malattia, metafora di un mondo impossibilitato a esistere senza conflitti. Ma è pure il corpo diviso dalla mente come quello di mia nonna Serafina, un dolce essere staccato dalla realtà, un corpo da accudire, da rispettare. La bellezza patinata ha poco senso, così come la giovinezza a tutti i costi, frustrazioni dei nostri tempi mercificati.
Ha partecipato con un video assai efficace e bello allo spettacolo di Maria Assunta Calvisi “La casa di Bernarda Alba” tratto da Garcia Lorca. Che tipo di esperienza è stata?
Importante, felice; quel video dava il senso dell'emotività e delle rimozioni psicologiche delle protagoniste. L'uso del bianco e nero, infatti, rientrava in questo contesto. Maria Assunta ha avuto un'intuizione giusta a pensare lo spettacolo in quel modo e credo che il video funzioni sia all'interno della messinscena, ma possa avere pure una sua vita artistica autonoma.

Non sono convinto di questa affermazione. Semmai bisogna usufruire del suo potere comunicativo. Attraverso essa riesci a esprimerti, a raccontare qualcosa di te, che non riusciresti a esplicitare. Con l'arte esprimo le mie opinioni, mi libero. Come tanti altri uso questa espressione creativa per narrare storie e sensazioni, contaminandola con vari linguaggi.
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13 ottobre 2010