Percorso

Palermo Shooting di Wim Wenders

Il potere sottile dell'immagine. di Gianni Olla

Palermo ShootingCirca un anno e mezzo fa, tra Cagliari e Sassari - e dintorni, cioè l’intera Sardegna - si discuteva, anche a mezzo stampa, su un sogno, forse persino praticabile: Wim Wenders invece di girare il suo «Palermo Shooting» - sugli schermi in questi giorni - sceglieva un luogo della nostra isola.  Il sogno era legato ad una particolare capacità d’attrazione della Sardegna: i viaggiatori e gli intellettuali tedeschi amavano il Grand Tour che li portava fino in Sicilia, ma spesso deviavano - come accadde anche a Jünger nel dopoguerra - e cercavano l’altrove, cioè la wilderness nostrana.

La praticabilità era evidentemente legata anche al denaro, cioè ad un possibile finanziamento/invito della Regione o di altri enti.  La memoria di quella discussione, lanciata da un’associazione culturale, ritorna in mente già con i titoli di testa del film di Wenders, che indicano chiaramente l’intervento della Regione Sicilia e del Comune di Palermo attraverso i fondi P.O.R.  Chiariamo, visto che la sigla non è roba per appassionati di cinema: si tratta di fondi europei, stanziati per interventi a carattere strutturale, cioè strade, ponti, infrastrutture, ma anche musei, palazzi storici, teatri, beni culturali in genere, purché i denari siano spesi per le opere e non, ad esempio, per il cartellone di un teatro, per il restauro e la riapertura di un museo ma non per la gestione quotidiana. Nel caso di «Palermo Shooting» - e mi scuso per la necessaria digressione - l’intervento strutturale può essere giustificato, alla larga, con la necessità di un richiamo promozionale ad un’autentica capitale europea della cultura. Un po’ com’era accaduto, alla stesso Wenders, con il magnifico «Lisbon story», nato come promozione della capitale lusitana, e trasformato dal regista in un saggio «finzionale» sull’eclissi del cinema e sul trionfo della vita quotidiana in luoghi ancora fortemente esotici, musicali, puri. 

Wenders e il castDa quell’esperienza arriva una prima constatazione: nessun committente può pensare di riuscire a mettere le briglie ad un autore come Wenders: in parole povere, «Palermo shooting», non è un’opera da film commission, ma piuttosto la solita tanto criptica quanto sincera riflessione sul potere dell’arte, e del cinematografo, come ricostruzione/invenzione della realtà.  Tutto ha inizio ad Amburgo, con un celebre fotografo, Finn (l’attore è Campino, leader di un gruppo rock tedesco) in crisi d’identità: il suo manager progetta mostre d’arte high-tech nelle grandi metropoli, e quasi tutte basate sulla virtualità dell’immagine digitale, re-invenzione del mondo. Ma il nostro eroe, incurante delle critiche, preferisce divertirsi con altre invenzioni. Allestisce scenari teatrali e sfilate di moda quasi provocatorie (una sorta di body art filtrata dall’obiettivo) per la sua modella preferita, Milla Jovovich, nel cui corpo intravede la vita vera: il bambino che l’attrice sta aspettando e che esibisce nel suo pancione nudo.  Intanto non dorme e immagina che la morte (è Dennis Hopper, davvero straordinario in un ruolo insolito) lo stia cercando; un guardiano di pecore che sembra uscito da un quadro di Magritte lo invita a fare ogni cosa come fosse l’ultima; qualcun’altro gli parla della magia di Palermo, città «tutto porto», ovvero accogliente dice il suggeritore.  Così arriva a Palermo per concludere il suo servizio su Milla, poi si ferma intimorito e stregato da un luogo antico, degradato, dove la presenza della morte - raffigurata in quadri e statue - sembra far parte della condizione stessa della città. Si lega ad una ragazza, Silvia (Giovanna Mezzogiorno), continua a sfiorare la morte e a sognarla, in un duplice e reciproco inseguimento per poi ritrovarsi - dopo un lunghissimo incubo bergmaniano/borgesiano - riconciliato con una donna che forse ha iniziato ad amare.

Palermo ShootingPer i conoscitori di Wenders è inutile sottolineare che il tema è abbondantemente trattato dal regista in tutti i suoi film (compresi i migliori, da «Nel corso del tempo» a «Il cielo sopra Berlino») e che l’unico legame con la promozione della città è appunto quell’interrogarsi sulla precaria condizione umana a partire dai segni reali e da quelli artistici: il celebre affresco di Palazzo Abatellis (peraltro chiuso: atto di onestà encomiabile del regista e dei committenti), le mummie delle Catacombe dei Cappuccini, la surrealtà dei vicoli in cui fa capolino persino una pecora smagrita che esce da un sottano. I simboli di un eterno passato si legano all’arte moderna: nei sogni/incubi di Finn troviamo gli orologi liquefati di Dalì e l’espressionismo cinematografico dei maestri tedeschi. Dunque molte citazioni, di altissima qualità visiva, e una trasparente parafrasi de «Il settimo sigillo» di Bergman di «Blow-Up» di Antonioni. Non è un segreto: nei titoli di testa i due maestri sono esplicitamente omaggiati e Wenders appartiene alla generazione post-moderna che teorizzava che tutte le storie erano già state raccontate.  In una recensione si legge che «Palermo shooting» è un film profondamente sbagliato (un termine che nessun critico dovrebbe usare), ma poi spiega che film sbagliati come questo sono graditissimi e quasi necessari.

Nonostante i fischi con cui è stato accolto a Cannes, infatti, il film è opera d’autore e d’artista autentico, che trascende il «già detto» di tante sequenze. A Wenders basta il suo occhio magico per ipnotizzare lo spettatore.  Infine, per tornare alla provocazione iniziale (girare un Cagliari, o Sassari, o persino Orgosolo Shooting), finisce per riaprire una discussione che, un anno e mezzo fa, sembrava quasi banale.

Palermo ShootingChi scrive, ad esempio, optava per «dare i soldi» a qualche autore sardo (ad esempio a Giovanni Columbu che sta girando, con grandi difficoltà finanziarie, «Su Re»), ma oggi, pur senza abbandonare il sostegno prioritario ai registi locali, si entusiasma al pensiero di ciò che sarebbe accaduto se davvero Wenders fosse sbarcato in Sardegna. In poche parole, discussioni alla «Padre padrone»: non c’è la Sardegna, è tutto falso. E magari anche Wenders sarebbe stato d’accordo.  Però, in cent’anni di esplorazioni cinematografiche della Sardegna, se c’è una cosa che è mancata è proprio lo sguardo d’autore: poche eccezioni (Duse, De Benedetti, De Seta, Syberberg, Taviani), quasi sempre orientate verso l’esotismo romantico e il letterario. Ci vuole anche qualcuno che si dimentichi di storia, antropologia e cultura e che si lasci andare al potere dello sguardo e delle immagini, alla pura attrazione visiva di un luogo da modellare con l’arte del montaggio. Poi magari gli spettatori scopriranno da soli il significato (se pure c’è) della pecora in mezzo ai vicoli di una metropoli.
Dalla Nuova Sardegna dell'8.12.2008

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