"Milk" di Gus Van Sant
di Elisabetta Randaccio
Dopo la straordinaria trilogia sperimentale (“Elephant”,2003,“ Last days”,2005, e “Paranoid park”, 2007) il regista Gus van Sant torna, almeno in parte, ad una struttura linguistica e narrativa tradizionale, nonché ad un budget più consistente per la realizzazione di "Milk" sulla vita di Harvey Milk, il primo statunitense dichiaratosi gay che ebbe una carica istituzionale (nella città di S. Francisco). Van Sant narra gli ultimi otto anni della breve esistenza del suo personaggio (1930-1978) focalizzando il suo interesse sulla scelta “naturale” di Milk di impegnarsi per il rispetto dell'uguaglianza dei diritti civili per i gay, prima sperimentando un cambiamento culturale nel suo quartiere di Castro (la zona cattolica irlandese di Frisco, diventata “il rifugio” degli omossessuali californiani) e, in seguito, attivandosi in politica. Dopo varie candidature fallite, entrerà nell'amministrazione di S. Francisco, appoggiato dal sindaco democratico Moscone. L'attenzione del regista è, però, pure puntata sul racconto degli anni settanta in America, con i costumi e la cultura in costante cambiamento, con il suo kitch, le sue esasperazioni, ma il sincero desiderio di mutare una società ipocrita e ingiusta, applicando alla lettera il dettato della costituzione. Milk si muove in questo universo di forte spinta ideologica e creativa, di voglia d'amore e pace, ma anche di diritti rispettati e il suo discorso “d'insediamento” riflette tale filosofia con parole semplici e appassionate. Quel giorno Milk portò sul braccio la fascia nera con il triangolino rosa, lo stesso simbolo che i nazisti ponevano nelle divise dei gay rinchiusi e sterminati nei campi di concentramento insieme agli ebrei e ai dissidenti.
Nei suoi tre precedenti indimenticabili film, van Sant sottolineava il fenomeno dell'assassinio e del suicidio come paradigma “naturale” di una società alienata e, anche in quest'opera, ritorna la figura del killer, un frustrato amministratore con personalità debole e tanto rancore, che uccide i “suoi nemici” Milk e Moscone in maniera preteritenzionale e paranoica, attraversando i corridoi del municipio senza nessuno che lo noti o lo fermi, come accadeva nel capolavoro “Elephant” con i ragazzi assassini-suicidi della scuola Columbine. Anche questo killer della porta accanto - “aiutato” da una sentenza che afferma come i suoi problemi psichici siano derivati dal nutrimento eccessivo di merendine (!) -, farà una fine drammatica (ce lo dicono i titoli di coda). Per Van Sant, ancora una volta, la violenza improvvisa sembra insita nelle dinamiche sociali USA. Ad approfondire il ritratto psicologico del protagonista, soprattutto attraverso contraddittori rapporti amorosi, ci pensa Sean Penn: il film è scritto su di lui, sul suo viso, sulle sue prime rughe, sulla sua voce, sul suo corpo e sulla sua sensibilità di attore e di uomo. Se l'anno passato con "Into the wild" è stato un regista perfetto, con Milk ci conferma la sua grandezza interpretativa.