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Frost/Nixon di Ron Howard

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
 
Frost/Nixon, locandinaSe fosse vissuto nella Hollywood degli anni d'oro, Ron Howard sarebbe stato un regista tipico: professionista e non invasivamente autoriale, da riscoprire post mortem. In realtà, conta una carriera di successo, ma non riesce ancora a convincere la critica, diffidente e snob nei confronti di un attore televisivo (incarnerà sempre il “mitico” Ricky Cunnigham di “Happy days”) senza infamia e senza lode, diventato un ottimo mestierante.
Howard lavora incessantemente, alternando blockbuster premiati dai pubblici di mezzo mondo (da “Splash”, 1984, al “Codice da Vinci”, 2006) a pellicole notevoli come “Cocoon” (1985) e i recenti “Edtv” (1999), “A beautiful mind” (2001) e “Cinderella man” (2005). Ha appena finito di girare “Angeli e demoni”, il prequel del “Codice da Vinci”, ma esce in questi giorni sugli schermi italiani con “Frost/Nixon”, assolutamente da non perdere. Basato su un testo teatrale di Peter Morgan e sceneggiato dallo stesso, ormai una sicurezza tra gli scrittori di Hollywood (sono suoi i copioni, tra l'altro, di “The Queen” di S. Frears e di “L'altra donna del re” di J. Chadwick), riprende un “duello” televisivo, diventato, ormai, documento storico: l'intervista che Richard Nixon rilasciò, previo un sontuoso assegno assai soddisfacente per il proverbialmente avido presidente, a un intrattenitore televisivo di mediocri talk show, David Frost, che forse, quando ebbe l'idea del programma, non si rendeva ben conto di ciò che sarebbe accaduto.
 
Frost/NixonFallimentare nelle vendite pubblicitarie “preventive”, la sua conversazione con Nixon, a cui riuscì a far ammettere abuso di potere, errori strategici e amministrativi, persino tradimento nei confronti del popolo americano, divenne un successo giornalistico e di spettacolo straordinario. Howard e Morgan affrontano l'argomento con la sicurezza di chi riesce a trasformare un' intervista storica in un film costruito classicamente rispettando la topica hollywoodiana, a cui, perciò, non mancano i momenti drammatici, quelli di alleggerimento, la tensione, la risoluzione finale. Non si tratta, però, di mero divertimento; il regista si avvicina a Nixon dal punto di vista opposto di quello scelto da Oliver Stone per il film a lui dedicato, cioè un taglio da tragedia shakespeariana, utilizzando acuta critica, senso dell'umorismo e della satira, impietosa osservazione sociologica. Nixon risulta, così, un prodotto tipico della politica spettacolo senza scrupoli e Frost, mai mostrato come eroe o “giornalista d'assalto”, l'incarnazione dello “spirito” televisivo contemporaneo, senza ideali, in cerca di un successo planetario, che investe tutti i suoi soldi per un sensazionale scoop.
 
Nixon, impersonato da Frank LangellaSono due patetici eroi dei nostri tempi, capaci di compiere azioni orribili per ansia di potere e denaro. Ron Howard, dunque, non cerca l'empatia dello spettatore e agisce sul pubblico con un senso di straniamento quasi “brechtiano”. Attento a restituire l'aria d'epoca grazie alla fotografia “sporca” di Salvatore Totino, si conferma direttore di attori in stato di grazia. In questo caso, Frank Langella che, dopo una carriera quarantennale sottotono, trova il personaggio della vita. Il suo Nixon è più Nixon di Nixon: una maschera ambigua e inquietante, calcolatore anche nell'ultima commozione in primo piano, lasciandoci giustamente il dubbio che quella confessione tardiva sia stata sapientemente elaborata dal suo staff e dal suo devastante narcisismo.
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