"Gummo" di Harmony Korine
di Maria Luisa Crisponi

Un tornado si è abbattuto su Xenia, nell’Ohio. Le immagni di un documentario sono quelle risalenti al super outbreak del 1974 che costò la vita a 34 persone. Korine parte da qui, da un fatto realmente accaduto, per ricreare una realtà post-apocalittica dove gli unici superstiti sono quasi tutti ragazzini. La voce di Solomon, un nome che rimanda al Re biblico e al suo vasto impero (beffardamente nel film questo impero è stato distrutto), racconta di come la catastrofe abbia ucciso molte persone, quasi tutti adulti, abbia sventrato case, sepolto una società di cui restano solo i bambini che si aggirano tra la spazzatura come cani randagi. Intanto corrono le immagini (un footage che sembra casuale, ripreso con una super8 da una mano poco esperta) di quello che forse poteva essere la vita nella cittadina di Xenia. Una filastrocca iniziale, così innocente ma così sboccata, ci prepara a quello che sarà dopo: uno spaccato di vita tra i white trash d’America, quella degradata e meno conosciuta. Come nei migliori viaggi verso dimensioni altre ci vienie in contro e ci accompagna per mano un Bunny Boy, un ragazzo che indossa delle orecchie da coniglio: riferimento al Bianconiglio di Carroll o la fine pietosa di un altro mito, anch’esso americano, quello della Looney Tunes (Bugs Bunny e il suo accerrimo nemico, Yosemite Sam, che nel film di Korine sarà impersonato da due ragazzini altrettanto violenti e belligeranti)?

Un’America allo sfacelo con i suoi drammi di vita quotidiana restituiti con lo stesso distacco e freddezza di un documentarista antropologo e all’interno del quale Korine innesta i sui film, le sue visioni: ragazzi che uccidono gatti randagi per rivenderli al ristorante locale e avere in cambio della colla da sniffare, due fratelli skinheads che hanno ucciso i propri genitori, la testimonianza di una bambina violentata più volte dal padre, il racconto dettagliato e raccapricciante dell’uccione di un gatto, confessioni suicide, icone sataniche, santi, ubriachi che giocano a distruggere una sedia, gemellini omozigoti che sognano di diventare ricchi e comprarsi gli amici con i soldi ricavati vendendo dolcetti, messe sataniche, le preoccupazioni di una ragazza a cui asporteranno un seno ecc.

Partendo quindi da una realtà documentata (quella del tornado), Korine ne costruisce un’altra di finzione. Per far ciò però ricorre ad una scelta stilistica che si trova nella zona neutra tra documentario e fiction: non è una docu-fiction, non è un mockumentary, non è cinema verità, non è cinema dogma, non è uno snuff e non è un mondo movie. Korine, a mio parere, si colloca in quel polo neutro che Barthes, riferendosi alla scrittura, definisce come il grado zero.

Decostruzione delle regole da un lato, non-sense, descrizione organica dall’altra che, unite, danno vita ad una narrazione cristallina, un crollo degli schemi senso-motori che fa posto a situazioni ottiche e sonore pure alle quali i personaggi non possono reagire, dove la visione sostituisce l’azione (G. Deleuze “Cinema 2: L’immagine-tempo”).