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Percorso

"Il riccio" di Mona Achache

di Cristina Muntoni
 
''Il riccio'' locandinaTutte le famiglie felici sono simili fra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. E’ l’incipit di Anna Karenina a smascherare Renée che, “come ogni brava portinaia” non dovrebbe aver letto Tolstoj, né commuoversi per i film Yasujiro Ozu né per qualunque cosa che possa allontanarla agli occhi del mondo dal cliché della portinaia sciatta, mediocre e teledipendente. E soprattutto invisibile. Ma invisibile Renée - interpretata da una Josianne Balasko che fatica a realizzare la metamorfosi che si legge nelle pagine de "L’eleganza del riccio" da cui è tratto il film - non resterà a lungo. A guardarla veramente e a scoprire il suo raffinato mondo interiore, aldilà del perfetto nascondiglio di banalità con cui si difende dal mondo, saranno due inquilini dell’elegante palazzo in cui lavora. Tra un viavai di lussuosa vacuità, saranno il giapponese Kakuro Ozu e la dodicenne Paloma Josse a togliere il velo, incapaci di fermarsi alle apparenze: l’uno per affinità elettive, l’altra per condizioni parallele. A differenza del romanzo di Muriel Barbery l’unica voce narrante ne Il Riccio di Mona Achache è Paloma. Una scelta che cancella molto della ricercatezza intellettiva di Renée e della ricchezza descrittiva della sua evoluzione emozionale.
 
''Il riccio''Paloma decide di suicidarsi il giorno del suo tredicesimo compleanno “perché la vita è assurda” e “la gente crede di inseguire le stelle invece finisce come un pesce rosso in una boccia”. E come Renée, anche lei nasconde il suo vero io, fatto di una saggezza dissacrante che la costringe a una struggente solitudine affettiva. Nei 160 giorni che la separano dalla data prestabilita, Paloma decide di non vivere “vegetando come una verdura marcia” perché “l’importante non è a che età morire, ma quello che si fa quando si muore”. E se in Taniguchi i protagonisti muoiono scalando l’Everest, Paloma,- la cui rappresentazione del mondo interiore è affidato all’interpretazione di Garance Le Guillermic e ad incursioni di animazione in bianco e nero - decide che il suo Everest sarà un film: il suo. Inquadrerà la vita che la circonda per lasciare un’eredità morale e una spiegazione a un gesto estremo: il mondo degli adulti è un assurdo teatrino, vuoto e superficiale.
 
''Il riccio''Una scelta cinematografica efficace con cui la Achache reinterpreta il testo del romanzo (l’Everest della Paloma di Barbery è un bisogno intellettuale e annota su un quaderno i suoi pensieri). Ma del tessuto narrativo, la giovane regista – dal cui lavoro, non a caso, la Barbery ha preso le distanze - non riesce a rappresentare la ricercatezza del mondo delle protagoniste. Un mondo di cui lascia intravedere ruvidamente solo uno scorcio, ma per averne l’esatta percezione non basta la citazione di Renée a Le sorelle Munekata di Ozu quando vede una stampa dal suo vicino giapponese. Non basta riconoscere il Requiem di Mozart nella sinfonia che riecheggia nel bagno di Kakuro. E non basta nemmeno chiamare Lev il suo gatto, in omaggio all’autore russo del suo romanzo preferito. Manca la magia.
 
''Il riccio''Manca il processo alchemico che nel segreto di una guardiola trasforma una donna ombrosa in un essere luminoso e, a suo modo, bellissima. Manca la musica, quella giusta. Perché la colonna sonora di Gabriel Yared – premio Oscar per le musiche de "Il paziente inglese" – non è quella che accompagna l’estasi con cui la Renée del romanzo si distacca dal mondo e dalla tv spazzatura, tenuta accesa “per non destare sospetti”. Manca tutta la ritualità del tè al gelsomino, che la Balasko prende in tazze grossolane da caffè americano. E lo fa con la stessa fretta da cui invece rifugge la Renée originale che il tè  lo sorseggia piano, perché “non è una bevanda qualunque. Quando diventa rituale, rappresenta tutta la capacità di vedere le piccole cose”. E soprattutto manca tutta la tensione emotiva della scoperta della Bellezza. Quel viaggio delicato e sorprendente che porta a conoscere veramente chi abbiamo di fronte. Quel viaggio in cui, aldilà delle apparenze, permettere all’altro di svelare il proprio vero io diventa la più alta forma di seduzione.
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