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Percorso

Virzì o l'anti Avatar

A tu per tu col regista protagonista a Palermo di un ricco momento di scambio con gli studenti dell'Università.  "Rispetto a  Cameron è come se facessimo due mestieri completamente diversi". E si vede. di Luisa Mulè Cascio

Paolo Virzi'Il regista Paolo Virzì e lo sceneggiatore Francesco Piccolo hanno preso parte a un incontro mattutino, tenutosi il 21 gennaio, presso l’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo, per un dialogo/confronto con gli studenti dell’ateneo palermitano.
Virzì  ritorna a Palermo in occasione dell’uscita del suo ultimo film, dal titolo "La prima cosa bella," presentandolo al pubblico la sera del 20 gennaio nei cinema Arlecchino e Aurora. Le proiezioni sono state anticipate anche da un breve e divertente intervento del duo comico palermitano Ficarra & Picone.
"La prima cosa bella", ambientato nella città natale del regista, Livorno, vede come perno della storia la figura pregnante e colma di significato di Anna (interpretata dal binomio Micaela Ramazzotti/Stefania Sandrelli), una donna moderna per i suoi tempi, che incarna tutti i connotati della femminilità: dalla bellezza, alla maternità, alla frivolezza, alla gioia, al candore.
Anna è  una mamma fuori dal comune: apparentemente un po’ buffa e superficiale, preda di uomini dallo scarso valore morale, screditata e additata da una città dalla mentalità provinciale, ama i suoi figli con passione e tenta d’instillare in loro quella gioia e quella felicità, un po’ infantili, di cui è carica, e che le da la forza di affrontare terribili situazioni.
Valerio Mastandrea e Stefania Sandrelli in una scena del filmAnna cerca, fino alla fine, di aiutare i propri figli a vivere al meglio, spronando con amore e semplicità l’introverso e depresso Bruno, e insegnando a un’esuberante ma comunque rigida Valeria a seguire il suo cuore, lasciando da parte le convenzioni.
«Questa madre/donna già così moderna per l’epoca in cui vive» spiega Francesco Piccolo, co-sceneggiatore del film «lascia alla figlia, paradossalmente non moderna sebbene più giovane, verità e sincerità e la necessità di liberarsi di alcuni “paletti”».
La prima bella cosa è un film che suscita nello spettatore commozione e contemporaneamente ilarità. Riesce, attraverso battute scherzose o situazioni divertenti, a mostrare difficoltà e problemi riguardanti i diversi aspetti della vita di un essere umano.
All’incontro con gli studenti, curato dal L.U.M. (Laboratorio Universitario Multimediale) di Bagheria in collaborazione con la Medusa Film, hanno presto parte Roberto Alajmo (che ha moderato il dialogo) giornalista Rai e scrittore, Rino Schembri, docente della cattedra di Storia e Critica del Cinema, Vincenzo Guarrasi, preside della facoltà di Lettere e Filosofia e Francesco Lo Piparo, direttore del dipartimento Fieri della facoltà di Lettere e Filosofia.

Schembri, Alaimo, Piccolo, Virzi', Lo PiparoIn occasione dell’evento il regista Paolo Virzì ha concesso di rispondere ad alcune domande:

Perché  è stato denominato “l’anti-Avatar”?
I giornalisti mi chiedevano con cordoglio dell’uscita di Avatar, lo stesso giorno del mio film. Allora scherzavamo (io e il mio staff) dicendo che Avatar ha il 3D, mentre noi l’affetto, come punto fondamentale. La nostra “sfida” non era affatto nei confronti di "Avatar", ma verso Verdone, verso il cinema italiano.
Rispetto a  Cameron è come se facessimo due mestieri completamente diversi, poiché Avatar è un film di grande effetto puramente visivo. La cosa infatti non mi turbava perché si parlava di due diverse tipologie di pubblico. Noi abbiamo avuto il nostro successo e non eravamo preoccupati per il contrario.
Io non sottoscrivo lo sguardo apocalittico di Roberto Faenza circa la morte del cinema e dell’attore. Io credo che con questo tipo di film si ritorni al concetto di cinema come fenomeno da baraccone. Il cinema nasce come fenomeno da baraccone, poi diventa mezzo per raccontare storie.
Comunque sia anche noi abbiamo usato le moderne tecnologie, per esempio per aumentare il numero di comparse, oppure per anticare alcune immagini.

Piccolo e Virzi' durante l'incontroDa cosa nasce la voglia di mostrare, attraverso la pellicola, figure femminili così cariche di significato, in riferimento non solo al suo ultimo film, ma anche ad altri suoi lavori, come "Tutta la vita davanti" oppure "Ovosodo"?
In "La prima cosa bella", come in altri film, la donna rappresenta un po’ la chiave di tutto, il motore, la luce della storia. È una figura femminile molto femminile, nel senso che, oltre alle altre qualità, è anche frivola, candida, entusiasta della vita. Nel film tutto questo entusiasmo e questo candore nascono da una donna che è vittima degli uomini (uno più scadente dell’altro) e della città dove vive, in cui le chiacchiere e la maldicenza l’hanno screditata.
Anna non è un’eroina in assoluto, commette sbagli, al contrario di Marta di "Tutta la vita davanti", che guarda la società con sguardo filosofico. Anna è quasi come una bambina piena di gioia, ed è proprio questa sua gioia la sua grande magia e la medicina che guarisce le ferite dei suoi figli, soprattutto quelle di Bruno. Lui fatica ad abbandonarsi alla gioia di Anna, anche se questo è l’ultimo regalo che questa mamma un po’ sciocca ma carica di poesia gli dona.

Un momento dell'incontro all'Aula Magna all'Università degli studi a PalermoPerché  scegliere Livorno, la sua città  natale, come location per il suo film?
Il film sicuramente poteva svolgersi anche altrove, ma facendo io la regia mi sentivo, scegliendo Livorno, di avere in mano del materiale che conoscevo in prima persona.
Livorno ha una sua carica erotica, è  una città spavalda, con qualcosa di tenebroso dentro, dato anche dalla provincialità. Le maldicenze su Anna nel film, per esempio, mostrano uno scenario un po’ “da paese”. La Livorno che ho mostrato è anche un po’ immaginaria, romanzata. Ci sono tante facce in questa città. C’è verso di essa un sentimento doppio, di affetto e di rabbia, soprattutto dal punto di vista di Bruno, che prova risentimento per essa non appena guarda il cartello stradale di benvenuto.
Un altro elemento che contraddistingue Livorno è l’orgoglio, di cui non ha proprio motivo, essendo una città in crisi, dove si vive più di pensione che di altro. Ma, nonostante questo, c’è un attaccamento profondo all’identità da parte dei cittadini, che guardano con disgusto chi lascia la città per trasferirsi altrove. C’è qualcosa di ambivalente, che suscita simpatia ma anche schifo, sentimenti espressi nel film.
Comunque sia girare questo film a Livorno mi ha permesso di ritornare nella mia città senza soffrire, come succedeva prima, quando studiavo a Roma. Ora torno con un senso di tenerezza, con la stessa sensazione di quando si ritorna dai propri genitori.

Ua scena del filmApparentemente sembra che le attrici Micaela Ramazzotti e Stefania Sandrelli abbiamo qualcosa in comune che va ben oltre la somiglianza fisica, è per questo che sono state accoppiate per interpretare il personaggio di Anna?  
Si, per quanto riguarda la “Sandrellitudine”è vero. La sfida vera era questa, cioè usare due persone per il personaggio di Anna che non fossero solo “sosia”, ma che avessero qualcosa di caratterialmente simile. Entrambe sono gioiose, buffe, un po’ svampite, simili anche nella realtà. C’era qualcosa nell’intimità che le accomunava. Comunque sia c’è anche da dire che Micaela ha molto studiato la figura della grande attrice  Stefania Sandrelli.

Nel film torna il tema del vuoto, quell’ovosodo del suo omonimo film, è possibile quindi fare un parallelismo tra Piero Mansani e Bruno?
Non proprio, perché l’ovosodo finale di Piero Mansani era straziante, delinea un finale amaro  mascherato da happy ending, poiché rappresenta sempre il concetto di non essersi allontanato dal proprio destino, dato dalla condizione sociale. Bruno, invece, ha un vuoto interiore per non provare sentimenti, perché essi l’hanno ferito profondamente. È come se volesse anestetizzarsi dalla vita.

Lei nasce come sceneggiatore, si diplomò con questa qualifica al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, quindi quanto c’è in Paolo Virzì di sceneggiatore e quanto di regista?
Quando studiavo al Centro Sperimentale di Cinematografia avevo una posizione polemica nei confronti della figura del regista. Pensavo che per un film bastasse una buona sceneggiatura. Poi ho capito che era un tutt’uno. Lavorando per la prima volta sul set per il mio primo film capii che era davvero complicato dirigere un film. Rimango uno sceneggiatore, che però usa la macchina da presa. Non c’è molta differenza tra scrivere, disegnare e realizzare un film, è tutto collegato, assemblato assieme. 
 
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