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Percorso

''Il profeta'' di Jacques Audiard

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Il profeta'' locandinaMentre scorrono gli ultimi fotogrammi de “Il profeta”, la colonna sonora propone la celebre “La ballata di Mackie Messer” di Brecht-Weill che apre “L’opera da tre soldi” dei medesimi autori. Forse da qui, da quei versi  introduttivi della scrittura drammaturgica più famosa di Brecht (“Quanti denti ha il pescecane/e a ciascun li fa veder/ e Macheath, lui ha il coltello/ma chi mai lo può saper./Sbrana un uomo il pescecane/ed il sangue si vedrà./Mackie ha un guanto sulla mano/nessun segno resterà…) si può comprendere meglio il personaggio di Malik, protagonista di una pellicola eccellente firmata da Jacques Audiard, nome in Italia poco noto, benché sia un regista e sceneggiatore importante e rispettato in Francia, nonché figlio d’arte.

Cosa c’è di brechtiano nel “Profeta”? Sicuramente la mancanza di empatia provata dallo spettatore durante il film, che permette di analizzare con freddezza la storia e i personaggi. Difficile, infatti, identificarsi nel protagonista, il quale per sopravvivere nell’inferno carcerario, a cui la sua vita da emarginato lo conduce con ovvietà, deve subito uccidere un uomo in maniera forzatamente brutale.

''Il profeta''La scena dell’omicidio è, tra quelle di violenza, assai “scorsesiana”, l’unica veramente coinvolgente a livello emotivo. Le altre Audiard, con abilità, le spalma durante la narrazione, supportato da un montaggio dinamico, una musica decontestualizzata, uno stile che contamina il realismo e il visionario. Così, lo spettatore osserva con “straniamento” razionale l’adattarsi di Malik all’istituzionalizzazione sociale (inutile) per eccellenza attraversando gli orrori, i meccanismi ambientali e umani che lo porteranno a “crescere” e a diventare, da misero emarginato analfabeta, a futuro boss della malavita, capace di giocare pericolosamente su tre “piatti” e vincere. Il carcere livido (la fotografia splendida è di Stephane Fontane) e le sue dinamiche non si allontanano dalla società “esterna”, con cui peraltro, si resta in contatto in continuazione, soprattutto per pianificare la prosecuzione di crimini. Si potrebbe dire, sempre citando Brecht, che Malik intuisce quanto “il suo senso pratico gli faccia intendere l’intima unione esistente fra la sua sicurezza e la sicurezza di quella società”.

''Il profeta''ll ragazzo ha una capacità di difesa psicologica straordinaria, riesce a dominare le sue vere intenzioni, sfruttando le opportunità, imparando - lui arabo francese analfabeta - le lingue dei “dominanti” (francese, corso, italiano) per capire in silenzio e elaborare le proprie adeguate reazioni. Persino il “fantasma” di quel suo primo, terribile assassinio, il quale lo ha precipitato nel mondo degli “adulti” e che gli appare nei sogni quanto durante la giornata, non può distruggerlo perché diventa la visibilità accettata della sua coscienza. Non a caso, sparisce quando, durante l’isolamento cercato per stare fuori dalle terribili vendette dei corsi, Malik, ormai, ha ben presente la sua potenza, la sua leadership. Lo spettatore ha seguito il suo sguardo in soggettiva per buona parte del film: osservare per comprendere è un metodo vincente del giovane, tanto quanto ascoltare.

''Il profeta''Il regista, attraverso una bella sceneggiatura rielaborata da uno script originale di Abdel Rauf Dafri e Nicolas Perfaillit, non accentua gli stereotipi del genere carcerario, persino l’eventuale rapporto padre-figlio tra Malik e il “padrino” corso Cesar, è trattato con distacco, perché non è quello il centro della storia. E cosa dire dell’amico Ryad, ammalato di tumore, il quale non si pone alcun problema ad organizzare una strage di malavitosi? La sua residua vitalità è riposta in un figlio piccolo, il resto è inesistente perché la sua condanna è segnata e la morte gli regalerà un’ultima visione di cielo e foglie marroncine.
Come chiunque viva in maniera claustrofobica, Malik ha le sue pause – anch’esse vissute quasi oniricamente – nella natura: quando respira forte il vento e immerge i piedi nel bagnasciuga di un mare cristallino.

''Il profeta''Sono, però, solo momenti sporadici di una personalità irrigidita, ormai naturalmente adattata alle leggi della prevaricazione e della conquista del potere, che gli saranno particolarmente utili (suppone lo spettatore attraverso la citata ballata di Mackie) nel mondo “libero” (?).
“Il profeta” si rivela una bella sorpresa della stagione e dimostra la vitalità del cinema francese, capace di percorre strade differenti rispetto alla propria produzione standardizzata. Semmai l’indecenza, ancora una volta, è la versione italiana doppiata, costretta contradditoriamente, ogni tanto, ad usare i sottotitoli. Le varie lingue parlate dai protagonisti, i loro incroci, gli slang sono appiattiti non solo dalla traduzione italiana, ma, in certe sequenze, rese ridicole dagli stessi nostri doppiatori nel tentativo di imitare il corso.

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