Percorso

Monicelli, l’ultimo saluto senza funerali

Il regista morto suicida a 95 anni era atteso a Cagliari il 16 dicembre ospite di una rassegna a lui dedicata. Oggi la salma alla Casa del cinema di Roma, poi la cremazione. Solo una settimana fa aveva criticato aspramente i tagli alla cultura. di Elisabetta Randaccio

Mario Monicelli“Scacco alla morte” si doveva (dovrebbe) intitolare una delle relazioni per il convegno su Mario Monicelli pensato dall'Associazione “Alambicco” come conclusione alla rassegna a lui dedicata il 16 dicembre prossimo.  La morte, nei film di quello straordinario artista che è stato Monicelli, è la “grande mietitrice” da non sfidare a scacchi come nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman, ma da esorcizzare con lo sberleffo, in maniera adolescenziale, quasi fosse sempre tanto lontana.

Ci si può ridere con umorismo di tipo pirandelliano, quello producente uno strascico di malinconia e di riflessione, ma nella vicenda di un film (pensiamo al decesso “comico” di Cosimo nei “Soliti ignoti”) la morte poteva diventare anche un complemento fondamentale di una sceneggiatura da commedia. Il pubblico, soprattutto quello che aveva visto gli orrori, magari da bambino, della seconda guerra mondiale, poteva riderne senza sentirsi in colpa.

''I soliti ignoti''Mario Monicelli, dunque, da laico convinto, aveva una idea “razionale” della morte e, così, il 29 novembre, per ragioni ancora sconosciute ufficialmente,  le quali forse sarebbe meglio per rispettare ancora una volta la sua estrema dignità, non approfondire, ha scelto di concludere la sua vita a 95 anni, uno dei registi più importanti del nostro cinema, uomo rispettato, coraggioso, coerente con le sue convinzioni, che, appena una settimana fa, in una breve telefonata al programma radiofonico “Hollywood party” aveva la fermezza di dichiarare demenziali i tagli alla cultura, alla ricerca, alla scuola pubblica previsti da questa legislatura, “perché con la cultura non si mangia” ha detto qualcuno, in compenso ci si riduce alla passività che sfiora l'idiozia, come può essere agognato da un potere degno di “1984” di Orwell. Inoltre, quando un uomo anziano si toglie la vita, ci si sente come davanti all'immagine proposta da De Sica in “Umberto D.” (1952): un pensionato senza speranze di indipendenza economica a cui il governo non riconosce neppure l'essere stato, per lungo tempo, un cittadino produttivo e onesto il quale decide di buttarsi sotto un treno piuttosto che chiedere l'elemosina.
 
''Umberto D''Da spettatori ci sentiamo commossi e turbati. Nel caso di Monicelli l'idea di non poter più aver un controllo completo del proprio corpo malato e, magari essere sottoposto ad accanimento terapeutico in un paese che non ti lascia neppure la libertà di morire “naturalmente”, deve essere stata complessa da accettare. E poi, negli ultimi mesi, erano scomparsi la sua sceneggiatrice prediletta, Suso Cecchi D'amico con cui ha firmato buona parte dei suoi film (dal “sardo” “Proibito”, 1954, a “I compagni”,  1963, da “Caro Michele”, 1976 a “Le due vite di Mattia Pascal”, 1985) e il produttore - Dino De Laurentis  - con cui aveva realizzato le prime opere (scrisse nella sua autobiografia “Arrivarono quei pazzi di Ponti e De Laurentis che cominciarono a fare dei film contro qualsiasi regola economica e di mercato”) e il capolavoro “La grande guerra” (1959).
 
''Proibito''Insomma, una generazione sinceramente convinta in una rinascita innovativa del cinema italiano, dopo il secondo conflitto mondiale, pronta ad attuare il passaggio (col senno di poi, non doloroso, ma semmai nel segno della continuità) dal neorealismo alla commedia detta “all'italiana”. Interessanti, a questo proposito, le parole di Monicelli scritte nella sua godibile autobiografia a metà degli anni ottanta, parlando della sua passione per “il racconto cinematografico”, ovvero i brevi episodi assemblati in una sola pellicola, genere molto in voga e di buona fattura fino agli anni settanta, “Mi piacerebbe che qualcuno allestisse una retrospettiva  degli episodi che ho fatto (….), credo che messi in fila darebbero un quadro non disdicevole di un cinema che mi appartiene”, ma anche di un'Italia desiderosa di un cambiamento epocale, dalla miseria e dall'umiliazione alla stabilità finanziaria, a valori importati e a quelli rielaborati, dalla staticità alla dinamicità delle classi, fino alle delusioni, alle nuove tragedie, alle ritrovate difficoltà economiche, rese angosciose dalla società dei desideri.
 
Le rose del desertoI suoi film  sono, dunque, spesso spassose pagine di costume e di storia patria, così acute da sostituire cronache giornalistiche o pagine di manuali scolastici.
L'ultimo film “Le rose del deserto”, nato da una rilettura de “Il deserto della Libia” di Mario Tobino, lo girò (come piaceva a  lui) in esterni reali, nel caldo del deserto, tra fatiche sopportate meglio dei suoi attori e tecnici.
Perché ancora un film sul secondo conflitto mondiale, gli chiesero. “Perché la guerra fa schifo e dovremo tutti ricordarcene".
 
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1 dicembre 2010


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