"Il discorso del re" di Tom Hooper
Il consiglio di Elisabetta Randaccio
Come si può doppiare un film che tratta di un uomo con disturbi di linguaggio? Come si rende nella versione italiana la balbuzie, l'incertezza nella pronuncia delle consonanti, l'angoscia di dire uno sproposito, senza penalizzare l'opera?
E' ciò su cui si riflette vedendo “Il discorso del re” di Tom Hooper, il quale, secondo i critici e il pubblico di lingua inglese, vive sulla performance straordinaria di Colin Firth, interprete di re Giorgio VI, uno dei monarchi più amati dai sudditi della Gran Bretagna, soprattutto perché, mentre su Londra fioccavano le V2 e i bombardamenti devastanti, non volle allontanarsi dalla città, incoraggiando una popolazione allo stremo.
Cosa rimane di questa grande prova nella versione italiana? Ben poco, perché, essendo basata sul tentennamento vocale, il doppiatore (Luca Biagini) fa il possibile e, purtroppo, spesso, sfiora pure il ridicolo. Non estendiamo la critica, poi, alle altre voci: quella grottesca di Churchill, per esempio, è insopportabile quanto l'attore che lo impersona.
Per il resto, il film rientra in quella tipologia cinematografica di successo sulle vite private dei reali (soprattutto inglesi), funzionante assai bene sul grande schermo, il più delle volte. Certo, se confrontiamo “Il discorso del re” a “The queen” di Stephen Frears (2006), dove la protagonista era la figlia di Giorgio VI, ovvero Elisabetta II alle prese con il dramma politico-personale della morte della nuora Diana, il paragone non regge. “The queen” era firmato da un regista d'eccellenza con una attrice -Helen Mirren- che, anche nella versione italiana, riusciva a rendere una personalità sfaccettata e vagamente ambigua con una forza espressiva perfetta.
Così, è difficile ragionare sul “Discorso del re” e sui suoi interpreti.
La vicenda, seppure congelata anche da una forte impostazione “teatrale” e un montaggio senza fantasia, è, comunque, interessante. GiorgioVI-Bertie non doveva diventare re e questo elemento pesò sulla sua crescita: la governante lo trascurava, il padre lo inibiva, il fratello (il superficiale Edoardo VIII, il quale abdicò per amore della pluridivorziata Willy Simpson, donna politicamente ambigua con una simpatia non celata per il Nazionalsocialismo) lo sbeffeggiava, insomma quel difetto prominente di linguaggio era la conseguenza psicologica di una infanzia e una adolescenza alquanto infelici; neppure il matrimonio con Elisabetta (interpretata deliziosamente da Helena Bonham Carter, che si suppone, nella versione originale, mettesse in evidenza il suo malcelato accento scozzese), seppure sereno, placò la sua continua ansia di stare tra la gente e di parlare alla folla.
Fu un “esperto di difetti di linguaggio”, un attore fallito, il quale, però, durante la prima guerra mondiale, aveva fatto una fondamentale esperienza formativa aiutando i reduci con traumi di parola, Lionel Logue (Geoffrey Rush, anche lui appiattito dal doppiaggio) a riuscire a “curare” Bertie, restandogli vicino soprattutto nei momenti delicati dei discorsi alla nazione in tempo di guerra. Perché, in realtà, un altro elemento, messo in evidenza dal film, è la necessità dei potenti del Novecento di confrontarsi con i nuovi mezzi di comunicazione: la radio, il cinema e, solo in un secondo tempo, la televisione. Le trasmissioni radiofoniche, prima e durante la seconda guerra mondiale, entravano in tutte le case con velocità e “realismo”; l'influenza di una voce sicura, ben impostata oppure aggressiva e eccessiva, ricadeva pesantemente sull'ascoltatore e sulle sue opinioni politico-sociali.
Non solo. Pensiamo alla mitica performance di Orson Welles, uno semplice “sceneggiato” radiofonico della “Guerra dei mondi” di H. G. Wells, organizzato artisticamente con un'efficacia così empatica da essere creduta la cronaca di un'invasione aliena, creando panico e sgomento in vari stati degli USA nel 1938. Bertie, quindi, non solo per se stesso deve “imparare” a parlare dignitosamente, ma anche per affermare il suo status e il suo peso politico. Durante il film, il vecchio Giorgio V afferma “Un tempo, il re bastava si mostrasse nella sua bella uniforme e non cadesse da cavallo, oggi deve confrontarsi con un microfono”. E se la radio era il mezzo di comunicazione maggiormente popolare, nel film viene sottolineata pure l'importanza dell'immagine: le foto da realizzare in posa e le riprese (prima volta nella storia) dell'incoronazione da studiare con attenzione. La società dello spettacolo era già una realtà.
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