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"Il grinta" di Joel Coen e Ethan Coen

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Il grinta'' locandinaPer l’interpretazione del vecchio cow boy, duro, alcolizzato  e senza un occhio, una sorta di summa della sua filosofia attoriale da “Ombre rosse” (1939) in poi, John Wayne ottenne nel 1970 l’unico Oscar della sua carriera.

In un momento particolare, di rinnovamento della storia del cinema hollywoodiano, quando pure il genere “autoctono” per eccellenza del grande schermo americano stava decisamente mutando pelle, lasciando lontano gli “eroi” a tutto tondo, come quelli incarnati da “The Duke”, l’Acadamy Award premiò Wayne,  quasi a sottolineare il  suo tentativo di arricchire di sfumature (le debolezze morali e gli acciacchi fisici) il suo personaggio di pistolero per eccellenza. Fu pure un successo commerciale rilevante, tanto che nel 1975, venne realizzato un sequel, meno fortunato, dove Wayne era affiancato addirittura dalla grande Katharine Hepburn (da noi venne intitolato “Torna El Grinta”). In realtà, il libro da cui sono tratte le vicende del film è molto noto negli USA: lo firma Charles Portis, che partecipò alla sceneggiatura della prima versione cinematografica. I fratelli Coen pare siano partiti dal testo più che dalla pellicola del 1969, per girare il loro nuovo lavoro.

''Il grinta''Non ci crediamo, data la cinefilia dei due registi, i quali, peraltro, non sono nuovi ai remake (“Ladykillers”, 2004, una delle loro opere meno riuscite era la versione rigenerata della “Signora omicidi” di Alexander Mackendrick, 1955) e soprattutto perché, scorrendo la loro filmografia, capiamo quanto il western sia una loro passione. Senza tornare troppo indietro nel tempo, lo splendido “Non è un paese per vecchi” (2007) ha la struttura di un western classico e l’elemento (identificabile con il peccato originale di un intero popolo) della vendetta si ritrova in opere come “Fargo”(1996), per esempio. Certo, dopo i tanti film dedicati a demitizzare e a rinnovare il genere western, la curiosità per la creazione dei geniali fratelli Coen era sostenuta. Ancora una volta, sorprendendoci, i due registi compongono un film di struttura formale classica, che ha evidentemente al suo interno archetipi, tagli di ripresa, paesaggi, personaggi ben saldati nell’immaginario dello spettatore.

''Il grinta''L’ abilità dei Coen nell’arte della regia e del montaggio, ci fa appassionare a una storia che, nell’intreccio, si risolve velocemente e, quindi, ha bisogno di particolari (da molti critici considerati troppo dilatati) per attrarre il nostro interesse. Così i tentativi di Rooster (“Il Grinta” del titolo) e del ranger La Beouf, ironicamente tutto d’un pezzo, interpretato felicemente da Matt Damon, di riuscire a colpire delle tortillas di mais lanciate in alto, sono essenziali per capire due personaggi cialtroni e, nello stesso tempo, melanconicamente ancorati a un proprio mito, deteriorato dagli anni o dalle troppe bugie. La ragazzina che ingaggia Rooster per vendicare il padre ucciso (tradito nell’ospitalità per un cavallo e due pezzi d’oro della California) ricorda “l’incongruenza” della detective incinta di “Fargo”.

''Il grinta''Mattie (Hailee Steinfeld) sembra stonare in un universo di uomini violenti, sporchi, repellenti, invece, con le sue treccine e la sua incosciente volontà, è il personaggio con cui amici e nemici si confrontano e sono messi in crisi; Mattie, d’altronde, è un'adolescente frutto di quel mondo; non ha paura della morte: ha visto il padre ucciso (bello il fotogramma che riprende il corpo dell’uomo nel buio, accoccolato, mentre inizia a cadere la neve) e può tranquillamente dormire nella stanza del becchino tra bare e cadaveri d’impiccati, può toccare scheletri e assistere a uccisioni. Le scene finali ce la mostrano adulta, ma non doma, certa dell’influenza subita dell’iniziazione all’età adulta dalla strana avventura trascorsa  nella pubertà.

''Il grinta''Non si è mai sposata Mattie, i suoi “uomini”: il padre, “Il Grinta”, il ranger le hanno” impedito” probabilmente altri rapporti sentimentali. Ma questa sarebbe un’ altra storia.
I Coen non hanno, poi, sbagliato, nella scelta del protagonista. Bridges non potrebbe essere più differente di Wayne sia nel fisico che nell’interpretazione. E, se l’edizione italiana non può restituirci il balbettio incomprensibile da alcolizzato scelto dall’attore per caratterizzare il suo Rooster, gli spettatori a fatica dimenticheranno il suo personaggio, così in bilico tra l’essere uno sceriffo e un assassino, disposto per una volta almeno, a recuperare la figura protettiva, paterna, senza desiderio di ricompensa. 

Recensione precedente: "Another Year" di Mike Leigh

23 febbraio 2011

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