"Tatanka" di Giuseppe Gagliardi
A leggerle e a vederle trascritte sullo schermo, le storie di boxe, sociologicamente, appaiono, nella maggior parte, simili. Si tratta, infatti, di uno sport capace di indirizzare positivamente la propria aggressività, che deve essere controllata dalle regole e permette, a livello professionistico, anche una possibilità di riscatto economico. Così, il pugilato diventa, nelle realtà meno fortunate economicamente, un mezzo, un metodo, un obiettivo per ribaltare esistenze ai margini. Non a caso, in Sardegna, abbiamo avuto, soprattutto tra gli anni sessanta e settanta, una scuola boxistica rilevante e atleti competitivi provenienti da situazioni sociali non semplici. Lo stesso Muhamed Alì, l’artista eccelso della boxe, ha pensato il ring come un elemento portante della sua filosofia e come ambito deputato di denuncia della condizione della popolazione di colore negli USA in un periodo di grandi cambiamenti sociali. L’immaginario cinematografico di ogni spettatore, poi, conosce bene questo tipo di vicende, che hanno appassionato registi cinematografici di varie nazioni, sin dagli esordi del mezzo filmico.
Così, anche “Tatanka” è una storia di boxe e di formazione, di crescita e di perdita. Il regista Giuseppe Gagliardo, dopo aver ironicamente descritto un altro tipo di professione altrettanto permeata di riscatto sociale quale quella del cantante in “La vera storia di Tony Vilar” (2006), partendo da un racconto-saggio di Roberto Saviane nella raccolta “La bellezza dell’inferno”, inizia il suo film narrando con crudezza le adolescenze sbandate di due ragazzi (molto bravi Lorenzo Scialla e Vincenzo Pane) nella Marcianise dei margini, illegale e cafona (veramente bella la sequenza del matrimonio kitsch), incapace di offrire opportunità ai suoi giovani.
Gagliardi, con simile materiale, ha l’abilità di districarsi con sicurezza e alterna un’originalità interessante, non scontata nel riprendere le scene di combattimenti (forse, la parte migliore del film) e anche nel ritrarre alcuni momenti d’effetto (la già citata scena del matrimonio, il bambino cinese davanti allo specchio in palestra, le ambientazioni dei match nel centro commerciale, nella spiaggia, quelli clandestini nei suburbi berlinesi) ad altri purtroppo “già visti”, inficiati da una colonna sonora, la quale - soprattutto nelle scelte “classiche” -, è quasi insopportabile, probabilmente perché, da quando Martin Scorsese si è servito di Mascagni per commentare la vicenda di Jack La Motta in “Toro scatenato” (1980), l’uso decontestualizzato della musica come soundtrack degli incontri sul ring, sembra sempre una citazione ingombrante.