Percorso

Il gesto cinematografico e la conoscenza

Incontro con Felice Tiragallo, antropologo e fondatore del Laboratorio di etnografia visiva all'Università di Cagliari.  Ecco come la pratica del cinema diventa chiave di lettura quotidiana della nostra vita. Perché "c'è bisogno di navigare nella memoria storica di questa terra". di Salvatore Pinna
 
Felice TiragalloAbbiamo avuto modo di parlare di istituzioni del cinema che si formano quasi a margine dell’ufficialità normativa a proposito del Celcam e dello stesso ISRE di Nuoro. Si è visto che il cinema, in Sardegna, si fa, un pezzo qua un pezzo là, attraverso iniziative singole che non trovano un’unità di indirizzo e di programmazione. E stranamente si muove. Un’altra iniziativa sorta nell’ambito universitario, che si propone come importante luogo di formazione dell’agire audiovisivo in Sardegna, è il Laboratorio di Etnografia Visiva costituito all’interno del Dipartimento di filosofia e scienze umane della Facoltà di Lettere di Cagliari. Il fondatore e direttore è Felice Tiragallo, antropologo e docente di etnologia presso la Facoltà di Lettere di Cagliari. L’ambito in cui opera il Lev, Tiragallo ci tiene a precisarlo, è quello del documentario etnografico ed è strettamente legato alle esigenze di ricerca del Dipartimento in cui opera. Tuttavia non è difficile immaginare che anche questa istituzione darà una grande spinta al fare cinema in Sardegna anche grazie al senso pratico, all’umiltà dichiarata con cui ne favorisce la dimensione tecnica e linguistica.

Cos’è esattamente il Lev?
Il Laboratorio di Etnografia Visiva è un Centro Servizi di Dipartimento. È una specie di punto di arrivo ma anche il punto di partenza di un discorso su un certo tipo di pratica di cinema documentario che si intreccia molto strettamente a una pratica di lavoro antropologico ed etnografico. Questa piccola struttura che comunque produce, svolge attività, cataloga e mette a disposizione materiali, ha una dimensione di laboratorio che è la cifra, in cui mi riconosco, dell’attività etnografica in sé. Molti dei dottori di ricerca che si sono formati qua, hanno lavorato con la videocamera e hanno trovato naturale utilizzare questo mezzo per interrogare il terreno. Tutto questo richiedeva la presenza di un luogo dove fare montaggi, dove fare acquisizioni, dove sperimentare anche forme di catalogazione di materiali. Avevamo anche l’esigenza di dare una sede storica all’accumularsi, non enorme ma comunque abbastanza importante, di un materiale audiovisivo e fotografico pregresso.

Le tessitrici di IsiliLa pratica del cinema è un aspetto caratterizzante della sua formazione.
Ho incominciato con la pellicola a passo ridotto. In seguito ho avuto occasione di lavorare con una televisione privata, con la Rai poi, quindi mi sono impratichito nell’uso delle macchine professionali di ripresa. Di fatto ho incominciato a pormi una serie di problemi di metodo, di interpretazione e anche di teoria nel praticare l’antropologia visiva, oltre che per la mia formazione generale, proprio per il fatto che, a causa di queste competenze nel campo della ripresa, sono stato scelto come compagno di viaggio in alcune esperienze importanti. Una, in particolare, nei primi anni Novanta con Giannetta Murru Corriga che mi ha chiamato a fare un filmato sulla panificazione dell’orzo a Fonni (1991). L’altra grande palestra è stata la serie di documentazioni filmiche nel comune di Armungia dove con Maria Gabriella Da Re, dal 1992 al 1997, abbiamo realizzato quattro monografie filmiche nell’ambito del museo etnografico Sa Domu de is ainas annesso alla Casa Lussu. Si tratta di film che sono imparentati per qualche verso a un’idea scientifica di cinema. Descrivono pratiche  e processi tecnici tradizionali volendo dare un certo grado di esemplarità a ciò che filmavamo, da qui il loro stile “oggettivante” che abbiamo inteso equilibrare con la parola filmata  dei nostri protagonisti.

Questo paradigma della scientificità è stato messo un discussione da un film come “Tempus de Baristas” che David MacDougall ha realizzato con l’ISRE nel 1992.
MacDougall ha fatto i conti con una serie di problemi importanti che anche in antropologia sono diventati significativi. Cioè il problema dell’autorità etnografica, il problema della responsabilità di chi descrive, di chi osserva e del rapporto effettivo che nasce nel momento in cui il film viene realizzato. MacDougall ha posto il problema della legittimità dell’osservatore, della messa in discussione di una volontà oggettivante, di mettersi come la mosca nel muro che guarda, mentre gli altri vivono.

Le tessitrici di IsiliCome valuta l’attività dell’ISRE in tale ambito? Ci sono punti in cui la sua politica avrebbe dovuto essere più incisiva?
L’Etnografico ha avuto una grande importanza nella mia formazione soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo del dibattito sull’antropologia visuale. Forse ci si potrebbe chiedere se ha creato un suo pubblico territoriale, se ha creato un pubblico di produttori di antropologia visiva. Un altro punto problematico riguarda il collegamento tra il patrimonio, l’attività dell’ISRE e la formazione universitaria.

Cosa si intende per pubblico territoriale?
Penso l’esempio dell’Umanitaria come di un presidio nel territorio di un’attività che poi si irraggiava in varie zone. La cosa interessante dell’esperienza dell’Umanitaria, che non so francamente se sarebbe riproducibile oggi negli stessi termini, era il fatto che esisteva un centro che proponeva una circuitazione di film e proponeva un metodo. Poi, per gemmazione, era capace di replicare questa situazione di insegnamento.

Alcune recenti iniziative dell’ISRE, come Sieff in tour, sembrano muoversi in questa direzione.
Si tratta di una iniziativa importante e lodevole. Si può osservare che il momento di contatto col pubblico sembra un po’ difficile possa limitarsi soltanto a un Festival che si rinnova ogni anno e che mostra cose nuove. C’è una memoria storica che probabilmente va messa in comunicazione con un pubblico in modo diverso. Secondo me c’è bisogno di vedere le produzioni ultime, ma anche di vedere e rivedere costantemente il cinema di Jean Rouch, vedere i “vecchi” materiali di McDougall. L’Istituto ha materiali straordinari, di grandissimo interesse, praticamente tutta la storia della cinematografia etnografica che probabilmente può essere utilizzata per formare il pubblico anche degli specialisti, di quelli che diventeranno cineasti etnografici.

Nostra Sennora de BaluvirdeLa sua formazione di cineasta si è svolta in parallelo tra uso della telecamera ed educazione alla lettura del film, attività, questa, poco considerata in generale.
L’educazione alla lettura del film e all’attenzione filologica verso il film, è un gradino importante nella formazione. Sarebbe importante sviluppare anche corsi di formazione non solo per fare film ma anche per imparare a leggerli e analizzarli dal punto di vista della loro essenza filmica. Perché se da un lato formi soltanto degli autori crei una comunità che guarda i film nell’ambito di un enclave piuttosto chiuso. Se devi fare un'operazione più profondamente culturale la fai nella direzione di questo spirito, dello spirito di chi è capace di seguire, per esempio, manifestazioni come quella dell’ISRE partendo appunto dal film, da quello che esprime.

Parliamo delle più recenti produzioni cinematografiche realizzate nell’ambito del laboratorio di etnografia visiva. Un film come “Le tessitrici di Isili” è più che una semplice esercitazione.
Il film offre una sintesi abbastanza fresca e puntuale su una serie di problemi relativi al tema del mercato, dell’adattamento verso una forma di artigianato che è pensato dalle artigiane stesse come qualcosa che già si avvicina a un’idea moderna di produzione artistica. Emergono connotazioni riguardanti l’originalità, il distanziamento dalla necessità di fare prodotti che siano “utili”, che fa parte di un processo di costituzione di un ambito artistico in senso stretto. A prescindere dal valore del film è stato molto importante fare questo tipo di esperienza. È un momento molto formativo avere dimestichezza con cavalletti, con telecamere da portare, con cavi e con microfoni da raccordare, da imparare a posizionare, di problemi relativi all’armonizzazione all’equilibratura del colore fra telecamere diverse.

Il potere del canto“Il potere del canto. Note visive sul chiama e rispondi” (2011), che ha realizzato con Toni Pusceddu e Francesco Bachis,  non solo consente di capire l’essenza di quella modalità di cultura orale della Corsica, ma ha dei momenti in cui si coglie il gesto del cinema, il suo modo particolare di rivelare la realtà e di narrarla. Ricorda il più compatto “Nostra Sennora de Baluvirde”, girato a Dorgali, dove ricerca antropologica e gesto cinematografico danno vita a momenti di vera conoscenza.  
Il gesto cinematografico lo fai perché sei in una condizione quasi di affiatamento, di armonia con i movimenti che accadono. Nel film su Dorgali, a un certo punto, quando aumenta il ritmo di lavoro nella cucina aumenta anche il ritmo e la velocità degli spostamenti della telecamera che segue i movimenti. Ora queste cose si fanno perché si ha una certa abitudine a filmare, però è importante poi anche trasmetterlo. Questo tipo di mobilità si impara anche sulla base di una abilità del corpo. Io credo molto nei saperi corporali che sono anche un oggetto dei miei interessi di etnologo.

Seguendo le lampade“Seguendo le lampade” (2008), che nasce in un altro contesto - è stato commissionato dal Comune di Carbonia - è un documentario importante nella filmografia di argomento minerario.
Per “Seguendo le lampade” siamo partiti da un’idea, molto etnografica, di realizzare un archivio di immagini capaci di essere viste in loop nell’ambito di una sala del museo della grande miniera di Serbariu. Per questo tipo di fruizione non si può fare un film di un’ora e mezzo, anche se abbiamo accumulato, con Paola Atzeni e Andrea Mura,  un vasto materiale sul tema della memoria e sull’attività mineraria. Bisognava ridurre il tutto a unità narrative più piccole che potessero essere fruite individualmente da spettatori standard, da spettatori pendolari, in maniera tale che sulla base di un programma affisso all’interno della sala, si poteva accedere ai vari pezzi del materiale. Quindi lavoro in galleria, un pezzo di memoria, un altro pezzo di attività e così via, in maniera tale da creare una sorta di frammentazione narrativa. La scelta più difficile nell’organizzare questo materiale con Annalisa Porru è stata quella di non mettere parole sull’oggi, ma è anche la scelta di cui sono più convinto. Ho voluto scommettere fino in fondo in questa contrapposizione totale tra la parola rivolta al passato, alla memoria, alla rammemorazione da un lato e le immagini, invece della concretezza della vita di miniera come si può cogliere nel presente.

Seguendo le lampadeNon si può concludere questa chiacchierata sul cinema senza una domanda sul cinema sardo. Qual è il suo pensiero al riguardo?
Io non so se sia importante parlare di cinema sardo come di una dimensione peculiare. Secondo me è importante parlare della presenza in Sardegna e nel territorio di competenze diffuse sul tema della produzione filmica. Trovo importante, in generale per la società sarda, per la cultura sarda, ma anche dal punto di vista istituzionale, che ci siano delle norme, un ambiente sensibile a far vivere tutte le professionalità legate alla produzione anche del cinema commerciale e dell’attività pubblicitaria, delle competenze che ai più vari livelli, animano poi la fattibilità del cinema, la possibilità che il cinema sia fatto con competenze che rimangono nel territorio. Sul versante più autoriale è essenziale che in questi anni si siano formate delle personalità artistiche, certo, che hanno lavorato con uno sguardo peculiare su questa realtà che però, aggiungo io, potrebbero rivolgersi ad altre realtà, o a valorizzare le loro sensibilità estetiche anche nei riguardi di altri contesti.
22 giugno 2011
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