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"Roba da matti" di Enrico Pitzianti

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Roba da matti'' locandinaCenza ha appena pianto, seduta sul letto della sua camera nella “Casa Matta”. Si sente sempre colpevole di qualcosa, ricorda come da ragazza fosse “spensierata”, parla al regista che la inquadra con sincerità e complicità e lui, per un attimo, regala un primo piano alla sua fotografia che ce la mostra in età giovanile: una bella ragazza degli anni sessanta.

E' un momento, tra i più toccanti di “Roba da matti” di Enrico Pitzianti, dove lo spettatore ha la cognizione di un dolore immenso, che ha attraversato la donna, ferendola pesantemente nell'anima e nel fisico. La sofferenza mentale non è generalizzabile, è un percorso infinito di dolore, con continue cadute e riprese; è necessario scavalcare le montagne delle proprie ansie e angosce, ma pure convivere con un contesto sociale contraddittorio pronto a aumentare, con diffidenza, ignoranza e pregiudizi, il fardello di chi tenta di riprendersi, magari a piccoli passi, la propria vita. Non è semplice documentare le storie, i problemi, le vittorie e le sconfitte di chi ha pagato tanto per il proprio dolore, ma Enrico Pitzianti, ritornato al documentario dopo “Piccola pesca” e con la parentesi nella fiction di “Tutto torna”, è riuscito in un'impresa complessa.

''Roba da matti''Infatti, il suo film, anche grazie al montaggio ottimo di Marco Antonio Pani, ritrae i pazienti della “Casa Matta” (la struttura di Quartu S. Elena, gestita dall'ASARP) senza scivolare nel patetismo, ma neppure nell' “osceno” di una “camera verità” spietata. Pitzianti si è “inserito” nella piccola comunità, è stato accettato e, per certi versi, seppure apparentemente defilato, diviene un protagonista importante del film: è l'amico con cui confidarsi, con cui lasciarsi andare anche con molta ironia (tratto che caratterizza tutti i “pazienti”, mettendo in luce una capacità critica e una sensibilità riflessiva notevole) oppure da mandare al diavolo (“scomunico la macchina da presa!”, dice, nel finale, con un misticismo sopra le righe Pino). Questa modalità ha permesso una documentazione senza ambiguità, che si snoda in una vera e propria storia, sicuramente appassionante: l' “avventura” degli ospiti della “Casa Matta”, sfrattati dal loro “protettivo” domicilio, alla ricerca di una nuova abitazione.

''Roba da matti''Gisella Trincas guida il gruppo e Pitzianti non ne fa un santino, ma la mostra nei suoi cambiamenti d'umore, nelle sue speranze e nei suoi fallimenti, persino documentando il momento delicato dei veleni, delle querele, dei giornali cannibali. In questo senso, la vicenda non si innesta in maniera autoreferenziale in un discorso localistico, ma vola più alto. Così, la scena dei due anziani proprietari che si agitano, si spaventano, intolleranti e ignoranti, quando i pazienti vanno a visitare quello che dovrebbe diventare il nuovo appartamento, è esemplare di un modello di pensiero ancora diffuso, purtroppo universalmente. L'amore, l'amicizia, il passato, il presente sono materia della storia, non la determinano, ma la arricchiscono.

''Roba da matti''Certo, il dolore è la cornice pesante, ma Pitzianti riprende anche il desiderio di reagire, il supporto degli operatori (viene detto, ancora una volta con ironia, “non sono gli operatori che maltrattano i pazienti, sono i pazienti che maltrattano gli operatori!”) e la quotidianità sempre complessa (alzarsi con difficoltà, riuscire a dormire tra l'ansia e, poi, attraversando i sogni e gli incubi, prendere le medicine, uscire a fare una passeggiata o la spesa). Come in “Piccola pesca”, la “lotta” di “Casa matta” rimane un'incognita, una sorta di piccola utopia spezzata, ma questo, per certi versi, rafforza il film, il quale ha, nell'episodio di Lori, che deve andar via dalla casa per trovare lontano un inserimento più adeguato alla sua età, un momento esemplare. Lori ride e piange e con lei il gruppo nella sua interezza, mentre la accompagna a varcare la soglia. Un abbandono dovuto, anticipatore di destini ancora da definire. Pitzianti si ferma qua. Non cerca commozione, sollecita impegno.

Il consiglio precedente: "Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani

21 marzo 2012
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