Il divenire cinema di una traccia millenaria
Le riflessioni del narratore sul campo di "Su Re". Dal set alla prima di Torino: l' ambientazione, la lingua, l'espressionismo dei volti e delle voci. di Carlo Rafele

La chiamata sul Set significò accogliere e condividere “sul campo” una sperimentazione incessante, a volte estenuante, della quale non sarebbe superfluo vagliare le modalità produttive ed “esistenziali”, per scoprire e definire a quale prezzo in questi nostri anni un Autore-Regista possa rincorrere e affermare la sua Idea: un “patto” tra l’Opera e l’Autore che si rende possibile in porzioni di tempo che hanno durata di innumerevoli anni.

Si potrebbe dire, per paradosso, che un film che affronta i Vangeli presta il fianco a una sfida titanica. Se poi i Quattro Vangeli sono configurati come “tracce parallele” – com’era inizialmente nel Film-Progetto di Giovanni Columbu – la sfida si sposta sul terreno dei corsi e ricorsi interpretativi, divenendo da subito occasione di confronto su materie e tematiche che appartengono all’universalità del dettato culturale: icone di una dialettica critica e filosofica che non ha mai concesso riposo o scappatoie a coloro che hanno desiderato interpellarla.

Di conseguenza, il Progetto “Su Re”, per dirsi attendibile, deve confermare o proseguire un percorso di interpretazione che non potrà mai dirsi “concluso”, che dovrà anzi mantenersi costantemente “aperto”, pronto ad arruolare nuovi tentativi, nuovi accessi. E al tempo stesso costituirsi come “variazione” del canone riconosciuto, accendendo forme e stilemi originali, ripetendoli e differenziandoli.

Accadeva sovente, nella pratica quotidiana del Set, di trattenere nella testa e sulle labbra i nomi dei cineasti che sul tema “Passione e Morte di Cristo” hanno offerto le prove più esemplari: Pasolini, Rossellini, Gibson. Su questi Nomi si giocava e si misura la delicata scommessa del film di Columbu. Con quali differenze, tuttavia?

Eppure “Su Re”, proprio per quei peculiari caratteri di originalità, aggiunge e rafforza un elemento che in Rossellini è depotenziato, deliberatamente smorzato, mentre compare con evidenza nelle opere di Pasolini e Mel Gibson: l’Epos, il robusto respiro “epico” che la processione di volti e di voci lascia fluire senza tregua.
Un Epos espressionista, modulato sul tragico, che scaturisce anche nel tono delle luci, nella traccia del chiaroscuro, nella tinta della Crocifissione - potente, impavida, tremendamente nuda, scaturita sulle alture del Monte Corrasi.

Da osservare, poi, il volto di Maria scolpito nella fierezza mediterranea di Pietrina Menneas; quindi Bruno Petretto per Giuseppe Arimatea, Tonino Murgia per Caifa, Paolo Pillonca per Pilato: facce che accordano la loro silenziosa presenza alla abbacinante cadenza delle Voci in lingua sarda: spaventose e stranianti.
Rimane, infine, il riferimento a Pasolini, a quel “Vangelo” datato ’64, di cui tanto si è scritto, che ormai gode di rendita imperitura, nascendo in una temperie storica propensa a mettere in discussione il “sacro” e stemperando l’acutezza dei contrasti nella dominante lirico-elegiaca, che trovava appagamento nella voce fuori campo di Enrico M. Salerno.

Rocha disse: «Pasolini è stato perverso quando bisognava essere sovversivi e, cosa ancor più grave, ha sognato un Cristo-Edipo quando c’era bisogno di un Cristo nero e nudo».
Sembrerebbe, oggi, la migliore introduzione all’esperimento “Su Re”, le cui prime immagini rivelano un Cristo trattenuto nel dettato – autorevolmente e indiscutibilmente “paterno” - del profeta Isaia.
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27 novembre 2012