Percorso

Il tempo delle abitudini nuove

La Film Commission, le Istituzioni, il cinema d'Autore: l'anno che verrà (tra interrogativi e sofferte speranze). di Carlo Rafele

Anno nuovo, arriva il 2013Verrà il tempo delle abitudini nuove?
Ogni anno, approssimandosi l’ora dei bilanci e delle ricognizioni, siamo tentati di spingere la speranza “un po’ più in là”, anche per non dover sostenere il fardello di alcune sensazioni che l’inconscio ci regala, con sorriso beffardo.

Le parole e le formule corrono davanti ai nostri occhi, senza tregua: cinema italiano, cinema d’autore, Film Commission, Fondi regionali, Fondi comunali, Fondi statali, Rai, Università, Ricerca, Sponsor.
Le mille didascalie, i mille luoghi dove la Settima Arte oggi attecchisce, i mille intrighi quotidiani che l’Autore-regista si troverà a percorrere febbrilmente se il Peccato Originale si sarà impossessato di lui e del suo Progetto, dividendosi tra l’ebbrezza di qualcosa che potrebbe accadere e l’imbrunire amaro delle questioni “rimandate”, “rimaste in sospeso”, “ancora da risolvere”.

Tanti interrogativi, tante domande, che si concentrano dentro due sostanziali punti di osservazione: le Istituzioni, gli Autori.
Il drago della burocrazia che affligge la politica culturale italiana non è mai stato un mistero, anzi sembra una malattia invincibile: eppure continuiamo a sopportarlo, senza aver mai iniziato una convincente lotta.
Leggendo l’intervista di Enrica Anedda a Nevina Satta, sul numero precedente di Cinemecum, quel fremito di speranza ci raggiunge ancora una volta: il curriculum, l’esperienza, le argomentazioni di colei appena arrivata alla guida operativa della Film Commission ci paiono importanti e convincenti; ciò che traspare dietro la sua volontà ci fa supporre che qualche favorevole congiunzione potrebbe disporsi, nell’anno che verrà.

Nevina Satta (ph. Stefano Anedda Endrich)Si ripresenta, tuttavia, la domanda preliminare: riuscirà Nevina Satta a “negoziare” con le innumerevoli “controparti” – o contropartiti - ciò che ha in mente? Riuscirà a far prevalere le sue magnifiche intenzioni (“Portare il mondo in Sardegna e la Sardegna nel mondo”)?
E poi: sapranno i governi istituzionali riconoscere che la Film Commission non è un orpello o una raccolta di elemosine ma un formidabile volano di idee e di denaro, come insegna da anni la Regione Piemonte? Perché non è mai venuto in mente di considerare prioritari quei “servizi”, una volta convenuto che il territorio sardo detiene un enorme giacimento di immagini?
(Se poi volessi dare cittadinanza ai desideri, aggiungerei che la Regione Sardegna potrebbe con pieno diritto candidarsi ad ospitare un Festival Internazionale di Cinema, magari coagulando le numerose forze culturali che ogni anno, con encomiabile impegno, organizzano manifestazioni ed eventi in varie realtà dell’Isola).
La seconda questione riguarda gli Autori e qui il discorso, come si sa, non è affatto facile da sbrogliare e da indirizzare. Il numero di dicembre dei “Cahiers du cinéma” grida in copertina questo titolo: “Le cinema d’auteur sur une mauvaise pente?”, che tradurremmo con: “Il cinema d’autore è su una china discendente?”.

''Cahiers du cinema''Ho sempre creduto – e lo credo soprattutto oggi – che la parolina magica che ciascun autore dovrebbe sussurrare a sé medesimo, quando inizia a imbastire il discorso filmico, è “Critica”: la Critique di nobile memoria, di cui la Nouvelle Vague comprese immediatamente il valore, declinandola nella migliore accezione inventiva e propositiva.
L’Autore-Regista, oggi più che mai, è investito da quel Principio-responsabilità che lo mette in diretta relazione con l’Idea originaria del Film, accendendo di conseguenza una componente filosofico-morale.
Due anni fa, quando proponemmo il caso Godard, festeggiando gli 80 anni a Settimo San Pietro e a Cagliari - proiettando in prima nazionale “Film-Socialisme” – avevamo l’ambizione di lanciare e rilanciare la domanda fondamentale che attraversa e plasma da cima a fondo la mirabile filmografia godardiana (oltre 150 titoli): perché fare cinema?
Affermando e sostenendo questa domanda, la Critica si salda con l’atto generativo, incalzando, rimanendo a ridosso della presunta creatività dell’Autore-regista, svelando progressivamente che cosa veramente si mette in scena quando si fa “messa in scena”, quando si accede al criterio della rappresentazione cinematografica: parametri che proprio la critica di stampo ermeneutico da alcuni anni sta riconoscendo come prioritari.

Jean-Luc GodardDa tale prospettiva, l’Autore-regista sa che deve farsi carico della necessaria “problematicità”, a più livelli, dell’esperienza filmica, fino a traghettare nell’opera la propria “impasse”, la propria difficoltà a generare un “senso”, a orientarsi nel caleidoscopio di segni che l’atto creativo-artistico dispiega.
D’altra parte, sempre più si evidenzia che il fare cinema non è un fenomeno solipsistico, auto-referenziale, ma qualcosa che si accende nell’interazione attiva e incessante tra i vari soggetti che contribuiscono alla nascita del prodotto.
Soffriamo l’assenza di una figura-chiave – figura regolativa in primis – che è il Produttore: figura un tempo centrale, che oggi pare assente, se non proprio fuggita, esclusa, eliminata. Nel cinema d’autore erano i Produttori a imbastire l’atto generativo di un film, organizzandone limiti e regole, inserendosi a pieno titolo nel gesto creativo, in incalzante, costruttiva dialettica con il regista (penso a nomi come Georges de Beauregard, Barbet Schroeder, Marin Karmitz, Alain Sarde).
Analogo destino si pone per gli attori, per il lavoro dell’Attore, verso cui trasferire quote di responsabilità diretta nella gestione del Set.

Roberto RosselliniPochi mesi addietro, la rivista “Positif”, per i 60 anni dalla fondazione, ha dedicato agli attori un corposo dossier, intervistando alcuni nomi-simbolo di una lontana, irripetibile stagione: Meryl Streep, Anouk Aimée, Nicole Kidman, Stefania Sandrelli, Delphine Seyrig, Philippe Noiret, Max von Sydow e altri. Ne viene fuori, con forza inattesa, il racconto di un fare cinema che va ben al di là delle ansie individuali, configurando il set e il rapporto con il regista-demiurgo come l’instaurarsi di una energia propositiva e feconda, che si trasmette e si autoriproduce.
Uno dei nodi centrali del cinema d’autore è che uso fare della storia del cinema, ovvero della Nostalgia, intesa come tradizione aurorale, porzione di mito che per ogni cineasta appare comunque condizionante, autoritaria, pressante: l’eco di una potenza espressiva verso la quale occorre scendere a patti, addomesticarla, volgerla a proprio vantaggio.
Se pensiamo a cineasti-autori come Rossellini, Tarkovskij, Kieslowski, ci coglie lo sgomento: ci pare impossibile che si possano costituire nuovamente le condizioni per allestire quel cinema, per concepire e realizzare “sguardi” sul mondo così esaustivi.

Krzysztof KieslowskiPerò sappiamo anche che il tempo delle abitudini nuove può sorgere in virtù di circostanze che non si palesano, che camminano nel sottosuolo della nostra esperienza.
Mai dimenticare con quale sorpresa, nei primi anni 80, cadde sul nostro proscenio un cineasta venuto dalla Polonia, che pochissimi conoscevano - di nome Kieslowski – che ci ridestò all’incanto di fare cinema con quel sistema di pensiero e immagini che è il “Decalogo”.
Si tratta di quella felice alchimia - di ideazione e di stile - che negli ultimi anni ci ha fatto volgere lo sguardo verso autori come Apichatpong Weerasethakul, Bèla Tarr, Miguel Gomes: autori che rifiutano, rigettano l’altra tendenza in voga – vedi “Amour” di Haneke – che vorrebbe l’atto filmico fissato su una “esplosione” traumatica, la libido dello shock, con cui abbindolare il cuore muto dello spettatore.

Nell’Anno che si avvicina, avremo modo di constatare quale traiettoria espressiva prenderà il sopravvento, nella convinzione che non sarà più possibile ignorare le nuove “visioni” - critiche e filosofiche - che sul continente europeo una accorta generazione sta silenziosamente mettendo in atto.

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