Percorso

Intervista a Ettore Scola

Il regista  racconta il suo amico e collega Nanni Loy, il loro lavoro comune, la commedia all’italiana, la militanza nel Partito Comunista in un'intervista del 1996 pubblicata nel volume, edito dalla Cuec, "Nanni Loy- Un regista fattapposta", curato da Antioco Floris e Paola Ugo.
 
Nanni LoyQuando l’ho conosciuto eravamo due ragazzini. Io facevo soltanto lo sceneggiatore anonimo, “negretto” di altri, il ragazzino che non firma. Una delle prime cose che ho firmato fu proprio  "Il marito" che era partito come film diretto da Puccini. Gli sceneggiatori eravamo io, Loy e Maccari. La commedia italiana allora si svolgeva intorno a certi nomi: ad esempio, dato Sordi, bisognava fare un film su misura per lui. Mi ricordo che Puccini non era neanche molto omologo a questo genere di umorismo: veniva da altro tipo di cinema, da altra estrazione, era stato critico. Credo che anche la decisione di affiancargli Nanni come regista dipendesse proprio da una minore dimestichezza di Puccini con questo cinema. Infatti il film somiglia più a Loy che a Puccini. Adesso non so quanto in fase di regia abbiano collaborato, quanto era di Loy e quanto di Puccini. Però per la sceneggiatura Puccini proprio non si palesava come regista, come autore, quindi il rapporto era con Nanni. Abbiamo cominciato quasi alla pari perché io ero giovane sceneggiatore e lui era al secondo film, anche se naturalmente aveva già fatto molte aiuto regie.
Io e Nanni siamo stati abbastanza vicini fino agli anni ‘70, intorno al Partito Comunista. Poi Nanni ha avuto tentazioni legittime ma di altro tipo, si è allontanato dal Partito, ha avuto simpatie per altre sinistre: io sono rimasto nel PCI e poi nel PDS quindi le nostre strade non sono state sempre parallele. Ma fino agli anni 70 sì, eravamo tra i pochi registi, perché non ce n'erano molti, che affiancavano alla loro attività  professionale, commerciale, un'attività ... sì, diciamo pure militante anche se poi è una parola un po’ vecchia. Lavoravamo tutti e due per l’Unitelefilm che era una piccola casa di produzione del Partito Comunista, per il quale  ho fatto anche dei film come "Treviso-Torino", "Viaggio nel Fiat-nam," poi sulla morte di Pinelli, l'omicidio Calabresi, con Petri, che era un altro dei registi della nostra generazione con cui ci trovavamo a dividere il tempo tra la nostra professione e la militanza.
Ettore ScolaEcco, noi tre, assieme ad Ugo Pirro abbiamo fatto un cinema di controinformazione, sia pure di diffusione limitata perché andava nelle università, nelle fabbriche, nelle feste dell'Unità. Loy, Scola, Gregoretti, Pirro cercavano di utilizzare gli strumenti del loro lavoro anche per controinformare la gente, in una fase in cui esisteva solo l'informazione ufficiale, la Rai... Se Pinelli “si suicidava”,  noi dicevamo che forse lo  avevano suicidato, che forse lo  avevano buttato giù dalla finestra. E lo dicevamo naturalmente con documenti cinematografici. Anche Volonté era del nostro gruppo. Certo la nostra opera era destinata ad un pubblico che era già convinto delle nostre idee, perché era gente di sinistra: studenti e operai. E però credo che avesse una sua funzione quel tipo di cinema.
Io e Nanni siamo stati insieme anche all'ANAC. Poi lui ne uscì insieme a Pirro con cui fondarono Cinema Democratico. Ad un certo punto, infatti, parve ad alcuni autori, forse anche con qualche ragione, che l'ANAC, associazione di autori cinematografici, registi e sceneggiatori, avesse assunto una posizione un po’ di categoria, chiusa, corporativa.
Cinema Democratico invece si apriva anche ad altre categorie del cinema, operatori, costumisti. Come idea poteva anche sembrare  giusta,  ma  non  credo  abbia avuto un rilievo particolare forse proprio per una malintesa apertura  a categorie i  cui interessi  erano diversi. Poi Cinema Democratico si è progressivamente asciugato, era frequentato soprattutto da sceneggiatori, facevano dei corsi a giovani.
L'impegno politico di Nanni si manifestava anche nel dibattito sulle scelte legislative per il cinema. Penso, innanzitutto, al famoso “articolo 28”. Era appoggiato dalle sinistre perché era uno strumento di garanzia per cui certe idee potessero essere realizzate laddove il mercato, il privato non le avrebbe sicuramente sostenute. Quindi era giusto che ci fosse questo intervento dello Stato.
I fratelli TavianiL'applicazione poi di questo principio non ha risposto se non a qualche sterile ed egoistica espressione da parte di alcuni autori spesso velleitari e quindi diciamo che la coscienza collettiva non se ne è avvantaggiata. Con le dovute eccezioni, naturalmente: certi film dei Taviani, della Cavani, di Bellocchio non sarebbero nati forse, o avrebbero avuto ostacoli maggiori senza l’ "articolo 28”. Ma è un fatto che se in Italia qualche tabù è caduto, forse lo si deve soprattutto al cinema nato fuori da queste strutture statali. Sicuramente Germi, che non ha mai fatto l’ “articolo 28”, ha determinato la mentalità e la crescita della personalità dello spettatore italiano più che tanti film assistiti. È chiaro che "Divorzio all’italiana" ha contribuito alla maturazione del cittadino italiano e quando si va ai referendum sul divorzio o sull'aborto “inspiegabilmente”, in un paese cattolico, si vince. E se si vogliono trovare delle radici di queste modifiche nello spirito collettivo ecco, non lo si trova nel cinema assistito dallo Stato ma piuttosto nel cinema cosiddetto commerciale.

Nella nuova legge “l'articolo 28” è stato sostituito dall'articolo 8 che in qualche modo ne continua lo spirito. I concetti di scelta restano sempre affidati a commissioni formate secondo opportunità politiche o di equilibri di potere e quindi sempre imperfette. Però l'autore giovane, che pensa di avere qualcosa da comunicare alla società, almeno non ha l'alibi di dire: “io saprei come fare, ma le strutture di mercato, i produttori privati non me lo permettono”. Ecco, in questo il principio che continua a ispirare l'articolo 8 è positivo. Questo è un dibattito che c'è in tutta Europa (in America no perché non esiste questo tipo di intervento da parte dello Stato). In Francia ho partecipato spesso a tavole rotonde dove hanno lo stesso problema, cioè di un cinema assistito dal danaro pubblico che intanto viene scelto da commissioni che non tengono conto soltanto della difesa del pubblico ma di altre considerazioni.
Istituto LucePoi si prendono decisioni a partire dalla sceneggiatura. Quindi è comunque una previsione imprecisa, una promessa del tutto aleatoria, perché io posso scrivere una stupenda sceneggiatura e che quindi viene scelta per un film, e poi posso fare un film che contraddice quelle parole, o che non le rispetta o che addirittura le snatura. Credo che nessuna commissione potrà mai mettere riparo a questo.
Nanni sollevava questi problemi già vent'anni fa, ma allora la situazione europea si era pressoché delineata. Lo Stato doveva intervenire a livello di distribuzione? Ci ha provato. L’Istituto Luce ha avuto per un certo periodo qualche sala pubblica e quindi non doveva rispondere a concetti di economicità come l’esercente privato, ma è stata sempre un'operazione assai limitata e del tutto inadeguata. Credo che in regimi capitalistici come quelli in cui viviamo, non è possibile che lo Stato partecipi vittoriosamente alla lotta col mercato. Il mercato americano arriva a coprire l'ottanta, ottantacinque per cento delle sale e del consumo, un film come "Indipendence Day" esce con 520 copie e abbiamo in tutta Italia 900 sale operanti, quindi il nostro è un mercato del tutto drogato, un mercato dove se lo Stato avesse 10 sale non cambierebbe assolutamente nulla: non a caso l'Istituto Luce le ha date via.
Per ogni film americano costato 10 milioni di dollari, ci sono altri 10 milioni di dollari per la promozione. Ed ecco quindi che questo film arriva sul mercato già tutelato, già conosciuto, innanzitutto dal pubblico giovanile. In Italia, in Europa, (in Germania peggio che da noi), il film esce nudo, senza nessuna promozione e in più neanche amato: i mezzi di comunicazione italiana forniscono pubblicità gratuita al cinema americano e non al cinema italiano. Perché l'informazione è rientrata ormai nel mercato, nelle logiche del mercato. Quindi non è che una diversa applicazione dell'intervento dello Stato invece che sulla produzione sulla distribuzione avrebbe variato le cose, non credo che il capitalismo si faccia minare da questi interventi.

Mario MonicelliTornando al sodalizio artistico con Nanni, ricordo che facemmo un film collettivo e come molti film collettivi non somigliava a nessuno di quelli che ci presero parte. Eravamo in tanti: c'erano Monicelli, Magni, Loy, Comencini, Pirro, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Zapponi. Il titolo era "Signore e signori buonanotte", un film che credo abbia qualche residuo di valore almeno come documento su certi temi che non venivano trattati normalmente nei film che facevamo separatamente. Quindi c'era questa voglia di fare insieme delle cose però il prodotto non fu, temo, all’altezza di quello che queste “menti” potevano mettere insieme. Benché ci siano dei brani di tutto rispetto, per esempio proprio quello di Loy sul bambino napoletano che riceve la medaglia... Fu un film anche abbastanza osteggiato, perché poco comodo, poco cordiale. Io non credo che Nanni sia stato così lontano dalla commedia italiana anche nelle opere precedenti al nostro "Made in Italy", a parte "Il marito" e "Parola di ladro" che sono proprio commedie all'italiana netta, forse risultano più una parentesi "Le quattro giornate di Napoli" e "Un giorno da leoni". Ma sicuramente Nanni è a tutto diritto un autore della commedia all’italiana. "Made in Italy", che era un copione mio e di Maccari, era nuovo come tentativo perché c’erano molti film a episodi, ma a quattro episodi, cinque... questi invece erano una cinquantina di ritratti veloci di un Italia che stava uscendo dal boom, dal benessere e ne stava pagando il conto.
Ecco, un’Italia alla quale veniva presentato il conto del suo banchetto. Questi cinquanta brani, una specie di Blob ante litteram (alcuni duravano poche immagini), credo siano un documento italiano molto significativo. C'erano alcuni episodi molto duri, molto forti proprio da commedia italiana perché la commedia italiana è stata anche questo, cioè un duro ritratto, impietoso e civilmente impegnato della società italiana. Lo è stata spesso anche più del cosiddetto cinema serio. Non credo che "Made in Italy" abbia circolato molto, forse proprio per questa sua natura frantumata che adesso è diventata quasi un linguaggio obbligato — la frantumazione di Blob —. All’epoca forse lo spettatore veniva chiamato a rapidità di giudizio, a cambiamenti immediati di emozioni a cui forse non era ancora molto preparato.
''Made in Italy''Credo che questo sia il motivo per cui "Made in Italy" è rimasto un film “minore”. Io non lo ritengo tale perché, ripeto, c’erano dentro tanti temi che ci interessavano trattati con i modi della satira. La chiave era un po’ questa: parlare attraverso la risata dei conflitti sociali, di ciò di cui non si parlava né in televisione né sui giornali, neppure tanto più nei comizi. Quando chiesi a Nanni Loy del suo ultimo film, "Pacco, doppio pacco e contropaccotto", mi spiegò che — limitatamente a Napoli e (questo era forse anche il limite del film) alla furbizia napoletana — era come il ritratto fatto attraverso l'Italia con "Made in Italy" per cui c'eravamo ispirati, lontanamente certo, a "Paisà", perché ci si spostava dalla Sicilia alle Alpi.

Ho dei bei ricordi di Nanni, era pieno di calore, di vita, era meridionale in tutto, quindi anche con i suoi cipigli. Io mi divertivo a metterlo in cimento, a suscitare le sua permalosità. Si era stabilito una sorta di gioco per cui io dicevo: “allora se avete chiamato anche Loy io vado via”. C'era questo gioco continuo di falso disprezzo che invece né io avevo per lui né lui per me.
22 dicembre 2012
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