Percorso

Gli Oscar 2014: Hollywood “coloured”

Dagli attori bianchi dipinti con il carbone agli schiavi “scatenati” di Quentin Tarantino sino a 12 anni schiavo di Steve McQueen. di Gianni Olla

''12 anni schiavo''Per il terzo anno consecutivo, nella cinquina finale degli Academy Awards, è presente, tra i favoriti, un film, per così dire, socialmente e politicamente impegnato: 12 anni schiavo, diretto da Steve McQueen, e tratto dall’omonima autobiografia di Solomon Northup, pubblicata nel 1853 e mai portata prima sullo schermo.

Il tema è facilmente intuibile, anche senza consultare una scheda dell’opera: il problema razziale, ovvero la condizione storica degli afroamericani, ufficialmente schiavi, fino al 1864, in tanti stati della federazione, ma pur sempre separati – e con diversi gradi di “apartheid” – anche dopo la fine della guerra di secessione, nel 1866.

''The help''Proprio quel tragico evento, direttamente o indirettamente provocato dalla questione della schiavitù, era stato al centro anche dell’edizione 2013. Tra i candidati più accreditati, ci fu infatti Lincoln di Steven Spielberg, che racconta i tormentati ultimi quattro mesi della vita e delle opere del presidente più celebre degli Stati Uniti; colui che, appunto, nell’aprile del 1864, a guerra non ancora conclusa, riuscì a far approvare, non senza difficoltà, dal Senato dell’Unione, il 13° emendamento della costituzione che aboliva la schiavitù. Il film, come si sa, si dovette accontentare del premio al miglior attore, Daniel Day Lewis, interprete memorabile di Abraham Lincoln. L’anno prima si verificò più o meno la medesima situazione. Il film diretto da Tate Taylor, The Help,  conquistò il premio per la miglior attrice non protagonista a Octavia Spencer, governante di colore a Jackson, Mississippi, negli anni Sessanta.

Martin Luther KingIn quegli anni, nelle metropoli,  fuori da quello che fu uno dei centri più importanti della Confederazione degli stati del sud, si respirava un’aria di rivolta: cruenta o pacifica, a seconda che gli attivisti neri tenessero per Martin Luther King o per Malcom X. Ma a Jackson, il rigido “apartheid” si basava ancora sulla purezza del sangue, e l’aspetto più divertente del film sta in quella testimonianza che dà lo spunto alla giovane giornalista Skeeter di scrivere il suo romanzo “scandalistico” sulla comunità a cui anche lei appartiene: una governante di colore viene licenziata perché ha usato il cesso della padrona in una giornata di tempesta in cui era quasi impossibile uscire per “farla fuori”, come voleva la tradizione, divenuta vero e proprio contratto di lavoro.

''Django unchained''Non è fuori luogo pensare che l’impulso a girare film sulla condizione dei neri sia legato alla presidenza Obama – Hollywood è sempre sensibile al potere – ma, poiché parliamo di spettacolo, cioè di una remunerazione economica che deve essere certificata dal successo del pubblico, occorre sottolineare che, nell’edizione 2013, tra i concorrenti all’oscar c’era anche Django enchained di Quentin Tarantino, film graditissimo alle giovani generazioni non solo e non tanto per il modo in cui tratta il problema razziale, ma soprattutto per lo “splatter” vendicativo che domina gran parte della narrazione: lo schiavo senza catene ammazza i gentilissimi e colti patroni bianchi. Insomma è il mezzo e la forma – cioè il modello filmico di Tarantino – a creare il messaggio.

''Ragtime''Tornando all’oggi, Dodici anni schiavo – che vanta ben sei candidature, tra le quali le più ambite (film, regia e attore, Chiwetel Ejiofor) – racconta la storia vera di un violinista di colore, Solomon Northup, libero professionista nello stato di New York, che, nel 1841, fu rapito dagli schiavisti della Virginia e venduto a Washington. Quasi uno sfregio nei confronti delle “pretese” abolizioniste che, già vent’anni prima della guerra civile, stavano prendendo piede ai confini degli stati schiavisti del sud. Per qualche verso la storia di questo sfregio può ricordare l’episodio del pianista di colore che, in Ragtime (romanzo di Doctorow e film di Forman), passa diversi anni a chiedere inutilmente giustizia nei confronti di un gruppo di vigili del fuoco razzisti che lo avevano preso di mira per la sua insopportabile agiatezza di “negro”.

''The Butler, un maggiordomo alla Casa Bianca''Alla fine, il nostro eroe – siamo ai primi del secolo – guiderà un gruppo terroristico anti sistema, attirandosi le ire anche della comunità nera che, come dice un suo rappresentante, sta cercando di dimostrare ai bianchi che “non devono avere paura di noi”. In pratica trattare un dignitoso “apartheid” che, in fondo, è ancora, nonostante Obama, la cifra visibile della convivenza tra le due comunità e forse di tutti gli “ingredienti” del celeberrimo “melting pot” su cui si basa la grande nazione nord americana.
Non a caso, al punto di incrocio tra le situazioni estreme appena citate, c’è un altro titolo recentissimo, The Butler, un maggiordomo alla Casa Bianca – escluso dagli oscar, forse ingiustamente – che racconta il quarantennale servizio presidenziale di  Eugene Allen/Cecil Gaines (così viene chiamato nel film), da Eisenhower a Reagan, passando per Kennedy, Nixon, Ford, Carter.  

''Malcolm X''Fin da quando fuggì dalla piantagione di cotone in cui era stato ucciso il padre, Gaines imparò ad essere un perfetto “negro di casa”. Il termine dispregiativo, coniato dal Black Power e dallo stesso Malcom X, si usava per definire il personale di servizio di colore, richiestissimo dai ricchi bianchi del nord per la loro devozione e la capacità di essere muti e pressoché invisibili in ogni circostanza.
Ma, nonostante la sua invisibilità, attorno a lui la vita e la storia si muovono velocemente.
Nel corso di una narrazione apparentemente statica, il cui fuoco sta appunto nella vita “invivibile” di Gaines, percepiamo, infatti – direttamente o indirettamente – l’animatissima storia della lotta dei neri per l’integrazione razziale: i fatti di Little Rock,  quando Eisenhower mandò l’esercito e l’FBI a scortare gli studenti neri ammessi all’Università della capitale dell’Arkansas, prima vera “inclusione” anti apartheid della storia degli Stati Uniti; la nascita dei “musulmani neri” e la fama crescente di Malcom X, contrapposta al pacifismo di Martin Luther King; ed infine le cruente rivolte razziali delle grandi città del nord, alla fine degli anni Sessanta. Così, anche il figlio del “negro di casa” finisce per ribellarsi all’invisibilità del padre.

''Il colore viola''Diretto da Lee Daniels, regista di colore che aveva firmato un quasi capolavoro come Precious – per niente tenero e accomodante nei confronti delle brutalità riscontrabili nei ghetti neri – The Butler, a tratti, sembra un film didascalico/patetico (entrambi i termini sono da prendere nel senso buono) alla Spielberg, a cui dopotutto va riconosciuta una coscienza anti razziale che precede la realizzazione di Lincoln: suoi sono infatti sia Il colore viola (1985) che Amistad (1997), quest’ultimo dedicato ad un celebre processo che, nel 1839, portò alla liberazione di un gruppo di schiavi ammutinatisi in una nave spagnola diretta verso Cuba. È obbligatorio chiedersi, a questo punto, cosa c’era prima di questa presunta deflagrazione delle storie e delle polemiche anti razziali.

''Nascita di una nazione''La risposta è semplicissima: nel 1914 David Griffith girò Nascita di una nazione, un lungometraggio di oltre tre ore, ovviamente muto, che rappresenta una sorta di modello di narrazione cinematografica paragonabile alla grande letteratura ottocentesca. Per questi motivi è tuttora studiato nelle scuole di cinema.
Quanto al tema del racconto, tratto da un romanzo di Thomas Dixon, The Clansman (ovvero l’uomo del Clan, ovvero del Ku-Klux-Klan), Nascita di una nazione descrive, in maniera appassionante e avventurosa, la guerra civile, partendo dall’assunto che i “negri” e gli affaristi del nord cercarono di impadronirsi, dopo la guerra, del sud e che le loro manovre furono fortunatamente sventate dai membri del Ku-Klux-Klan, bianchi cavalieri del bene.  

''The clansman''Il film, proiettato nelle sale americane nei primi mesi del 1915, ebbe un successo incredibile, considerato che il pubblico non era abituato a film di tale lunghezza, e provocò polemiche e discussioni infuocate, a nord come a sud. Il governò federale ne proibì la diffusione dopo alcuni disordini cruenti all’ingresso delle sale cinematografiche. Il regista e i suoi sostenitori protestarono sulla base della costituzione che garantiva a tutti la libertà di opinione e di parole; vinsero una causa giudiziaria e il film riprese ad essere programmato, tra gli opposti clamori dei razzisti e dei antirazzisti.
Va infine segnalato che, nel film, i “negri” cattivi e stupratori non appaiono mai: sono degli attori bianchi anneriti con il carbone, come si usava a teatro.

''Louis Armstrong''Questa discutibile tradizione andò avanti per molti anni e fu infranta dal successo della musica jazz e soprattutto del grande Louis Armstrong, che divenne il primo vero divo di colore non solo dello spettacolo dal vivo, ma anche del cinematografo. Ma, come è facile intuire, i due colori restarono separati. Nel “gangster-movie” o nel musical, se non nei melodrammi e nelle commedie, non mancava quasi mai una scena musicale in cui un’orchestra, in un grande locale, suonava per gli ospiti, tra i quali c’erano immancabilmente i maggiori protagonisti, ovviamente bianchi.
 I neri stavano invece sul palcoscenico a suonare e cantare e mai si muovevano dalla loro scena. Rappresentavano una sorta di esotismo interno, come spiegava la bellissima autobiografia di Malcom X, o anche il film di Coppola Cotton Club, basato sul celebre locale di New York in cui i neri non erano ammessi se non come artisti. E tra loro c’erano appunto Louis Armstrong, Cab Calloway e Duke Ellington.

''Cotton club''Proprio quest’ultimo musicista apparve, molti anni dopo, in un film che poneva fine almeno all’apartheid artistico: Anatomia di un omicidio, girato nel 1958 da Otto Premiger. Tuttora considerato uno dei migliori gialli giudiziari hollywoodiani, contiene una scena, quasi extradiegetica, nonché leggibile su un piano subliminale, in cui il protagonista, James Stewart, avvocato “liberal”, duetta al pianoforte con Duke Ellington, anche autore delle musiche del film. L’anno precedente c’erano stati i fatti, già citati, di Little Rock e si può così supporre che il regista ebreo austriaco, già perseguitato dal maccartismo e autore, nel 1954, di una versione “nera” della Carmen (Carmen Jones), influenzata dal jazz e interpretata da Harry Belafonte, abbia voluto segnalare il suo appoggio al pronunciamento della Corte Suprema contro l’apartheid e alle successive decisioni del presidente Eisenhower.

''Alta società''Anche Armstrong, dopo tante “caratterizzazioni” tra gli anni Trenta e Quaranta, farà in tempo a comparire sullo schermo come interprete di se stesso sia in Alta società (1958) di Charles Waters, accanto a Frank Sinatra e Bing Crosby, che in Paris Blues (1961), di Martin Ritt, accanto a Paul Newman, film che dava spazio alla comunanza tra bianchi e neri nel campo della musica. Ma, non solo i tempi stavano cambiando, ma soprattutto la pellicola di Ritt era ambientata e girata a Parigi, luogo d’elezione del jazz, in cui era del tutto naturale vedere assieme, soprattutto in ambito artistico, la mescolanza razziale.
In questa rincorsa al ritrovamento delle tracce “colorate” nel cinema bianco e spesso puramente “wasp” (white anglo-sasson protestant), c’è però, un’altra data importante: il 1943.

''Cabin in the sky''In quell’anno, Vincente Minnelli, al suo primo film, prendendo spunto da una commedia musicale di Lynn Root, John Latouche e Vernon Duke, Cabin in the sky (in Italia Due cuori in cielo, visibile solo nel dopoguerra) adattò una popolarissima farsa musicale i cui attori erano neri e le musiche – interpretate tra gli altri da Duke Ellington e Louis Armstrong – tipiche del blues e del folclore del profondo sud. Candidato all’oscar, il film confermava l’apartheid, ma in una maniera intelligente e rispettosa. Si dava atto alla popolazione di colore di avere una propria cultura, una tradizione, una musica, nonché attori e musicisti di valore e di grande personalità. È solo nel dopoguerra, prima e dopo la paura della “caccia alle streghe” contro comunisti, ebrei, neri – tutti accomunati, secondo la “vulgata” del senatore McCarthy, dall’odio verso i modelli di vita americani – che il tema si manifesta apertamente. Ma non va dimenticato che, un attore come Woody Strode, che chiuse la sua carriera in Italia, facendo il caratterista nell’western-spaghetti, vantava già in quegli anni un’ampia filmografia in cui – per dirla con una battuta – interpretava ruoli di “nero” senza particolari discriminazioni razziali.

''Gangs of New York''Il conservatore John Ford, irlandese, conterraneo di tanti americani non propriamente favorevoli all’emancipazione dei neri (come si  vede nel film di Scorsese Gangs of New York), lo volle in tre sue opere: I dannati e gli eroi (1960), Cavalcarono insieme (1963), L’uomo che uccise Liberty Valance (1964). Del primo titolo è anche protagonista: un soldato di colore accusato ingiustamente di omicidio. Negli altri due è una sorta di servo/padrone che evoca l’amicizia virile degli uomini di frontiera, a prescindere dal colore della pelle. E così siamo arrivati ad un archetipo che ha trovato la sua consacrazione in molti romanzi dell’Ottocento, dai cicli di Fenimore Cooper (L’ultimo dei Mohicani, I pionieri, La prateria) fino al Moby Dick di Melville, passando per Mark Twain (Le avventure di Huckleberry Finn), tutti analizzati in un celebre saggio di Leslie Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, in cui si analizza l’amicizia fraterna, virile, maschilista, e qui ci fermiamo, tra il bianco e l’indigeno, o anche il selvaggio, visto che indigeni non bianchi furono soltanto i pellerossa o indiani d’America.

''L'ultimo dei Mohicani''Anche se Fiedler rintraccia una costante attrattiva dei bianchi  verso i “neri”, soprattutto per la loro prestanza fisica, rari sono gli esempi, letterari e cinematografici, che riguardano il rapporto d’amicizia tra esponenti delle due razze (anche se il termine “razza” è oggi bandito, non sappiamo come sostituirlo), infiniti e variegati sono invece i punti d’incontro dei bianchi nei confronti dei nativi americani, ovvero i pellerossa. E non potrebbe essere diversamente: la storia degli Stati Uniti d’America e, prima ancora, delle colonie inglesi e francesi, non può fare a meno di quei vicini o padroni di casa che furono progressivamente cacciati dai loro territori e quasi sterminati.

''The new world''L’immaginario collettivo, a partire dalla leggenda di Pocahontas – ripresa anche dal film The new world di Terence Malick – ha incluso i popoli rossi nella grande storia degli Stati Uniti, passando dall’esaltazione della superiorità razziale e civile dei bianchi al rimorso e rimpianto – tipico del “disagio di civiltà” freudiano – per un’America  apparentemente pura e senza peccato in cui i diversi popoli avrebbero potuto benissimo vivere insieme, e in pace.
Seguendo un inconscio collettivo, messo in luce anche da Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo, quando analizza la conquista dell’Africa da parte delle grandi potenze europee, le popolazioni nere –  escluse dalla storia e dall’immaginario – appaiono invece, secondo Fiedler, come fantasmi vendicativi, vere e proprie minacce alla sicurezza dei bianchi.

''L'ultimo apache''Drasticamente differenti sono dunque anche le presenze filmiche: i pellerossa, presenti e assolutamente necessari come “masse” spettacolari o semplicemente ambientali nel cinema western – si vedano i film di John Ford – non hanno quasi mai espresso attori di rango, pur essendoci stati gli importanti precedenti di Toro Seduto e Alce Nero, attori e narratori delle proprie imprese di guerrieri nel Buffalo Bill Wild West Show.
Insomma, quasi sempre, quando era necessario un personaggio indiano di rango, ovvero un capo o un guerriero indomabile, si faceva ricorso ad attori bianchi, persino dei divi come Burt Lancaster, che, nel 1954,  interpretò il luogotenente di Geronimo in L’ultimo apache di Aldrich.
Esattamente opposta è invece la presenza dei neri nel cinematografo. A partire dal dopoguerra, giusto per tornare in argomento, con la progressiva apparizione di film che, apertamente e talvolta didascalicamente, affrontano il problema razziale, si crea anche un divismo nero che va oltre il già citato fenomeno dei grandi musicisti prestati al cinematografo.

''Uomo bianco tu vivrai''Il primo divo di colore capace di superare l’apartheid hollywoodiano è, indubitabilmente, Sidney Poitier, ed anzi, se dovessimo leggere la sua carriera attraverso l’ottica del radicalismo nero (Black Power e dintorni), potremmo ben scrivere che ha rappresentato il “negro buono”, visto che gran parte della sua filmografia tenta di costruire se non un’integrazione piena, almeno una pacifica convivenza tra bianchi e neri. Insomma un “apartheid”, come si é già scritto, rispettosa e democratica.
Poitier compare come interprete principale già in Uomo bianco tu vivrai di Mankiewicz (1950), che viene considerato anche il primo film apertamente e didascalicamente anti razzista. Nei panni di un medico di colore – è già, attraverso questo caratterizzazione professionale si pone l’accento sull’esistenza di una borghesia nera, separata, ma non oppressa sul piano economico e sociale –  si trova a dover curare due criminali bianchi in fuga. Il primo morirà; il secondo, un uomo violento, scaricherà sul medico il proprio dolore trasformandolo in aperto odio razziale.

Il secondo titolo di rilievo arriva nel 1955: Il seme della violenza di Richard Brooks. Il tema non è propriamente il razzismo, ma il teppismo di massa delle periferie che tracima nelle scuole professionali. Glenn Ford cerca di tenere a bada la scolaresca con metodi democratici, e viene aiutato, sebbene con qualche dubbio, proprio da uno studente lavoratore nero, appunto Sidney Poitier, che dunque viene caratterizzato di nuovo come un “bravo ragazzo” in contrapposizione al biondissimo capo della banda di teppisti.

''Qualcosa che vale''Brooks e Poitier si ritroveranno ancora assieme, in Kenia, nel film Qualcosa che vale (1957), storia dell’amicizia tra un colono inglese (Rock Hudson) e un nativo (Poitier) che si oppone alla rivolta anti coloniale, cruenta, dei Mau Mau, preludio all’indipendenza del paese. Da notare che Poitier ebbe grandi difficoltà ad essere ospitato negli alberghi del paese africano, rigorosamente legato all’apartheid. Come spesso accade, la realtà è molto più dura della finzione.
L’anno prima c’era anche stato l’esordio di un regista impegnato come Martin Ritt con il film Nel fango della periferia. Lo schema era sempre identico: un bianco cattivo e razzista (Jack Warden) ed uno comprensivo (Cassavetes): entrambi hanno a che fare con un uomo di colore che lavora nella stessa azienda e vorrebbe essere trattato civilmente.

Quello che è ormai diventato quasi un sottogenere avventuroso e drammatico, trova il suo punto più alto in La parete di fango di Stanley Kramer (1958), in cui Poitier e Tony Curtis sono, letteralmente, legati ad una catena che impedisce loro di separarsi. Evasi da una colonia penale, affronteranno un’odissea piena di incomprensioni e di veri e propri odi, salvo aiutarsi reciprocamente alla fine. Un bel “noir” in cui lo sfondo – tra razzismi incancellabili e atti di umanità – è quasi più importante della trama. Poitier, per questo film, ottenne la nomination all’oscar e consolidò la sua fama che, dopo altre interpretazioni di valore (tra cui il musical di Gershwin Porgy & Bess, diretto da Preminger nel 1959) lo portò all’oscar con un film abbastanza mediocre: I gigli del campo  di Ralph Nelson (1963), in cui l’attore è un factotum che aiuta le suore tedesche di un convento del middle-west.

''Il buio oltre la siepe''Due casi a parte, contrapposti filmicamente e politicamente, furono negli stessi anni  il celebre Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan, e L’odio esplode a Dallas di Roger Corman (1962), film confinante con le tematiche underground ma inequivocabilmente e ingenuamente votato al Bmovie. Il primo titolo era tratto dall’omonimo romanzo di Harper Lee e interpretato da Gregory Peck, nei panni di un avvocato anzi razzista che si trova a dover combattere contro la comunità dove vive con i suoi due figli. Sul piano drammaturgico è forse l’opera migliore, quella meno esposta sul piano propaganstico-didascalico, benché moralmente e politicamente saldissima. Il secondo, ambientato negli anni Cinquanta, evoca una sorta di ascesa al potere in una cittadina immaginaria – la caratterizzazione del luogo, Dallas, sta solo nella versione italiana – di un leader populista che vuole cancellare le minoranze razziali (ebrei e soprattutto neri), accomunandoli ai comunisti che vogliono distruggere gli Stati Uniti d’America.
Il messaggio fiducioso che appare nella maggior parte dei film citati (capire e accettare i neri), viene però quasi buttato all’aria in un altro film interpretato da Poitier: La scuola dell’odio di Hubert Cornfield.

''La scuola dell'odio''Nei panni di uno psichiatra carcerario, in piena guerra, ha in cura un giovane disertore, razzista, aderente al Bund tedesco-americano, ovvero simpatizzante del nazionalsocialismo hitleriano.
Il medico riesce a guarire il paziente dalle conseguenze patologiche della sua nevrosi – insonnia, mal di testa, accessi d’ira – derivante dalla sua storia familiare, ma si rifiuta di dare parere favorevole alla sua scarcerazione, perché ritiene che la violenza e l’odio razziale siano diventati parte integrante della sua personalità. In qualche modo, Poitier sembra volersi emancipare dal ruolo di “negro buono” per rivendicare non la stima e il rispetto dei bianchi, ma la possibilità e volontà di giudicarli lui stesso, con i propri principi morali. Il film è importante anche per altri motivi: non solo vengono ricostruite filmicamente le manifestazioni antisemite del Bund – poco visibili anche nei documentari dell’epoca – ma si avvale, nelle sequenze oniriche, di uno stile espressionista abbastanza inconsueto nel cinema americano del dopoguerra, quasi sempre incentrato sul realismo. Bisogna però aggiungere che, con gli anni Sessanta, la pressione dei movimenti neri radicali (soprattutto i Black Muslims di Elijah Muhammad e poi di Malcom X), nonché il cinema d’avanguardia della NAC e le giovani generazioni di cineasti, impongono urgenze diverse rispetto allo sterile idealismo del cinema hollywoodiano liberal. Da ciò deriva in parte anche la rabbia esplicita che fa capolino nel personaggio dello psichiatra nero in La scuola dell’odio.

''L'ispettore Tibbs''Non è un caso che i lasciti più importanti di quel film siano visibili, negli anni seguenti, in quattro pellicole, sempre interpretate da Poitier, girati tra il 1967 e il 1971: la trilogia dedicata all’ispettore Tibbs (La calda notte dell’ispettore Tibbs; Omicidio al neon per l’ispettore Tibbs; L’organizzazione sfida l’ispettore Tibbs) e Indovina chi viene a cena  di Stanley Kramer, film quasi teatrale, interpretato, tra gli altri, da due grandi attori “liberal” del cinema classico (Spencer Tracy e Katherine Hepburn), in cui Sidney Poiter e la figlia dei due agiati intellettuali (Katherine Houghton), decidono di sposarsi, costi quel che costi, anche contro il parere dei prudenti genitori che temono l’ostilità della gente comune.
Il passo avanti nella rivendicazione riformista – dall’apartheid rispettoso all’orgoglio della propria razza) – viene persino scavalcato nel primo film dedicato all’agente dell’FBI Virgil Tibbs.
In transito casuale in una cittadina dell’Alabama in cui è avvenuto un omicidio, viene arrestato e accusato del crimine. Dopo aver svelato e soprattutto dimostrato la propria identità, porterà dalla sua parte il terribile sceriffo Rod Steiger, occupandosi personalmente delle indagini e  finendo per imporre la sua autorità anche al razzismo feudale dei padroni, più o meno schiavisti, che dominano la zona.

''Quemanda''Per chiudere con Poitier, la sua figura carica di simbologie progressiste generò ad un equivoco tipicamente europeo, o forse italiano. Nel 1969, Gillo Pontecorvo, mentre preparava Queimada, sollecitato dai produttori che volevano interpreti di rango del cinema internazionale (Marlon Brando fu messo sotto contratto anche per questo motivo), pensarono proprio a Sidney Poitier per il ruolo del povero tagliatore di canne analfabeta (Josè Dolores) che si trova a guidare la rivoluzione anti portoghese e poi anti inglese. Ma l’attore, dopo aver letto il copione, rifiutò sdegnosamente la parte, ritenendo la storia – che evocava allegoricamente anche la guerra del Vietnam – offensiva nei confronti della politica statunitense. Il riformismo “liberal” non includeva automaticamente l’opposizione alla politica estera della propria patria. Eppure, anche la figura “riformista” di Poitier, inizialmente blanda e quasi pietistica, poi sempre più decisa, stava per essere travolta dal radicalismo anti sistema. Martin Luther King, ucciso nel 1968, rivendicava ancora l’integrazione pacifica, ma i movimenti radicali non solo mettevano a ferro e a fuoco le periferie della grandi metropoli, ma impostavano spesso le loro battaglie su una segregazione/separazione opposta e persino cruenta nei confronti del mondo dei bianchi.

Così, di fronte alla rapida mutazione politica e generazionale, che aveva quasi cancellato le battaglie riformiste dei “liberal” dei decenni precedenti, Hollywood si disinteressò del problema, ovvero, come accadeva per il Vietnam, preferì autocensurarsi.
Non ci sono film sulla figura di Luther King, e persino la autobiografia di Malcom X – un romanzo straordinario sulla vita “sotterranea” nei neri metropolitani – venne portata sulla schermo da Spike Lee solo nel 1992, così come altre testimonianze di quell’epoca infuocata si ritrovano nella desolata descrizione, anch’essa retrospettiva, del romanzo più noto di Philip Roth, Pastorale americana, scritto nel 1997.

''Milestones''Al contrario, negli anni Sessanta e Settanta, per trovare immagini documentarie delle proteste nere non filtrate dalle autocensure televisive, si deve ricorrere ai “news-reels” della NAC, cioè del New American cinema,  o al bellissimo documentario di Robert Kramer, Milestones, girato proprio nel 1968, che raddoppia l’effetto scioccante di un film dell’anno prima, The Edge, in cui si propone una sorta di rivolta armata nei confronti del governo, sia a causa del problema razziale, sia per le continue escalation belliche nel Viet-Nam. E sempre, avendo come punto di osservazione i cineasti d’avanguardia, almeno quelli che poi diventeranno famosi anche a Hollywood, vanno segnalati, i primi film di Cassavetes: Ombre (1959) e Blues di mezzanotte (1961), straordinarie drammatizzazioni sui rapporti tra bianchi e neri, in cui la musica jazz ha una funzione di collante.

''Mississipi burning'Ma, portando indietro nel tempo, persino i fatti di Little rock – che rappresentano una pietra miliare nella storia degli Usa – prima di apparire in The Butler, attraverso le cronache televisive dell’epoca, sono stati evocati, assieme ad altri episodi ad alta densità razziale, in Mississippi burning di Alan Parker, datato 1988. La pellicola va segnalata non solo per la bella trama poliziesca (due agenti federali indagano sulla sparizione di alcuni attivisti dei diritti civili, che, che si scoprirà alla fine, furono uccisi da un gruppo e esaltati del Ku-Klux-Klan) ma per l’esplicitazione, quasi cinica, dell’odio razziale di altri “dannati della terra” con il colore della pelle bianca. Infatti, uno dei protagonisti, Gene Hackman,  è un agente nato e vissuto in quelle zone. In momento di sconforto racconta che il padre aveva ucciso il mulo di un contadino nero, suo vicino di podere, per invidia, commentando il fatto con un laconico: “se dobbiamo essere anche più poveri dei negri…”

Ugualmente, i fatti di Montgomery, in cui la popolazione di colore boicottò gli autobus pubblici in cui i neri dovevano obbligatoriamente cedere il posto ai bianchi, fu portata sullo schermo solo nel 1990 con La lunga strada verso casa di Richard Pearce.
Il simbolo mediatico di questa radicalizzazione non sta dunque nei film hollywoodiani, ma nella celebre immagine dei due atleti neri, vincitori delle medaglie d’oro e d’argento nei quattrocento metri che, alle Olimpiadi di Città del Messico, abbassano la testa durante l’inno statunitense, e alzano la mano guantata di nero, emblema del Black Power.

''Fa la cosa giusta''E con gli anni Ottanta che la svolta politica, sociale e culturale – ovvero l’esistenza di una borghesia nera, purtroppo incapace o impossibilitata a trascinare nel progresso anche gli abitanti dei terribili ghetti metropolitani – s’incarna cinematograficamente nel primo grande autore di colore, Spike Lee.
Uno dei titoli meno visti, ma più interessanti e originali della sua filmografia, è Bus in viaggio, una teatralizzazione innestata, senza forzature,  in un documentario che racconta la grande marcia di protesta organizzata nel 1995 da Louis Farrakhan, allievo di Elijah Muhammad, e poi discepolo di Malcolm X. Quel film rappresenta una sorta di diagramma della vita separata – ma non uniforme – della popolazione di colore americana, un tema che, in realtà è stato sempre il filo conduttore del cinema di Spike Lee. Un “negro non buono e accomodante”, ma certo capace anche di raccontare senza miti il proprio mondo di appartenenza, con film drammatici, ironici e persino tragici: Fa la cosa giusta (1989), He Hot game (1991) Jungle Fever (1991), Clockers (1993), oltre, naturalmente a Malcom X.

''Malcolm X''Abbiamo scelto questi cinque titoli – in mezzo alla ventina di pellicola girate dal regista – è perché esemplificano in maniera straordinaria il passaggio da una drammaturgia, ancora legata alla classicità hollywoodiana, e cioè preordinata e dimostrativa, benché, come si è visto, innestata su istanze riformatrice, ad una esplorazione contemporanea della realtà, visivamente realistica, e soprattutto problematica e contraddittoria.  
E anzi, proprio il film più esposto politicamente e ideologicamente, Malcom X, è anche il più debole, visto che mette in ombra proprio la parte più interessante dell’autobiografia del leader dei “musulmani neri”: il suo essere stato un “negro” che voleva vivere come i bianchi e si dedicava al crimine per raggiungere i suoi scopi.
Invece, Fa la cosa giusta, film quasi rosselliniano/desichiano, ambientato in un quartiere di periferia di New York in cui le minoranze etniche convivono con difficoltà, è un vero invito non già alla rivolta – questa fu l’accusa che venne fatta al regista dall’establishment intellettuale americano, di destra come di sinistra – ma alla consapevolezza e alla razionalità.

''He hot game''Il film successivo, He Hot Game, rimette in gioco la rabbia dei “ghetti”, attraverso la storia di un giovane e talentuoso cestista – figlio di un carcerato, Denzel Washington, condannato per l’omicidio della moglie – che potrebbe diventare l’ennesimo simbolo della diversità “negra”: non più solo un musicista jazz, ma un atleta formidabile che darebbe prestigio all’università dello stato di New York. Insomma, quest’opera, mentre segnala il successo creativo della popolazione di colore, insinua apertamente il dubbio che il ruolo sociale dei neri sia ancora legato al successo nella società dello spettacolo.

''Jungle fever''Il suo capolavoro è però Jungle Fever, film in cui s’incrociano due percorsi narrativi: il primo è la storia d’amore tra un manager nero, sposato, e la sua segretaria bianca; il secondo riguarda le traversie della famiglia del protagonista, Denzel Washington, il cui padre è ossessionato dalla religione, e manifesta un odio verso il figlio minore che si droga e verso il maggiore che si è accoppiato con una bianca. Come è più di Fa la cosa giusta, anche questa pellicola scava nella vita quotidiana e nelle tragedie interne e esterne della popolazione di colore, mostrando appunto non già la segregazione di un tempo, ma la difficoltà di amalgamare una comunità divisa tra emarginazione estrema e successo sociale, tra agiatezza borghese e “apartheid” naturale, imposto dalla storia ai genitori che non vogliono più alcun legame con i bianchi.

''Clockers'Sottovalutato, ma altrettanto bello è infine Clockers, un “noir” dostoevskiano, in cui, di nuovo, viene descritta, con estremo realismo, la realtà dei ghetti metropolitani in cui la droga e la delinquenza diffusa, accettata quasi come una condizione sociale naturale, hanno creato una società separata che travolge anche gli adolescenti.
Insomma, prima di quest’ultima ondata di rivalse storiche e pentimenti filmici che sfiorano l’oscar, siamo riusciti a vedere dei veri capolavori firmati da un regista nero. Accanto a questo fenomeno, che sembra aver trovato la sua continuità con il successo crescente di Lee Daniels, abbiamo assistito all’affermazione del secondo divo di colore nella storia del cinema americano: Denzel Washington, anche lui premiato con l’oscar per Glory (1995) e Training Day (2004).
In che cosa si differenzia da Sidney Poitier? Principalmente per il fatto che, pur essendo impegnato nelle battaglie anti razziste ed aver interpretato spesso personaggi in cui si evidenziano questi suoi impegni, non ha bisogno di essere riconosciuto attraverso quella caratterizzazione. È solo un grande attore.

19 febbraio 2014

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